Cosa significa giocare a calcio da arabi in Israele

Le loro storie accontano molti aspetti del conflitto: a volte celebrati in quanto simboli di integrazione, ma ignorati quando denunciano il razzismo subito; idoli dei tifosi arabi che vivono in Israele, ma allo stesso tempo anche guardati con sospetto dai palestinesi d’oltre confine e da chi ne sostiene la causa.

di Valerio Moggia (*)

Proprio nei minuti finali della gara contro l’Italia, con un tiro preciso e inaspettato il centrocampista Mohammad Abu Fani ha trovato il gol della bandiera per Israele, nella seconda gara del girone di Nations League. Al di là dell’aspetto puramente sportivo – e scarsamente rilevante in termini di risultato – questo gol ha avuto un peso soprattutto per via del suo autore, un mediano di 26 anni di origini arabe. Abu Fani è solo l’ultimo esempio di calciatore arabo nato e cresciuto in Israele e che ha deciso di rappresentare la selezione di Tel Aviv, con una scelta che a molti può risultare incomprensibile – se non proprio criticabile – visto ciò che da un anno sta accadendo nella Striscia di Gaza, e in generale visti i rapporti storici tra Israele e Palestina. Eppure le storie dei calciatori arabi-israeliani meritano di essere riportate nella loro interezza, perché raccontano molti aspetti di questo confitto etnico: a volte celebrati in quanto simboli di integrazione, ma in buona sostanza ignorati quando denunciano il razzismo subito; idoli dei tifosi arabi che vivono in Israele, ma allo stesso tempo anche guardati con sospetto dai palestinesi d’oltre confine e da chi ne sostiene la causa.

La storia di Mohammad Abu Fani l’ho raccontata di recente su InsideOver. È nato a Kafr Qara, un villaggio arabo a 6 km dal confine della Cisgiordania e a 35 km a sud di Haifa. È cresciuto nel Maccabi Haifa, una delle squadre tradizionalmente ritenute più inclusive in Israele, sia verso la popolazione araba musulmana sia verso l’altra, spesso dimenticata, minoranza etnica del paese, i drusi. Abu Fani non ha mai parlato di politica, ma questo non gli ha evitato di ricevere insulti razzisti durante le partite di campionato, in particolare da parte degli ultras di Maccabi Tel Aviv e Beitar Gerusalemme – le due tifoserie più di destra del paese – e addirittura quando ha vestito la maglia della Nazionale. Nel giugno del 2023, mentre giocava contro Andorra a Gerusalemme, è stato bersaglio di varie offese da parte del pubblico locale, che lo ha chiamato anche “terrorista”. Abu Fani ha denunciato la cosa, chiedendo alla politica – subito affrettatasi a prendere le sue difese – azioni concrete per impedire ai razzisti di entrare ancora in uno stadio, ma nulla di tutto questo è avvenuto. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, ha condannato sui social Hamas, ma si è anche lamentato che, ogni qualvolta si verificano attacchi terroristici, gli ebrei-israeliani pretendano dagli arabi una presa di distanze da gesti con cui non hanno nulla a che fare.

A questo punto verrebbe logico porsi una domanda: in una situazione del genere, perché Abu Fani gioca ancora per Israele? La questione è molto più complicata di quanto non si potrebbe immaginare: per un giocatore arabo nato e cresciuto in Israele, spesso questa è una scelta normale. Persone come Abu Fani spesso discendono da famiglie radicate in villaggi che sono ormai territorio israeliano, e che non hanno alcun particolare contatto con persone al di là dei confini della Cisgiordania o, ancor di più, della Striscia di Gaza (che dista oltre 130 km da Kafr Qara, per intenderci). Dopodiché subentrano anche ragioni economiche e sociali: in Israele è possibile avere una carriera da calciatore professionista guadagnando un buono stipendio, partecipando alle prestigiose competizioni UEFA e magari riuscendo anche a ottenere un ingaggio in un importante club europeo (nell’estate del 2023, Abu Fani si è trasferito al Ferencváros, in Ungheria). Tutte queste cose, in Palestina, sono invece molto più complicate da ottenere. Questa scelta di campo politico è dunque anche una scelta di carriera e di vita, che non è però resa semplice nemmeno dalle autorità calcistiche palestinesi.

