BlackRock farà finire la guerra in Ucraina?

articoli e video di Chris Hedges, Alberto Bradanini, Elena Basile, Víctor e Alba

L’IMMINENTE CROLLO DELL’IMPERO AMERICANO – Chris Hedges

Il mondo come lo conosciamo è gestito da una classe esclusiva di gangsters americani che hanno a loro disposizione armi e denaro virtualmente illimitati.

La percezione pubblica dell’Impero Americano, almeno per coloro che negli Stati Uniti non hanno mai visto l’impero dominare e sfruttare i “miserabili della terra”, è radicalmente diversa dalla realtà.

Queste illusioni artificiali, di cui Joseph Conrad aveva scritto in modo così preveggente, presuppongono che l’impero sia una forza per il bene. L’impero, ci viene detto, promuove la democrazia e la libertà. Diffonde i benefici della “civiltà occidentale”.

Si tratta di inganni ripetuti ad nauseam da media compiacenti e sciorinati da politici, accademici e potenti. Ma sono bugie, come sanno tutti coloro che hanno trascorso anni a fare reportage all’estero.

Matt Kennard nel suo libro The Racket – in cui racconta di Haiti, Bolivia, Turchia, Palestina, Egitto, Tunisia, Messico, Colombia e molti altri Paesi – squarcia il velo. Espone i meccanismi nascosti dell’impero. Ne descrive la brutalità, la mendacità, la crudeltà e le pericolose auto-illusioni.

Nell’ultima fase dell’impero, l’immagine venduta ad un pubblico credulone inizia ad incantare gli stessi mandarini dell’impero. Essi prendono decisioni basate non sulla realtà, ma sulle loro visioni distorte della realtà, colorate dalla loro stessa propaganda.

Matt lo definisce “il racket”. Accecati dall’arroganza e dal potere, arrivano a credere ai loro stessi inganni, spingendo l’impero verso il suicidio collettivo. Si ritirano in una fantasia in cui i fatti, duri e spiacevoli, non si intromettono più.

Sostituiscono la diplomazia, il pluralismo e la politica con minacce unilaterali e con lo strumento contundente della guerra. Diventano i ciechi architetti della loro stessa distruzione.

Matt scrive: “Un paio di anni dopo la mia iniziazione al Financial Times alcune cose avevano iniziato a diventare più chiare. Mi ero reso conto della differenza tra me e il resto delle persone che lavoravano nel racket: gli operatori dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), gli economisti del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e così via.”

E continua: “Man mano che capivo come funzionava davvero il racket, iniziavo a vederli come dei volenterosi imbroglioni. Non c’è dubbio che sembrassero credere nella virtù della missione; erano imbevuti di tutte le teorie che avevano lo scopo di mascherare lo sfruttamento globale con il linguaggio dello ‘sviluppo’ e del ‘progresso’. L’ho visto con gli ambasciatori americani in Bolivia e ad Haiti, e con innumerevoli altri funzionari che ho intervistato“.

Credono davvero a questi miti“, conclude, “e, naturalmente, sono pagati profumatamente per farloPer aiutare questi agenti del racket ad alzarsi la mattina [con la coscienza a posto] esiste, in tutto l’Occidente, un nutrito esercito di intellettuali il cui unico scopo è quello di rendere il furto e la brutalità accettabili per la popolazione generale degli Stati Uniti e dei suoi alleati nel racket“.

Gli Stati Uniti avevano compiuto uno dei più grandi errori strategici della loro storia, che aveva suonato la campana a morto dell’impero, quando avevano invaso e occupato per vent’anni l’Afghanistan e l’Iraq.

I pianificatori bellici alla Casa Bianca di George W. Bush, e la schiera di utili idioti della stampa e del mondo accademico che avevano fatto da cheerleader, sapevano molto poco dei Paesi invasi. Credevano che la superiorità tecnologica rendesse invincibili gli americani.

Erano stati colti alla sprovvista dal feroce ritorno di fiamma e dalla resistenza armata che li aveva portati alla sconfitta. Chi di noi conosce il Medio Oriente – sono stato capo ufficio del New York Times per il Medio Oriente, parlo arabo e ho lavorato nella regione per sette anni – lo aveva previsto.

Ma chi era intenzionato a fare la guerra preferiva una fantasia confortante. Avevano affermato, e probabilmente creduto, che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa, anche se non esistevano prove valide a sostegno di questa affermazione.

Avevano insistito sul fatto che la democrazia si sarebbe radicata a Baghdad e poi diffusa in tutto il Medio Oriente. Avevano assicurato il pubblico che le truppe statunitensi sarebbero state accolte come liberatori da iracheni e afghani riconoscenti. Avevano promesso che i proventi del petrolio avrebbero coperto i costi della ricostruzione.

