In Nicaragua c’era una volta il FSLN…

… ma adesso c’è un partito esclusivamente familistico.

di Bái Qiú’ēn

Con Sandino ayer, hoy mañana y siempre. / Con el frente sandinista qu’es vanguardia de mi pueblo. (Carlos Mejía Godoy).

Per me non voglio nulla […]. Non ho ambizioni, desidero solo la redenzione della classe operaia. (Augusto C. Sandino)

È doloroso e tragico doverlo ammettere ma, essendo ormai il FSLN il partito della famiglia Ortega-Murillo (o Murillo-Ortega), l’unica continuità possibile è che il potere resti all’interno della famiglia. Con una successione dinastica di tipo medievale europeo.

Nel Paese in cui un popolo intero partecipò al rovesciamento della più longeva dittatura dell’America latina (1937-1979), ancora in piena guerra fredda il Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN) incarnava la speranza di una società basata su tre principi fondamentali: pluralismo politico, economia mista e non allineamento in campo internazionale. Fin dall’Indipendenza dalla Spagna (15 settembre 1821), a tutti gli effetti, si erano susseguiti innumerevoli governi più o meno autoritari (sia conservatori sia liberali), con rarissime eccezioni. Il che aveva sostanzialmente abituato la popolazione nicaraguense alla presenza di un capo indiscutibile (finché era al potere): vissuta quasi come una condanna divina, la “norma” prevedeva che il caudillo di turno sostituisse il caudillo precedente e aprisse la strada al caudillo successivo. Un continuo succedersi di un uomo forte e carismatico in grado di risolvere tutti i problemi del popolo a un altro uomo forte e carismatico in grado di risolvere i problemi del popolo. Nessun caudillo giunto al potere assoluto ha però risolto alcunché, confidando sulla congenita passività della maggior parte della popolazione (o fatalismo che dir si voglia), prodotto innegabile delle dure condizioni di vita. Passività che, alle volte, esplodeva in rivolte popolari avendo superato il limite della sopportazione.

La serie si interruppe il 19 luglio 1979, con l’abbattimento della dinastia somozista e nel corso del decennio successivo, tra mille problemi ed enormi difficoltà, si tentò di spezzare l’ormai secolare meccanismo: non andò al potere un singolo individuo bensì un’organizzazione politico militare assai eterogenea che fino a poco tempo prima era divisa in tre frazioni, ciascuna con una visione specifica su come condurre la lotta contro il somozismo (Guerra popular prolongada, Proletaria e Insurrecional o Tercerista). Per evitare lotte intestine che avrebbero fatto il gioco della dittatura, si giunse alla formazione della formazione della Dirección Nacional, composta da tre membri per ogni corrente: se il FSLN era l’avanguardia della lotta popolare, la Dirección Nacional incarnava l’avanguardia dell’avanguardia. Fu questa struttura a governare realmente il Paese negli anni Ottanta, cercando di costruire una società nuova, su basi nuove.

Questo verticismo spinto al massimo era comunque controbilanciato e anche mitigato da una sorta di unità “emotiva” sia a livello della militanza sia nel complesso della popolazione. Ciò contribuì a mantenere il FSLN come blocco monolitico sottoposto alle decisioni della Dirección Nacional.

Questo processo di cambiamento della società fu però interrotto il 25 febbraio 1990 con la vittoria elettorale della coalizione capeggiata da Violeta Barrios de Chamorro e i successivi sedici anni di feroce neoliberismo.

Il gobierno desde abajo proposto da Daniel, segretario politico del FSLN, dopo il riconoscimento della sconfitta elettorale contribuì senza dubbio a mantenere vive le istanze progressiste (e persino libertarie) degli anni Ottanta, grazie alla continuazione della prorompente e irrefrenabile partecipazione popolare degli anni Ottanta. In quanto unico candidato del FSLN alle successive elezioni presidenziali si conquistò il ruolo di simbolo.

Se è vero che l’inaspettato risultato elettorale del 1990 ha dato l’avvio a una trasformazione sostanziale della lotta politica, la scalata al potere da parte di Daniel era iniziata assai prima.

Stando alle dichiarazioni di alcuni comandanti della Rivoluzione, Daniel fu scelto inizialmente come coordinatore della Giunta Rivoluzionaria di Ricostruzione Nazionale e poi come candidato a presidente della Repubblica per il suo scarso carisma e, poiché non mostrava una smodata velleità di potere, non lo si si riteneva “pericoloso” per gli equilibri interni al FSLN (composto da tre frazioni). Lo stesso discorso valeva per la sua nomina a coordinatore della Direzione nazionale del FSLN nel marzo del 1981. Questi due ruoli gli hanno aperto la strada per la conquista del potere assoluto, sia nel partito sia nello Stato e spiegano, almeno in parte, la sua successiva e sempre maggiore rilevanza.

Dal 1984, anno delle prime elezioni democratiche vinte dal FSLN con il 67% dei consensi (dato sancito da tutti gli osservatori internazionali), poco a poco Daniel ha iniziato infatti ad accentrare il partito nelle sue mani, anche emarginando o eliminando fisicamente coloro che lo criticavano. In quanto segretario politico, nonostante lo scarso ruolo svolto nel corso della lotta guerrigliera, passo dopo passo si impossessò del partito, piegandolo al suo progetto di potere personale. Il responsabile della campagna elettorale del FSLN inizialmente era Lenín Cerna, ma fu sostituito da Rosario Murillo. Anche la carica di segretario organizzativo del FSLN fu tolta nel 2011 a Cerna e assegnata direttamente a Daniel che in tal modo non decideva soltanto la linea politica ma pure l’organizzazione interna del partito (e, quindi, chi poteva fare carriera e chi doveva essere emarginato).

A livello simbolico già nella seconda metà degli anni Ottanta la sede del FSLN fu trasferita in alcuni locali dell’abitazione della famiglia Ortega, a El Carmen.

Nel corso degli anni successivi, molti dirigenti e persino comandanti (compresi la maggior parte di quella che negli anni Ottanta era la Direzione nazionale del FSLN) abbandonarono il partito, per un motivo o per l’altro.

Di non secondaria importanza, poco tempo dopo la sconfitta elettorale del 1990 Daniel assunse la decisione di interrompere la formazione politica dei militanti sandinisti (chiudendo quelle che in Italia si chiamerebbero «Scuole di partito»). L’obiettivo non dichiarato, ma assai chiaro a posteriori, era di avere a disposizione una massa più o meno omogenea in grado soltanto di gridare slogan ma non di insidiare il suo potere all’interno del FSLN. Si doveva passare dal ¡Dirección Nacional ordene! al ¡Comandante ordene!

La scalata di Daniel per la conquista del potere assoluto all’interno del FSLN iniziò quasi ufficialmente con il primo Congresso del partito (denominato Asamblea Nacional de Militantes), che si svolse a El Crucero dal 19 al 21 luglio 1991, nel quale di discusse anche ferocemente sulla struttura stessa del partito, mettendo in discussione l’eccessivo verticalismo, lo stile di condotta burocratico e la mancanza di democrazia interna. Tutti elementi organizzativi che avevano condotto alla sconfitta e dovevano essere radicalmente modificati se si voleva recuperare quel consenso che aveva portato al trionfo del 1979.

A tutti gli effetti, però, il risultato concreto andò in tutt’altra direzione, al di là della forma: si stabilì che il massimo organo direttivo non fosse più la Direzione nazionale, la quale doveva bensì sottostare alle deliberazioni del Congresso (con seicento delegati) e dell’Asamblea sandinista (con 120 membri). Si crearono la figure del segretario politico nazionale e del segretario organizzativo, che anteriormente non esistevano. A molti parve una democratizzazione della struttura, ma era solamente una mossa gattopardesca: la stessa nuova Dirección Nacional fu eletta a la plancha, ossia con una lista unica bloccata, impedendo di fatto e nei fatti qualsiasi possibilità di cambiamento ulteriore.

Immediatamente Daniel, nominato segretario politico nazionale, iniziò a svuotare di funzioni e di poteri sia il Congresso sia l’Asamblea accentrando nella sua persona tutti i poteri decisionali e limitando il dibattito interno fino ad annullarlo del tutto.

Mettendo al terzo posto il ruolo della Direzione nazionale (che aveva parzialmente superato l’antico caudillismo) si eliminò qualsiasi possibilità di discussione e di confronto all’interno del partito, organizzato sempre più verticalmente. Nessun aspirante caudillo poteva sostituire quello in carica. A tutti gli effetti, però, con la successiva e definitiva eliminazione della Direzione nazionale il FSLN iniziò a perdere la propria coesione, che negli anni Ottanta si basava proprio sulla discussione e sul confronto anche aspro.

Non fu facile né indolore questa scelta organizzativa: le crescenti tensioni interne obbligarono a realizzare un Congresso straordinario (20-23 maggio 1994), nel quale si verificò una spaccatura tra due gruppi, portando alla formazione di un altro partito: il MRS, fondato ufficialmente il 21 maggio 1995. Ironia della storia, la parola d’ordine di quel Congresso straordinario era «Per l’unità del sandinismo».

Senza dubbio quella scissione contribuì ad accelerare il controllo assoluto di Daniel sul partito, che da pluralista divenne personale (o familiare).

Nel 2002 si “riformò” lo statuto del partito (risalente al Congresso del 1991), eliminando la Direzione nazionale, ponendo l’accento sulla disciplina e sull’accentramento del potere nelle mani del Segretario generale, il quale aveva (e ha) il potere di espellere chiunque desidera. Non era più il tempo di avanzare critiche al suo volere.

Contemporaneamente, il lento ma inesorabile svuotamento del ruolo e delle funzioni dell’Asamblea sandinista, il massimo organo deliberativo del FSLN (una sorta di Comitato centrale) che in talune occasioni aveva espresso istanze critiche mise fuori gioco buona parte dei dirigenti storici del partito. Persino i Congressi nazionali, che in origine iniziavano con discussioni tra i militanti di base (a livello di zona, di quartiere, di municipio, di regione) e salivano fino al vertice attraverso le varie realtà territoriali, sono diventati una sorta di rito nel quale si accettano e si legittimano senza discussione le decisioni del caudillo.

I Congressi successivi servirono solo a eliminare le residue voci critiche, espellendo i non concordi. In quello del 2005: Herty Lewites (ex sindaco di Managua) e Víctor Hugo Tinoco (ex viceministro degli Esteri), ovviamente su richiesta di Daniel.

In questo triste panorama, non sono mancati alcuni episodi oscuri grazie ai quali si sono fisicamente eliminati alcuni personaggi scomodi perché troppo critici: l’assassinio del giornalista Carlos José Guadamuz (ex guerrigliero antisomozista incarcerato per parecchi anni nello stesso carcere in cui era anche Daniel), lo strano suicidio del campione mondiale di boxe Alexis Argüello (sindaco di Managua), l’altrettanto strana morte di Herty Lewites dopo la sua espulsione dal partito per il suo avvicinamento al MRS.

Questa, in poche parole, la storia della danielizzazione del FSLN, indicativa della sua volontà di potere assoluto (anche se, dietro le quinte, appare spesso e volentieri lo zampino di Rosario).

Lo smantellamento di ciò che fu il FSLN, eliminando al suo interno qualsiasi confronto e discussione democratica, andò di pari passo con l’obiettivo della conquista del potere assoluto a livello istituzionale. L’art. 6 dello Statuto del 2006 recita infatti che «el FSLN se organiza para ganar elecciones, que es la vía actual para acceder al poder gubernamental». Poiché il FSLN era ormai un partito personale, pare logico leggere più correttamente «Daniel se organiza para ganar las elecciones»: sa perfettamente che il FSLN è il partito con il maggior seguito elettorale e lui, come candidato alla presidenza della Repubblica, può arrivare alla conquista del potere.

La conquista del controllo assoluto sul FSLN era soltanto il primo passo, il mezzo necessario per raggiungere il fine ultimo: il potere personale sull’intero Paese, esattamente come nel Macbeth di Shakespeare (tragedia composta nel 1605-1608).

Già nel 1997 Daniel siglò infatti lo scellerato Patto con l’allora presidente Arnoldo Alemán, affinché entrambi restassero impuniti dalle gravi accuse che pendevano sulle loro teste (uno per corruzione e l’altro per violenza nei confronti della figliastra minorenne) e per spartirsi le poltrone in tutti i settori-chiave delle istituzioni, il cui prezzo storico è stato la perdita definitiva dell’identità progressista del FSLN. Fu fissato al 35% il consenso elettorale per ottenere la maggioranza dei deputati al primo turno (a condizione che il secondo partito avesse una distanza superiore al 5% rispetto al primo). Daniel sapeva perfettamente che il FSLN era in grado di ottenere questo risultato e, quindi, di conquistare la maggioranza nell’Asamblea nacional. Non solo: grazie al Patto il FSLN ormai monopolizzato da Daniel già nel 2002 ottenne la presidenza sia del Consejo Supremo Electoral sia della Corte Suprema di Giustizia. Organi istituzionali indispensabili per il mantenimento del potere.

Occorre riconoscere che quel Patto fu un capolavoro di politica trasformista che spianava a Daniel la strada per impadronirsi di tutte le istituzioni (lasciando un minimo spazio al PLC di Alemán e qualche briciola agli altri partiti).