Nel maggio 2020 un caso ha fatto particolarmente discutere gli appassionati di calcio in Palestina: quello di Abdallah Jaber, terzino sinistro allora 27enne e ritenuto uno dei migliori calciatori palestinesi in circolazione. Jaber è nato a Tayibe, una cittadina israeliana a maggioranza araba, praticamente attaccata alla Cisgiordania. È cresciuto nell’Hapoel Nir Ramat HaSharon, fino a quando nel 2013, a soli 20 anni, non ha preso una decisione sorprendente: trasferirsi all’Hilal Al-Quds, club di Gerusalemme Est che milita nel campionato cisgiordano. L’anno successivo ha ricevuto la prima convocazione con la Palestina, diventando un sorta di idolo dei tifosi, sia per i suoi valori tecnici sia per aver deciso di abbandonare Israele per rappresentare la selezione araba, di cui è diventato il quinto giocatore con più presenze nella storia. Quando però ha deciso di tornare in Israele, firmando con l’Hapoel Hadera, la federcalcio PFA ha deciso che non avrebbe più potuto essere convocato in Nazionale, e i tifosi lo hanno additato come un traditore.

Abdallah Jaber in campo con la Palestina. Suo fratello minore Mahmoud gioca ancora nel Maccabi Haifa e dal 2022 rappresenta Israele.

Come ha spiegato Football Palestine, la PFA non vede di buon occhio i trasferimenti in Israele, e in passato ha spesso cercato di fare ostruzionismo in ogni modo, specialmente a livello burocratico. In più, il caso di Jaber presenta motivazioni che vanno al di là dell’aspetto politico vero e proprio: lo scoppio della pandemia del Covid-19 aveva causato grossi problemi ai club cisgiordani, molti dei quali avevano smesso di pagare gli stipendi ai loro giocatori. Alla scadenza del suo contratto con l’Hilal Al-Quds, Jaber aveva allora deciso di trasferirsi in un club più stabile, che gli garantisse i soldi necessari per vivere, e aveva accettato l’offerta arrivata da Israele. Dalla sua parte si era schierato pubblicamente anche Rami Hamadi, portiere della Palestina e suo compagno di squadra all’Hilal Al-Quds, dicendo che un giocatore che si trasferisce in Israele merita di essere supportato proprio come qualsiasi altro palestinese che va a lavorare al di là della Linea Verde. Nello stesso periodo, anche Hamadi lasciò il suo club in Cisgiordania, firmando per il Bnei Sakhnin, per le stesse ragioni contrattuali che avevano costretto Jaber a cambiare squadra, ma nel caso del portiere la PFA non decise alcuna esclusione dalla Nazionale, dato che il Bnei Sakhnin è un club arabo-israeliano. Nel 2021, anche Jaber si è trasferito in questa squadra, ma ciò non è bastata a riottenere la convocazione.

La questione dell’eleggibilità per una selezione nazionale è molto importante nel confronto calcistico tra Israele e Palestina. La PFA, generalmente, non chiama in Nazionale chi gioca nella Ligat Ha’Al – il campionato israeliano – a meno che non lo faccia per un club arabo: sono stati questi i casi anche di Omar Nahfawi del Maccabi Ahi Nazareth, Reebal Dahamseh del Hapoel Nof HaGalil, e di Abdelhadi Yasin del Bnei Sakhnin, per fare alcuni esempi. Ci sono poi casi più particolari, come quello di Ataa Jaber (solo omonimo di Abdallah Jaber), nato a Majd Al-Krum – un villaggio arabo a 40 km dalle alture del Golan e ad altrettanti dal Libano – che ha giocato come mediano nel Maccabi Haifa, nell’Ashdod e nell’U21 israeliana, prima di trasferirsi nel 2022 in Azerbaijan al Neftçi Baku. Una volta all’estero, Jaber ha ottenuto la possibilità di scendere in campo per la Palestina, debuttando nel giugno 2023. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, il Ministro della Cultura e dello Sport israeliano Miki Zohar ha chiesto che al calciatore venisse ritirata la cittadinanza di Israele, dato che aveva partecipato a un minuto di silenzio per i morti a Gaza, durante un match con la squadra palestinese.

Dal lato israeliano del confine, la vita per i calciatori arabi non è dunque più semplice, come dimostra il caso già citato di Abu Fani (che peraltro aveva ricevuto il sostegno, dopo gli insulti razzisti di Gerusalemme, proprio del ministro Zohar). “In Israele insegnano ai giocatori arabi che lo sport non va mescolato con la politica, che rappresenti la tua comunità, che non hai bisogno di cantare l’inno israeliano” ha raccontato Ataa Jaber ad Arab News. Il centrocampista del Neftçi Baku ha detto di aver deciso di non rappresentare più Israele dopo le proteste arabe del maggio 2021 nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, ma che solo parlando con Rami Hamadi, suo compagno di squadra al Bnei Sakhnin, aveva scoperto che esisteva una selezione palestinese e che era possibile, anche per un arabo-israeliano, vestirne la maglia. Possibile, ma non certo semplice: gli ci sono voluti due anni per ottenere il passaporto, oltre appunto al trasferimento all’estero. “C’è la paura, tra i calciatori palestinesi all’interno della Linea Verde, che decidere di rappresentare la Palestina li possa privare della loro principale fonte di guadagno” ha aggiunto Jaber.

Ciò che previene a molti arabi-israeliani dal diventare a tutti gli effetti calciatori palestinesi è dunque un insieme di scarsa conoscenza del percorso da seguire, di ostacoli economici e burocratici. Per i più bravi, rappresentare Israele è dunque un percorso logico e più conveniente. Da decenni, la selezione di Tel Aviv annovera tra le sue fila giocatori arabi, alcuni dei quali sono stati molto amati dai tifosi israeliani e sono divenuti anche dei simboli per la comunità araba locale: Rifaat Turk, negli anni Settanta (che dopo il ritiro è divenuto anche sindaco di Tel Aviv per il partito di sinistra Meretz), oppure Zahi Armeli, nel decennio successivo. Ma l’inclusione degli arabi nella Nazionale israeliana non indica automaticamente la piena accettazione sociale di questi giocatori (e cittadini). Il caso più emblematico è quello di Dia Saba, centrocampista offensivo del Maccabi Haifa che alla fine del 2023 è stato travolto dalle critiche dei tifosi, dopo che sua moglie aveva pubblicato su Instagram un post contro il massacro di palestinesi a Gaza il 7 ottobre. Saba venne accusato di essere vicino ad Hamas per il solo fatto che la moglie aveva scritto “Ci sono bambini anche a Gaza!” e perché non aveva condannato pubblicamente gli attacchi. Yaniv Katan, leggenda del Maccabi Haifa tra il 1998 e il 2014, disse che Saba non avrebbe mai più dovuto indossare la maglia del club.

Con il Maccabi Haifa, Dia Saba ha vinto il campionato e la Supercoppa israeliani nel 2023, oltre al titolo di capocanniere della Liga Ha’Al nel 2018.

Come detto all’inizio di questo articolo, il Maccabi Haifa era considerato un simbolo di inclusione in Israele, ma il caso di Dia Saba ne ha rapidamente sgretolato la reputazione, come ha raccontato anche il Washington Post. A quanto successo ha di sicuro contribuito il fatto che 44 tifosi del Maccabi sono stati uccisi negli attacchi del 7 ottobre, ma ciò non toglie che la reazione contro Saba sia stata esagerata: nonostante le scuse pubbliche, i fan lo hanno accusato di essere un simpatizzante di Hamas e hanno chiesto alla società di licenziarlo. Da ottobre, non è più stato convocato con il Maccabi, e nel gennaio 2024 è stato mandato in prestito negli Emirati Arabi Uniti; solo nella nuova stagione ha potuto fare ritorno nella sua squadra originaria, riprendendo a giocare da titolare dopo che le polemiche si erano placate. Ma Saba non è stato l’unico calciatore arabo-israeliano a venire ostracizzato per delle prese di posizione in favore della popolazione palestinese: la stessa cosa è accaduta anche a Munas Dabbur, indubbiamente il più importante calciatore arabo ad aver mai rappresentato Israele.

Dabbur è nato a Nazareth, una città araba 40 km a est di Haifa e 25 a nord del confine della Cisgiordania. È cresciuto nel Maccabi Bnei Nazareth e poi è passato al Maccabi Tel Aviv, dove si è affermato come uno dei migliori calciatori della sua generazione in Israele, aprendosi la strada a una brillante carriera internazionale: dal 2014 al 2023 ha giocato con Grasshoppers, Red Bull Salisburgo, Siviglia e Hoffenheim. Nel 2011 ha debuttato con l’U19 di Israele, e tre anni dopo ha fatto il suo esordio con la Nazionale maggiore. Nel giugno del 2013 – mentre infuriavano le proteste della minoranza palestinese nel paese – Dabour partecipava agli Europei U21 ospitati proprio nello Stato Ebraico: “È un grande onore per me rappresentare Israele” confessava Dabbur alla CNN, aggiungendo di essere “orgoglioso” per aver ricevuto la convocazione. Poi, a maggio 2021, condannava la violenta repressione dei manifestanti palestinesi davanti alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, scrivendo su Instagram: “Dio si occuperà dei perpetratori di ingiustizia”, e passava rapidamente da idolo a nemico. Sebbene avesse in seguito precisato che la sua era una denuncia dell’uso spropositato della forza sui manifestanti pacifici, e che tra le persone ferite dalla polizia c’era anche un suo parente, nelle successive partite di Israele Dabbur venne costantemente fischiato dal pubblico. Nel luglio del 2022, a soli 30 anni, annunciava il suo ritiro dalla Nazionale: anche se non aveva specificato il motivo, a tutti era chiaro che era una reazione alle critiche subite per i suoi commenti contro la repressione.

Attualmente, nella squadra maggiore israeliana giocano più o meno regolarmente quattro arabi: Mahmoud Jaber, 25 anni, mediano del Maccabi Haifa e fratello minore di Abdallah Jaber; Anan Khalaily, ala 20enne del Maccabi Haifa, figlio di genitori originari di Sakhnin; Ramzi Safouri, trequartista 28enne nativo di Jaffa (65 km a nord del confine di Gaza e 30 km da quello della Cisgiordania), impegnato in Turchia con l’Antalyaspor; e Mohammed Kna’an, attaccante di 24 anni dell’Ashdod, nato a Majd Al-Krum. Nella Palestina, contando anche Rami Hamadi e Ataa Jaber, ci sono attualmente nove giocatori nati in Israele: la stella Oday Dabbagh, 25enne attaccante dello Charleroi, proviene da Gerusalemme, proprio come Tamer Seyam, 31enne attaccante che gioca in Malaysia; Mousa Farawi, difensore di 26 anni che gioca in Egitto; Samer Jondi, terzino sinistro di 27 anni impegnato in Libia; e Zaid Qunbar, punta di 22 anni in forza ai palestinesi dello Jabal Al-Mukaber. Gli altri sono Mohammed Darweesh, mediano dell’Hilal Al-Quds, 33 anni, nato a Fureidis, 25 km a sud di Haifa; Mohammed Yameen, 29enne di Tel Aviv, centrocampista del Jabal Al-Mukaber; Alaa Aldeen Hassan, ala di Mashdad, vicino Nazareth, che a 24 anni gioca in Qatar; e Ameed Mahajna, 27 anni, difensore impegnato anche lui in Qatar e nato a Umm al-Fahm, 45 km a sud-est di Haifa e sul confine con la Cisgiordania. Ognuno di loro potrebbe raccontare una storia diversa.

(*) Testo e foto originali: https://pallonateinfaccia.com/2024/09/15/cosa-significa-giocare-a-calcio-da-arabi-in-israele/#more-10250

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