Avevano insistito sul fatto che l’audace e rapido attacco militare – “shock and awe” – avrebbe ripristinato l’egemonia americana nella regione e il dominio sul mondo. Invece era successo il contrario. Come aveva fatto notare Zbigniew Brzeziński, questa “particolare guerra unilaterale contro l’Iraq ha catalizzato una generale delegittimazione della politica estera degli Stati Uniti“.

Lo Stato in guerra

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’America è diventata una stratocrazia – un governo dominato dai militari. Ci si prepara costantemente alla guerra. Gli enormi bilanci della macchina bellica sono sacrosanti. Gli sprechi e le frodi da miliardi di dollari vengono ignorati.

I fallimenti militari nel Sud-Est asiatico, in Asia centrale e in Medio Oriente scompaiono nel vasto buco nero dell’amnesia storica. Questa amnesia, che significa che non c’è mai responsabilità, autorizza la macchina da guerra a passare da una disfatta militare all’altra mentre distrugge economicamente il Paese.

I militaristi vincono tutte le elezioni. Non possono perdere. È impossibile votare contro di loro. Lo Stato di guerra è un Götterdämmerung, come scrive Dwight Macdonald, “senza gli dei”.

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo federale ha speso più della metà dei soldi delle tasse per le operazioni militari passate, presenti e future. È la più grande attività di sostegno del governo.

I sistemi militari vengono venduti prima di essere prodotti, con la garanzia che gli enormi sforamenti dei costi saranno coperti.

Gli aiuti esteri sono condizionati all’acquisto di armi statunitensi. L’Egitto, che riceve circa 1,3 miliardi di dollari di finanziamenti militari esteri, deve destinarli all’acquisto e alla manutenzione di sistemi d’arma statunitensi.

Israele, invece, dal 1949 ha ricevuto 158 miliardi di dollari in assistenza bilaterale dagli Stati Uniti, quasi tutti dal 1971 sotto forma di aiuti militari, la maggior parte dei quali destinati all’acquisto di armi dai produttori americani.

Gli Stati Uniti finanziano la ricerca, lo sviluppo e la costruzione di sistemi d’arma e poi acquistano questi stessi sistemi d’arma per conto di governi stranieri. È un sistema circolare di welfare aziendale.

Fino a settembre 2022, gli Stati Uniti avevano speso 877 miliardi di dollari per il settore militare. Una cifra superiore a quella dei 10 Paesi che li seguono in classifica, tra cui Cina, Russia, Germania, Francia e Regno Unito, messi insieme.

Queste enormi spese militari, insieme ai costi crescenti di un sistema sanitario a scopo di lucro, hanno portato il debito nazionale degli Stati Uniti ad oltre 31.000 miliardi di dollari, quasi 5.000 miliardi in più dell’intero Prodotto interno lordo (PIL) degli Stati Uniti.

Questo squilibrio non è sostenibile, soprattutto quando il dollaro non sarà più la valuta di riserva mondiale. A gennaio 2023, gli Stati Uniti avevano speso la cifra record di 213 miliardi di dollari per pagare gli interessi sul debito nazionale.

L’impero in casa

La macchina militare, dirottando fondi e risorse verso una guerra senza fine, sventra e impoverisce la sua stessa patria, come illustrano i reportage di Matt da Washington, Baltimora e New York.

Il costo per il pubblico – socialmente, economicamente, politicamente e culturalmente – è catastrofico. I lavoratori sono ridotti al livello di sussistenza e sono sfruttati dalle multinazionali che hanno privatizzato ogni aspetto della società, dall’assistenza sanitaria all’istruzione, fino al complesso carcerario-industriale.

I militaristi distolgono fondi dai programmi sociali e infrastrutturali. Versano denaro nella ricerca e nello sviluppo di sistemi d’arma e trascurano le tecnologie per le energie rinnovabili. Ponti, strade, reti elettriche e argini vanno in rovina. Le scuole decadono. Il settore manifatturiero nazionale è in declino. Il nostro sistema di trasporto pubblico è un disastro.

La polizia militarizzata spara a persone di colore, per lo più disarmate e povere, e affolla un sistema carcerario che detiene uno sconcertante 25% dei prigionieri di tutto il mondo, sebbene gli americani rappresentino solo il 5% della popolazione globale.

Le città, deindustrializzate, sono in rovina. Dipendenza da oppioidi, suicidi, sparatorie di massa, depressione e obesità patologica affliggono una popolazione caduta in uno stato di profonda disperazione.

Le società militarizzate sono terreno fertile per i demagoghi. I militaristi, come i demagoghi, vedono le altre nazioni e le diverse culture a loro immagine e somiglianza – minacciose e aggressive. Cercano solo il dominio. Spacciano l’illusione di un ritorno ad una mitica età dell’oro di potere totale e prosperità illimitata.

La profonda disillusione e la rabbia che hanno portato all’elezione di Donald Trump – una reazione al colpo di Stato corporativo e alla povertà che affligge almeno metà del Paese – hanno distrutto il mito di una democrazia funzionante.

Come osserva Matt: “L’élite americana, che si è ingrassata grazie ai saccheggi all’estero, sta combattendo anche una guerra in casa. Dagli anni ’70 in poi, gli stessi mafiosi dai colletti bianchi hanno vinto una guerra contro il popolo statunitense, sotto forma di una massiccia e subdola truffa. Sono riusciti, lentamente ma inesorabilmente, a svendere gran parte di ciò che il popolo americano possedeva con la scusa di varie ideologie fraudolente come il ‘libero mercato’. Questa è la ‘via americana’, una gigantesca truffa, un grande imbroglio“.

E continua: “In questo senso, le vittime del racket non sono solo a Port-au-Prince e Baghdad, ma anche a Chicago e New York City. Le stesse persone che elaborano i miti su ciò che facciamo all’estero hanno costruito un sistema ideologico simile che legittima il furto in patria; il furto ai più poveri, da parte dei più ricchi. I poveri e i lavoratori di Harlem hanno più cose in comune con i poveri e i lavoratori di Haiti che con le loro élite, ma questo deve essere tenuto nascosto perché il racket funzioni“.

Molte azioni intraprese dal governo statunitense, infatti, danneggiano abitualmente i cittadini più poveri e indigenti”, conclude. “L’accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA) è un buon esempio. Entrato in vigore nel gennaio 1994, aveva rappresentato una fantastica opportunità per gli interessi commerciali statunitensi, in quanto i mercati si erano aperti ad una manna di investimenti ed esportazioni. Contemporaneamente, migliaia di operai statunitensi avevano perso il posto a favore dei lavoratori in Messico, disponibili ad accettare salari ancora più bassi“.

Autoimmolazione

Il pubblico, bombardato dalla propaganda di guerra, esulta per la sua autoimmolazione. Si rallegra della spregevole bellezza delle prodezze militari statunitensi. Parla con i luoghi comuni che distruggono il pensiero, vomitati dalla cultura di massa e dai mass media. Si imbeve dell’illusione di onnipotenza e si crogiola nell’autoadulazione.

Il mantra dello Stato militarizzato è la sicurezza nazionale. Se ogni discussione inizia con una domanda sulla sicurezza nazionale, ogni risposta include la forza o la minaccia della forza. La preoccupazione per le minacce interne ed esterne divide il mondo in amici e nemici, in buoni e cattivi.

Coloro che, come Julian Assange, denunciano i crimini e la follia suicida dell’impero sono perseguitati senza pietà. La verità, una verità che Matt scopre, è amara e dura.

Mentre gli imperi in ascesa sono spesso accorti, persino razionali, nell’applicazione della forza armata per la conquista e il controllo dei domini d’oltremare, gli imperi in declino sono inclini ad esibizioni di potere sconsiderate e sognano audaci capolavori militari che possano, in qualche modo, far recuperare il prestigio e il potere perduti“, scrive lo storico Alfred McCoy. “Spesso irrazionali anche dal punto di vista imperiale, queste micro-operazioni militari possono comportare spese ingenti o sconfitte umilianti che non fanno altro che accelerare il processo già in atto“.

È fondamentale che ci rendiamo conto di ciò che abbiamo davanti. Se continueremo a lasciarci incantare dalle immagini sulle pareti della caverna di Platone, immagini che ci bombardano sugli schermi giorno e notte, se non riusciremo a capire come funziona l’impero e la sua autodistruttività, tutti noi, soprattutto con l’incombente crisi climatica, scenderemo in un incubo hobbesiano in cui gli strumenti di repressione, così familiari alla periferia dell’impero, porteranno a terrificanti Stati totalitari governati dalle multinazionali.

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BlackRock pretende il pagamento delle quote dovute con scadenza primo agosto. Oggi come oggi metà dell’Ucraina è della Russia, l’altra metà è di Blackrock. Blackrock e gli altri fondi vogliono cominciare a vedere i soldi, subito.

I prestiti concessi da BlackRock sono garantiti da terre fertili per un valore di quattro volte il prestito, un affare, peccato che la maggior parte di quelle terre sono ormai in Russia.

