Brasile: Lula condannato da una dittatura a bassa intensità

Le forze armate minacciano di far tornare l’orologio della storia al golpe del 1964.
Dietro la persecuzione politica contro l’ex presidente si nasconde una campagna per far tacere ogni forma di dissenso nel Paese.
di David Lifodi (*)

In Brasile, uno dei paesi con il maggior numero di persone dalla pelle nera, la storia la scrivono (e la impongono agli altri) i bianchi, il potere e la ricchezza rimangono saldamente nelle mani dei bianchi e del grande latifondo e la vita di un’intera nazione è scandita, ancora una volta, sulla base sulla base delle esigenze della parte più ricca dello stato, a scapito di neri, favelados, indios, contadini senza terra e militanti per la giustizia sociale.

Tutto ciò spiega il motivo dell’accanimento giudiziario contro l’ex presidente brasiliano Lula, costretto a conoscere il carcere (per ora) a seguito di delazioni premiate e fatto passare di fronte all’opinione pubblica come un ladro e corruttore, pur senza alcuna prova certa, nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato. Nel 1964, quando il presidente Janio Quadros fu rovesciato dai militari, questi ultimi promisero di ristabilire l’ordine costituzionale in un solo giorno. In realtà, la dittatura si protrasse fino al 1985, per la gioia del quotidiano O’ Globo, che allora titolò “Risorge la democrazia” e oggi festeggia la detenzione di Lula, dopo aver già propiziato il colpo di stato ordito contro Dilma Rousseff. Attualmente lo scenario politico non è troppo diverso da quello del 1964, a partire dai bellicosi proclami dei vertici delle forze armate. Come ha scritto Luciana Castellina, sul manifesto dell’8 aprile, la colpa di Lula è stata quella di aver reso possibile un altro mondo.

A Lula, come del resto a Dilma, l’oligarchia non ha perdonato niente e, ad entrambi, non è stato permesso nemmeno di perseguire la strada di quella conciliazione di classe all’insegna del famoso slogan “Lulinha paz e amor” che ha comunque permesso a milioni di diseredati e sfruttati di uscire dalla marginalità. Se le elezioni si tenessero oggi e non il prossimo ottobre, Lula avrebbe comunque grandi chance di vittoria, ma se oltre al carcere la magistratura riuscirà a fare in modo che sia escluso e, seppur in cella, non possa partecipare alla competizione elettorale, il rischio peggiore è che possa sedere al Planalto Jair Bolsonaro, uno dei peggiori politici che abbia mai avuto il Paese, razzista, fascista e apertamente contro i diritti civili, una sorta di Trump in salsa brasiliana, addirittura peggiore di quel Michel Temer la cui popolarità è già da tempo a picco.

L’obiettivo del giudice Sérgio Moro, tuttavia, non è limitato soltanto a distruggere la carriera politica di Lula, quanto, piuttosto quello di farla finita con tutti coloro che si identificano in quell’operaio metallurgico giunto alla guida del paese attraverso durissime lotte a livello politico e sindacale. Incarcerare Lula significa incarcerare gli ideali democratici di milioni di brasiliani, che non si riconoscono nel potere economico, nell’oligopolio mediatico e nell’alleanza tra il capitale transnazionale e l’oligarchia terriera. Grazie a Wikileaks è emerso che Moro nel 2009 aveva partecipato ad un incontro dal titolo Projeto Pontes che si tenne a Rio de Janeiro. In quell’occasione parteciparono giudici federali e magistrati dei 26 stati brasiliani, tra cui lo stesso Moro, che già allora si mostrò molto interessato alle proposte della delegazione statunitense, incentrate sulle modalità per migliorare il sistema giuridico brasiliano. Il risultato è questo: una vera e propria persecuzione politica nei confronti di Lula, alimentata da una campagna di pressione sul Tribunale Supremo Federale affinché legiferasse per costringere l’ex presidente al carcere e impedire la sua nuova candidatura.

Nelle caserme, la parola d’ordine “Intolleranza contro la corruzione” è qualcosa di più di uno slogan, ma risuona come un minaccioso avvertimento nei confronti di quel Brasile che si è mobilitato per Lula, la cui carovana elettorale fino a pochi giorni fa aveva percorso il paese dovendo far fronte anche ad un attacco di chiara matrice fascista. Oggi, la democrazia a cui si appella l’informazione mainstream capitanata da O’ Globo risiede nella speranza (per loro) di far tornare il paese nelle mani di coloro che hanno sempre guardato con simpatia al colpo di stato del 1964. Fin dalla vittoria di Fernando Collor de Mello su Lula, O’ Globo ha fatto la guerra all’allora leader del sindacato degli operai di São Bernardo do Campo, la cintura industriale di San Paolo divenuta la culla politica dell’ex presidente. Lula e poi Dilma, finora erano riusciti a restituire cittadinanza politica a tutti quei brasiliani messi ai margini, esclusi dalle elites economiche. Per ora stanno vincendo loro, ma non è finita.

“Occuperemo le strade del Brasile e dovranno convivere con la nostra resistenza”, giurano i movimenti sociali brasiliani, nella speranza di gettare qualche sassolino negli ingranaggi di quello che sempre più si va configurando come un processo golpista-parlamentare-giudiziario-mediatico.

(*) tratto da Peacelink – 9 aprile 2018

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *