«Amare è un tremendo pericolo»
Una recensione – in gran ritardo – a «La stanza di Giovanni» di James Baldwin (*)
Quando in Francia c’era la pena di morte; non molto tempo fa. Quando in Francia regnava l’omofobia: ora un po’ meno? E quando James Baldwin era agli inizi della “carriera” (un ventennio o poco più) di scrittore.
«La stanza di Giovanni» (Le lettere 2001, traduzione di Alessandro Clericuzio: 190 pagine per 14,50 euri) uscì nel 1956: è il secondo romanzo di Baldwin dopo «Gridalo forte» e prima di «Un altro mondo», romanzo fondamentale per la mia formazione (e non credo solo la mia) letteraria ma anche emotiva e culturale.
«Sono in piedi davanti alla finestra […] la notte che mi porterà al mattino più tremendo della mia vita». Così le prime righe del romanzo. «Riflesso nei vetri […] mi vedo alto, longilineo, dritto come una freccia, il biondo dei miei capelli si illumina». Dunque il protagonista non è Baldwin: almeno in apparenza perché da quando Flaubert ha detto «madame Bovary sono io» ogni dubbio è legittimo.
Protagonista è David, un giovane, benestante, biondo «americano» (cioè statunitense) da tempo in Francia. I ricordi si accavallano. E’ a Parigi che David conosce Hella, pensando «che sarebbe stato divertente divertirsi con lei». Restano insieme. Parlano di sposarsi ma per David sembra «non abbia mai significato» granché e si illude che lo stesso sia per lei… ma questo non capire se stessi e gli altri, non comunicare è uno dei nodi della vicenda che neanche la tremenda ghigliottina può sciogliere. Bugie e rimozioni regolano la vita di David. Così quando David incontra il bell’italiano Giovanni – è in fuga da una storia tragica ma la si conoscerà solo verso la fine del libro – gli torna in mente di aver già fatto l’amore con un ragazzo, Joey. Ma lo nega come un tempo aveva voluto negarlo a se stesso per paura: «una caverna si spalancò nella mia mente, nera, piena di chiacchiere, di insinuazioni, di storie mezzo sentite, mezzo dimenticate, mezzo capite, piene di parole sconce».
Dopo la storia con Joey e in un difficile rapporto con suo padre, David si getta – e si stanca – in «fiumi di alcool senza gioia, amicizie veloci, entusiasti, calorose e totalmente insignificanti, foreste di donne disperate…». Così decide di partire. O di fuggire. Di imbarcarsi per la Francia. «Forse, come diciamo in America, volevo trovare me stesso. Questo è un modo di dire interessante, che io sappia non in uso nelle lingue di altri popoli, che sicuramente non significa ciò che dice ma tradisce il preoccupante sospetto che qualcosa sia finito nel posto sbagliato».
Senza svelare troppo della trama, anche per rispettare gli incastri narrativi, accennerò due temi. La claustrofobia: delle stanze prima e poi delle celle ma in realtà dei (non) sentimenti, del (non) comunicare. E soprattutto il non amore: quando sia Giovanni che Hella accusano David di fare l’amore senza farlo con nessuno («o con chiunque, ma non con me di sicuro») chiunque stia leggendo dà loro ragione ma David crede a tutte le sue bugie, dunque pensa di sapere cosa significhi amare.
Nella scrittura – ben lo sa chi ha letto qualcosa di suo – Baldwin è bravissimo a spiegare i meccanismi (anche del pregiudizio) senza fare comizi o prediche. A esempio gli basta una frase come «Fu una fortuna quindi che Giovanni fosse uno straniero» per denunciare mille ipocrisie sociali.
Citazioni e suggestioni?
In primo luogo, una frase (involontariamente ironica) di Hella: «A cosa serve un americano che non è felice?».