Sarà “merito” di BlackRock la fine della guerra in Ucraina?…

 

 

Parlano di guerra etica per coprire gli interessi – Elena Basile

Carl von Clausewitz, teorico militare prussiano del diciannovesimo secolo, come si sa, affermava che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Dietro questa frase si nasconde la fiducia che, sulla base delle analisi realistiche, esistono conflitti che perseguono obiettivi razionali. Dobbiamo chiederci se la sconfitta della Russia, potenza nucleare, possa mai essere un obiettivo perseguibile. Allo stesso modo potremmo chiederci se la sconfitta di Hamas, organizzazione terroristica per la liberazione della Palestina dall’occupazione israeliana, sia realisticamente plausibile. Hamas è un’idea che permarrà finché ci saranno palestinesi sotto occupazione, martoriati, oggetto di discriminazioni e delle più grandi ingiustizie della terra.

Clausewitz riconosceva che le guerre hanno la loro indipendenza dalla politica e che nelle dinamiche militari l’escalation diviene purtroppo una variabile indipendente. Questo spiega come mai, per esempio, le potenze europee siano entrate nella Prima guerra mondiale credendola un conflitto di pochi mesi. La sicumera con cui la classe dirigente occidentale crede che il rischio possa essere controllato anche in uno scontro tra blocchi di potenze nucleari appare storicamente poco fondata. Ricordo che anche in Medio Oriente, se Israele consegue l’obiettivo di trascinare il Libano in guerra, non è scontata la reazione dell’Iran, forte delle sue alleanze con potenze nucleari come la Cina e la Russia.

La nomina di Mark Rutte a segretario generale della Nato non è un buon segno. I nostri editorialisti senza vergogna lo hanno definito “europeista”. Di fatto l’Olanda nell’Ue ha ereditato il progetto britannico inteso a eliminare lo slancio comunitario di Ventotene e a trasformare l’Ue in un mercato allargato a beneficio dei creditori. Dal punto di vista della sicurezza, l’Europa è per Rutte essenzialmente un vassallo degli Stati Uniti. È patetico che Mario Draghi o Enrico Letta, con il loro servilismo atlantico, abbiano potuto nutrire ambizioni di incarichi Nato. L’Italia come la Germania è una potenza sconfitta della Seconda guerra mondiale. A noi toccano le basi militari Nato, ma non la voce in capitolo. Gli olandesi, i danesi, i nordici sono gli alleati fidati.

Stiamo preparando la guerra? A leggere Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, “solo quando i cittadini europei si convinceranno che il loro mondo è a rischio sarà possibile attrezzare l’Europa”. Quindi avremo un’Europa maggioritaria, unita sotto il diktat atlantico, solo con il rischio di guerre imminenti? Secondo l’economista Emiliano Brancaccio, la spiegazione dei conflitti odierni va individuata nell’analisi marxista della centralizzazione dei capitali che può ormai avvenire a opera delle potenze del surplus come Cina e Russia a svantaggio dell’economia occidentale. In poche parole, le guerre sono la reazione paranoica dell’Occidente dinanzi alla tendenza che vede la Cina rinunciare alla sua subalternità, non limitarsi più a finanziare il debito Usa e minacciare l’intero sistema monetario, riversando i suoi capitali per acquisire parte dell’economia occidentale. Altro che libertà dell’Ucraina, altro che valori etici! Lo scontro in corso dipende dalla competizione tra due imperialismi capitalistici per la salvaguardia dell’egemonia economica. Ho espresso in parte la stessa teoria nel libro L’Occidente e il nemico permanente, anche se – diversamente da Brancaccio che considera i fattori geopolitici e culturali derive ideologiche – ritengo che l’analisi internazionale debba includere tutti i fattori, non solo di quelli economici.

Ma la questione fondamentale da porsi è se sia ancora possibile un compromesso politico-diplomatico. Nel mio libro auspico che l’Occidente dimentichi la sua visone patologica del mondo e conservi la propria egemonia con una riforma del multilateralismo e della governance economica, concedendo alla Cina, agli emergenti la rappresentanza e il potere a essi spettanti in base al nuovo sviluppo economico. Anche Brancaccio, soffermandosi sugli aspetti economici, perora un compromesso in base al quale l’Occidente smetta le sue politiche protezionistiche, il suo arroccamento e le guerre economiche; e la Cina accetti una regolamentazione politica e non di mercato del credito accumulato verso gli Stati Uniti. Credo che, purtroppo, i poteri finanziari occidentali, con la Cia, il Mossad e i servizi segreti europei, considerino questo compromesso impossibile. “Vita tua, mors mea”. L’unica risposta è la guerra che si spera rimanga a bassa intensità per erodere le potenze del surplus e bloccare il loro espansionismo economico. Hanno anche messo in conto il rischio nucleare tattico, la fine dell’Ucraina e di una parte dell’Europa, come sacrificio indispensabile al mantenimento della supremazia occidentale?

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Il problema non è la disobbedienza civile, è l’obbedienza civile – Alberto Bradanini

  1. In Palestina, quarantamila morti, ottantamila feriti, verosimilmente molti di più, lo sapremo solo quando l’indignazione verrà ufficialmente consentita, autorizzando a discuterne pubblicamente anche i giornalisti di giornali e TV, che confondono quotidianamente la libertà di parolacon la parola in libertà. Tale umano sentimento di esecrazione sarà dunque sdoganato quando non avrà più effetto sulla sofferenza e la sopravvivenza di quel popolo martoriato, in ossequio al disegno di pulizia etnica e massacri di massa perseguito dello stato d’Israele.

Sul fronte ucraino, si combatte invece una guerra provocata a tavolino dall’incontenibile bulimia dell’impero americano che mira a destabilizzare/frammentare la Russia, per accaparrarsene le ricchezze: l’evidenza, per gli scettici residuali, riempie intere biblioteche, mentre i cervelli di regime pappagalleggiano le veline che ricevono dalle redazioni agli ordini della plutocrazia atlantica.

Con ferrea vigilanza sulla narrativa pubblica, il neoliberismo bellicista a guida Usa modella la coscienza popolare, genera sordità e acquiescenza, e rende superflui persino gli interventi destabilizzanti (colpi di stato, invasioni, diffusione di droghe, attentati) cui facevano un tempo ricorso i padroni del mondo per diffondere quei gioielli che essi chiamano democrazia e diritti umani.

Ciononostante, l’esercizio della menzogna e la criminalizzazione del dissenso non sono divenuti per ciò stesso superflui. Seppur narcotizzato o assonnato, il popolo resta inquieto. La storia insegna che se si tira troppo la corda, può uscire dal coma! La sorveglianza rimane indispensabile. Tuttavia, l’egemone unipolare – sempre meno tale, grazie al cielo, essendo il Sud del Mondo uscito finalmente dall’irrilevanza – non abbandonerà facilmente la presa e, seppur privo di egemonia, insiste a voler dominare il mondo, ricorrendo ancor più alla violenza, e diventando più pericoloso, come un orso ferito.

Nell’ultima decade del secolo scorso, uscito vincitore dalla guerra fredda (non per suo merito), l’Impero era caduto nell’illusione della fine della storia, profezia bislacca elaborata da F. Fukuyama, un rabberciato politologo imperialista di origine giapponese, secondo il quale il binomio democrazia liberale/economia di mercato si sarebbe prima o poi imposto quale destino glorioso e ineludibile su ogni nazione della terra. Ma l’arroganza predittiva e l’infantilismo filosofico non potranno mai prevalere sull’incedere valoriale della storia: l’impalpabilità di quella previsione è dileguata davanti all’insopprimibile tensione dell’uomo alla ricerca di nuovi orizzonti ideologici e sociali al servizio dei suoi bisogni essenziali. L’uomo, nella riflessione aristotelica, è animale sociale, dotato di ragione, bisogno di giustizia e consapevolezza della propria morte. Dar senso all’esistenza implica una scelta: a) investire su conoscenza ed empatia, abbracciare i propri simili, rispettandone le differenze e favorendo la pacifica convivenza; b) oppure, inseguire il privilegio, gli onori, la ricchezza e il potere, provocando guerre, distruzione e morte. Le due opzioni sono al centro del dilemma esistenziale, sia per l’uomo che per le nazioni.

  1. Gli Stati Uniti sono la malattia, non certo la terapia. Con il 4,2% della popolazione del pianeta, puntano a dominare su tutto e tutti, per l’eternità. È evidente che per Stati Unitinon intendiamo i 335 milioni di abitanti di quel paese, i primi a subire l’oppressione del sistema di cui sono sudditi, bensì quell’uno percento (o meglio lo 0,1 per cento) di psicotici possidenti, che siede intorno alla tavola imbandita. Il dominio assoluto sul pianeta a cui aspira quella ristretta cerchia di umani bisognosi di cure mentali intende cancellare anche le altre culture, giudicate mere espressioni di folklore locale, destinate a dileguare davanti alla superiore civiltà etica e politica della sola nazione indispensabileal mondo, i magnificenti Stati Uniti d’America! Si tratta di un insulto alla logica e all’etica. Non è una coincidenza che il veicolo della liturgia universale del potere sia oggi la lingua inglese, con la quale combattono in modo ridicolo le avvilenti élite politiche e giornalistiche della colonia Italia (dove il Ministero dello Sviluppo Economico, in grottesco ossequio a quanto sopra, si chiama oggi Ministero delle imprese e del Made in Italy, sì del Made in Italy, da non credere!). Ormai il tasso di sudditanza che la nostra classe politica è disposta a digerire non ha limiti.