Poi. Forse «il mondo è diviso in pazzi che ricordano e pazzi che dimenticano. Gli eroi sono rari». Vero quel che dice Jacques, un non simpatico co-protagonista: «Qualcuno ti avrebbe dovuto dire che non sono mai state molte le persone morte d’amore. Ma milioni di persone sono morte e stanno morendo per mancanza d’amore». Forse è vero pure che a chiunque può capitare, come a Giovanni, di pensare: «in quel momento mi resi conto che Giuda e il salvatore erano tutti e due dentro di me». E terribilmente vero quel che, quasi alla fine del romanzo, Baldwin scrive «sull’amore che diventa odio, sul cuore che si raffredda quando muore l’amore». Vero, verissimo quel che disse Baldwin in un’intervista: «La cosiddetta persona normale [eterosessuale] non è più al sicuro di me. Amare qualsiasi persona ed essere amati è un tremendo pericolo, una tremenda responsabilità».
Ed è proprio questa citazione che apre l’ottima postfazione di M. Giulia Fabi: «Sono molti i motivi che rendono “La stanza di Giovanni” indimenticabile […] ma quello che torna più vividamente alla memoria è la sua bellezza. La bellezza delle descrizioni dei colori, delle stagioni, della “fisicità” di Parigi: la sensuale bellezza di Giovanni […] la poetica bellezza di un linguaggio che sfida la durezza delle situazioni che descrive […] Non da ultimo, la bellezza scaturisce dal fascino dei molteplici approcci di lettura che il romanzo suggerisce». Poi il ragionamento di Giulia Fabi si concentra sulla presunta «posizione anomala» di questo romanzo all’interno «dell’ampia produzione letteraria di Baldwin, uno degli autori più importanti, influenti e amati della letteratura americana del Novecento. Alla fine della sua postfazione, Giulia Fabi affida il ricordo di Baldwin all’orazione funebre di Amiri Baraka (alias Leroy Jones): «Ci fece sentire […] che potevamo difendere e definire noi stessi, che eravamo nel mondo non solo come schiavi animati ma come indicatori terribilmente sensibili di ciò che è buono o cattivo, bello o brutto. Questo è il potere del suo spirito. Questo è il legame che ce lo fece amare».
Mi è venuta una gran voglia di rileggere «Un altro mondo» e altri romanzi (e saggi) di Baldwin ma anche «Dibattito sulla razza», una lunga conversazione che ebbe, nel 1971, con l’antropologa Margaret Mead.
(*) Questa sorta di recensione va a collocarsi nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita e probabilmente continuerà a capitarmi di non parlare tempestivamente in blog di alcuni bei libri pur letti e apprezzati. Perché accade? A volte nei giorni successivi alle letture sono stato travolto (da qualcosa, qualcuna/o, da misteriosi e-venti, dal destino cinico e baro, dalla stanchezza, dal super-lavoro, dai banali impicci del quotidiano +1, +2 e +3… o da chi si ricorda più); altre volte mi è accaduto di concordare con qualche collega una recensione che poi rimaneva sospesa per molti mesi fino a “morire di vecchiaia”. Ogni tanto rimedio in blog a questi buchi, appunto chiedendo venia. Però, visto che fra luglio e agosto ho deciso di recuperare un bel po’ di queste letture e di aggiungerne altre, mi sa che alla fine queste recensioni recuperate e fresche terranno un ritmo “agostano” quasi quotidiano, così da aggiornare in “un libro al giorno toglie db di torno” quel vecchio detto paramedico sulle mele. D’altronde quando ero piccino-picciò e ancora non sapevo usare bene le parole alla domanda «che farai da grande?» rispondevo «forse l’austriaco (intendevo dire “astronauta” ma spesso sbagliavo la parola) oppure «quello che gli mandano a casa i libri, lui li legge e dice se van bene, se son belli». Non sono riuscito a volare oltre i cieli, se non con la fantasia; però ogni tanto mi mandano i libri … e se no li compro o li vado a prendere in biblioteca, visto che alcuni costano troppo per le mie attuali tasche. «Allora fai il recensore?» mi domandano qualche volta. «Re e censore mi sembrano due parolacce» spiego: «quel che faccio è leggere, commentare, cercare connessioni, accennare alle trame (svelare troppo no-no-no, non si fa), tentare di vedere perché storia, personaggi e stile mi hanno catturato». Altra domanda: «e se un libro non ti piace, ne scrivi lo stesso?». Meditando-meditonto rispondo: «In linea di massima ne taccio, ci sono taaaaanti bei libri di cui parlare perché perder tempo a sparlare dei brutti?». (db)