Invece di assorbire come l’ossigeno una propaganda fabbricata a tavolino, occorrerebbe allontanarsi da quella nazione malata, con cautela certo, poiché gli amici potenti ai quali si disobbedisce diventano più cattivi dei nemici!, infrangere la fiaba infantile di un impero benevolo, che lavora per la pace, la stabilità e la libertà, valori che sarebbero connaturati alla sua incantevole democrazia di diritti umani scrupolosamente rispettati: basti pensare a Julian Assange, ai bombardamenti etici all’uranio impoverito o al napalm, alle prigioni di Abu Ghraib[1] e Bagram[2] (dove migliaia di individui sono stati torturati e uccisi), a Guantanamo[3] (dove sono rinchiusi da decenni uomini mai giudicati o condannati) e a quelle segrete sparse ovunque, alle carceri americane, luoghi di tortura fisica e mentale nelle mani di aguzzini extra-legem (gli Stati Uniti ospitano il 21% dei detenuti del mondo, oltre 2.173.000 su 20,35 milioni, pur essendo solo il 4,2% della popolazione della terra[4], la maggioranza dei quali poveri e diseredati, poiché di certo non sono i ricchi a finire dietro le sbarre).

Se servisse altro per togliere ogni dubbio sul pericolo che la plutocrazia bellicista Usa rappresenta per la pace e la stabilità nel mondo, si scorra il volume della ricercatrice statunitense Lindsay O’Rourke[5]. Eppure, schiere di individui vivono nella fede infantile in un paese senza il quale il mondo andrebbe alla deriva, un modello da imitare: un altro inspiegabile mistero glorioso! Il megafono dei media/politici, frequentato da maggiordomi (tranne le eccezioni che non fanno la differenza), non perde occasione per accusare di antiamericanismo coloro che difendono la ragione, la pace e il diritto di tutti a vivere a modo loro, quando invece la malattia da curare è l’americanismo, non il suo contrario.

  1. Ma non è d’obbligo arrendersi al pessimismo definitivo. Il pianeta può ancora sperare in un sobbalzo. Il mondo emergente è alla riscossa, unisce le forze, diventa massa critica e fa sentire la sua voce. Dal 1° gennaio, il gruppo Brics(avanguardia del risveglio del Sud) è passato da cinque a dieci paesi membri, e altri 59 han chiesto di aderire. Insieme costituiscono la grande maggioranza della popolazione mondiale, una forza economica significativa, tassi di crescita superiori all’Occidente. Con tradizioni, sistemi ideologici e politici distinti, essi sono uniti da un cemento straordinario, la difesa della sovranità. Facendo uso di tale valore fondamentale, in uno pianeta a più voci, questi paesi si stanno avviando davvero verso l’uscita dal sottosviluppo, non più attraverso il Washington Consensus, vale a dire la via capitalistica che promette e non mantiene, ma scrutando l’orizzonte, guardando al Beijing Consensus (ma non solo), plastica evidenza quest’ultimo che l’uscita dalla povertà non è più un miraggio, se ci si allontana però dalla patologia estrattiva di un impero corporativo sostenuto dalla violenza.

Rispetto dell’armonia nella diversitàsicurezza reciproca/indivisibile, indipendenza nelle scelte e distanza dall’inganno occidentale dei diritti umani (solo formali e imposti con la forza), insieme alla non interferenza negli affari altrui e al rafforzamento del ruolo delle Nazioni Unite, sono gli ingredienti critici di un Sud Globale che si batte contro la ridicola impostura americana di un rules-based order, un ordine deciso sempre e solo dall’impero egemone.

  1. Quanto all’Italia, sorprende non poco che il valore imprescindibile affinché una nazione si costituisca in Stato Politico, quello della Sovranità, sia accantonato dalle stesse istituzioni chiamate a difenderlo. In un passaggio critico come l’attuale, la classe dirigente avrebbe il compito di guidare un popolo inebetito, puntando a riappropriarsi di quel gioiello perdutocome una barca che cerca il faro tra i marosi. Già cinque secoli orsono, Machiavelli aveva definito le condizioni minime affinché uno Stato possa qualificarsi tale: assenza di soldati altrui sul territorio nazionale e proprietà della moneta. Obiettivi oggi del tutto assenti in un’arena politica impregnata di colpevole rassegnazione da eterni sconfitti.

Il Paese (lasciamo in disparte la cosiddetta Unione Europea) è prigioniero di un duplice livello di sudditanza: a) quella politico-militare nei riguardi delle oligarchie statunitensi, patologicamente inclini a guerre senza fine; b) quella finanziaria-monetaria[6] del Direttorio europeo franco-tedesco, a sua volta tributario dell’anglosfera imperiale. Quest’ultima, vivendo oltre il proprio merito e lavoro, estrae ricchezza dal mondo intero, inclusi i protettorati europei, resi docili da ricatti, spionaggi e minacce dell’esercito d’occupazione, che gli inebetiti abitanti del Vecchio Continente si ostinano a chiamare “La Nato”. Se non hai un posto a tavola, è probabile che tu sia nel menu[7]! Senza un sussulto di resipiscenza, il declino dell’Italia sarà inarrestabile.

Facendo il loro mestiere, i rappresentanti della Destra lottano per la preservazione dello status quo, violando ogni parvenza di coerenza pre-elettorale, lieti di assumere l’umiliante posizione del missionario davanti ai padroni atlantici (loro sì applauditi sovranisti, non solo nelle parole: America First!) e ai cosiddetti partner euroinomani (nello spirito solidale europeo, i paesi del Sud possono sgretolarsi e impoverirsi, colpa loro!). La cosiddetta Sinistra invece (termine qui usato come sostantivo e aggettivo insieme) passa dal governo all’opposizione senza lasciare traccia, incapace di disegnare l’ombra di una reale alternativa, distinguendosi dalla Destra solo per una diversa capacità d’intrattenere il pubblico televisivo. Vengono qui a mente i dolenti versi che sette secoli fa affollavano gli incubi del Sommo Poeta:

Ahi, serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello!

Il recupero della Sovranità (se il termine infastidisce le anime pie degli euroinomani atlantisti, lo si sostituisca pure con Indipendenza, cambia poco) sarebbe praticabile da subito, con intuibili cautele certo. L’Italia si ergerebbe in tal modo come la Regina del Mediterraneo, un mare che non a caso i nostri antenati chiamavano nostrum, divenendo piattaforma di pace, progresso e dialogo tra i popoli di Africa, Asia ed Europa. Con l’Europa, a quel punto, le relazioni tornerebbero alla pari, non più basate su una umiliante obbedienza a interessi altrui, e la generazione di chi scrive potrebbe abbandonare il mondo con il sollievo di aver lasciato una valida eredità ai propri figli e nipoti.

Riecheggiando il malessere di Mao Zedong nei riguardi dell’Unione Sovietica degli altri ’50, anche noi (guardando all’Unione Europea) dormiamo nello stesso letto, ma non facciamo (almeno non dovremmo fare) gli stessi sogni. Affetta da un incomprensibile complesso d’inferiorità, l’impaurita classe dirigente italiana ha da tempo gettato la spugna senza nemmeno combattere, a dispetto dei danni e oltraggi che riceviamo quotidianamente (declino economico, lavoro precario, servizi pubblici degradati, mancato sviluppo, sudditanza a tutto campo). Sono lontani i tempi in cui, con la cosiddetta liretta, grottescamente diffamata da giornalisti, accademici e politici reclutati con il criterio dell’incompetenza, l’Italia era divenuta la quarta potenza economica al mondo (prima pagina del Corriere della Sera, 16 maggio 1991[8]), superando Francia e Gran Bretagna, mentre stava avvicinandosi a gran passi alla Germania, che era all’epoca il malato d’Europa. I dati disponibili, e qui ripresi[9], fanno rabbrividire.

Una domanda erompe come un vulcano: cosa potrebbe indurre la classe dirigente della Penisola (se ne esiste ancora una), finanziaria, di governo e mediatica, ad abbandonare questo trentennale percorso auto-distruttivo? Il quesito resta per ora senza risposta, anche se, magra consolazione, gli storici futuri nell’evocare il declino del Paese ne elencheranno i responsabili, a loro eterna esecrazione.

  1. Sull’Europa poi, s’impone un tragico interrogativo: dove sono finite le classi dirigenti d’antan, non solo quelle che simulavano la difesa del mondo del lavoro (le cosiddette Sinistre) in cambio di soldi e carriere, ma finanche quelle che un tempo difendevano senza mascherarsi gli interessi borghesi, oggi diremmo del ceto dominante? Una plausibile risposta è reperibile nella paura di perdere i residui privilegi. Ad essa segue una seconda: alla scomparsa della borghesia, i membri sopravvissuti vengono cooptati nel cerchio ristretto della classe dominante(quelli provenienti dai paesi vassalli sempre in posizione gregaria, beninteso!), mentre i ceti di servizio, politici, giornalisti e accademici, sono reclutati tramite gli algoritmi pubblicitari, poiché i veri padroni detestano la competenza e i valori etici. In tale degrado, gli intellettualisopravvissuti dileguano o vengono esiliati.

Nel mondo fiabesco del neoliberismo bellicista, i popoli sono venduti all’asta, ma rimangono al servizio dei gerarchi imperiali, incolti, prepotenti e violenti, la peggior tribù della razza umana[10]. Alla luce degli orrori che zampillano da ogni poro, nulla dovrebbe più sorprenderci. Eppure, continua a colpisce la dabbenaggine di un popolo ebetizzato, che si eccita solo con i quiz televisivi e una palla che rotola, accettando invece passivamente di essere guidato da individui intellettualmente rabberciati, fungibili come il pomodoro, la cui unica virtù è l’obbedienza.

  1. Alla luce di quanto precede, è dunque chiaro che la società occidentale non è preda di inesistenti impulsieversivi, di oscuri ribellismi anarchicio di irreperibili derive antisemitiche. La società non vive nemmeno una crisi di radicalismo populista, tantomeno di sinistra (di vera sinistra, come detto, non si scorge l’ombra!), di estremismo islamico (salvo soggetti marginali, spesso reclutati) o di passiva assuefazione al terrorismo (fenomeno politico, non di criminalità comune, e non di rado a corrente alterna teleguidata).

La società occidentale riflette invece un amaro deflusso sistemico di moralità. La plutocrazia che guida una locomotiva fuori dai binari diffonde una propaganda che sfida persino la logica aristotelica, puntando alla regressione etica universale verso l’età della pietra, mentre l’indifferenza popolare rasenta il silenzio dei cimiteri.

Il problema del tempo presente non è nemmeno l’aggressività di coloro che si oppongono alle atrocità – quelle dell’esercito israeliano a Gaza e quelle che gli Stati Uniti/Ucraina consentono in un conflitto provocato e perduto in partenza (se la Russia scorgesse l’ombra della sconfitta, e fortunatamente non è il caso, userebbe l’arma nucleare!), ma l’acquiescenza di coloro che non si oppongono abbastanza, sopraffatti da spazzatura mediatica, mentre i decisori politici pensano ai loro inverecondi interessi.

Non è vero che troppe persone disobbediscono, è vero il contrario: troppe persone continuano a obbedire. Non è vero che le persone sono radicalizzate, ma è vero il contrario: poche persone lottano per i veri bisogni umani. Non è vero che i piloti del convoglio che porta all’olocausto nucleare sono spaventati dal rigetto popolare. È vero il contrario: essi non hanno abbastanza paura di un popolo che potrebbe privarli delle confortevoli poltrone dove sono seduti.

Non è vero che la società è preda di un’immaginaria epidemia di antisemitismo. È vero invece che la società non ha sufficiente coraggio per gridare che si tratta di un’altra menzogna di cui Israele si serve per massacrare povera gente. I popoli sono più numerosi e più saggi di chi li governa. Non bisogna temere di opporsi. Il mondo non è mai stato così vicino all’Armageddon. Nel 2022, l’Orologio dell’Apocalisse segnava 100 secondi alla mezzanotte, oggi solo 90 secondo separano il pianeta dalla catastrofe.

Lo storico statunitense Howard Zinn affermava: “La disobbedienza civile non è un nostro problema. Il nostro problema è l’obbedienza civile”.

[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Abu_Ghraib_torture_and_prisoner_abuse

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Tortura_e_abusi_su_prigionieri_a_Bagram; https://it.wikipedia.org/wiki/Bagram

[3] https://theintercept.com/2024/06/01/guantanamo-prosecutors-torture-testimony-confession/; https://altreconomia.it/le-torture-di-guantanamo-e-il-tradimento-delle-vittime-dell11-settembre/

[4] https://en.wikipedia.org/wiki/Comparison_of_United_States_incarceration_rate_with_other_countries

[5] Covert Regime Change: America’s Secret Cold War, Cornell Studies in Security Affairs), Lindsey A. O’Rourke, Cornell Un., 2018

[6] https://scenarieconomici.it/il-ventennio-delleuro-i-dati-sul-disastro-economico-italiano/

[7] attribuita alla deputata democratica Ann Richards (al tempo di G.W. Bush)

[8] https://scenarieconomici.it/italia-quarta-potenza-corriere-della-sera-16-maggio-1991/

[9] https://mail.yahoo.com/d/folders/2/messages/AMCGsU1NbFe-ZnbPcwSEQK6BMDA/AMCGsU1NbFe-ZnbPcwSEQK6BMDA:2?fullscreen=1

[10] https://english.scenarieconomici.it/international/the-real-power-in-europe-is-neither-democracy-or-the-market/

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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