Alle elezioni del 2006 Daniel non si presentò come candidato del FSLN, bensì a capo della Gran Alianza Nicaragua Triunfa, con un ex contra come candidato alla vicepresidenza (guarda caso, il vecchio proprietario dell’abitazione di El Carmen, confiscata dopo la Rivoluzione e assegnata a Daniel). Lo stesso Daniel non era più il personaggio vestito con la divisa militare verde olivo degli anni Ottanta: non solo a livello “estetico”, ma era soprattutto tutt’altro personaggio a livello ideologico e politico. Naturalmente, si fece di tutto a livello propagandistico per sovrapporre il FSLN all’alleanza costruita per meri scopi elettorali.

Con il suo ritorno al potere nel 2007 si sono di fatto annullate tutte le istanze di giustizia sociale, diritti e partecipazione popolare espresse dalla Rivoluzione Popolare Sandinista: poco più di duecento persone possiedono più dei restanti sei milioni e mezzo di cittadini, i salari sono i più bassi dell’area centroamerica e le persone che vivono sotto la soglia della povertà superano il 70% della popolazione.

Se l’abitazione della famiglia Ortega-Murillo è anche la sede nazionale del partito, dopo l’assunzione della presidenza della Repubblica è diventata pure la Casa presidenziale, dove si svolgono gli incontri ufficiali e dove si assumono le decisioni relative al funzionamento delle istituzioni e del Paese.

La parola d’ordine che riesce ancora a scaldare i cuori della base sandinista è «soberanía», ripetuta con insistenza dalla coppia regnante Ortega-Murillo e dalla Corte di vassalli. Di quale sovranità si stia parlando non è ben chiaro e un breve elenco di scelte politico-economiche è sufficiente per dimostrare che tra il dire e il fare…:

1. esenzioni e favori fiscali agli investitori stranieri, specialmente nelle zone franche industriali;

2. concessioni minerarie (soprattutto oro) alle multinazionali dell’estrazione;

3. concessioni agli agrari per l’introduzione di nuove coltivazioni industriali (a partire dai biocarburanti) nelle terre appartenenti alle etnie indigene della Costa Atlantica e nelle riserve naturali;

4. gli Stati Uniti sono il maggior partner commerciale fino al 2018;

5. mantenimento di ottime relazioni con il Fondo monetario internazionale e con la Banca mondiale;

6. lenta ma sistematica distruzione dell’ambiente (comprese le riserve naturali protette a livello internazionale).

Si tratta di scelte in perfetta continuità con i sedici anni di neoliberismo ferocemente condannato a parole ma praticato nei fatti: evidente involuzione per un’organizzazione che si dichiarava l’avanguardia del popolo nicaraguense. Basta però definire queste scelte con il termine «socialismo» affinché appaia ciò che non è.

Stando alla facile propaganda, infatti, il socialismo tropicale del Nicaragua lo si deve misurare soprattutto dalla quantità di servizi sociali, a partire dagli ospedali pubblici e dalla tutela della salute della popolazione nel suo complesso*. Oltre alle sempre più mirabolanti opere faraoniche reclamizzate con bombo y platillo ma restate sulla carta perché irrealizzabili.

È facile a questo punto ripetere l’antico detto nicaraguense: «Como dijo Sor Juana Inés, lo que parece es». Come disse la suora-poetessa messicana Juana Inés de la Cruz, ciò che sembra è.

Se è riuscito a conquistare la carica di Segretario politico eterno del FSLN, con una sentenza della Corte suprema di giustizia nell’ottobre del 2010 che rese inapplicabili due articoli della Costituzione che proibivano espressamente la possibilità di rielezione alla carica di presidente della Repubblica, Daniel ha ottenuto pure la possibilità di ricandidarsi. Cosa vi sia di rivoluzionario (o di sinistra) in questo lungo e complicato intrigo per conquistare e mantenere il potere prima nel partito e poi nello Stato non è dato saperlo.

Come se non bastasse, nel 2013 propose una nuova modifica costituzionale, ovviamente approvata, la quale consente la rielezione indefinita anche con una maggioranza semplice (il 50% + 1 dei voti) e la facoltà di emanare decreti legge presidenziali. «Sono sicuro che ci sarà più pace, più sicurezza, più tranquillità, più speranza e più allegria tra la popolazione nicaraguense», affermò prima dell’approvazione della riforma costituzionale. Parole poco profetiche visto ciò che successe cinque anni dopo.

A livello simbolico, le bandiere del FSLN e quelle nazionali alternate e costantemente collocate alle spalle di Daniel, indicano non tanto l’esistenza del partito-Stato, quanto piuttosto il potere personale (e familiare) sia sul partito sia sullo Stato, che non può essere messo in discussione. Lo stesso vale per l’uso dell’immagine iconica di Augusto C. Sandino, dal quale Daniel è ormai lontano mille miglia e manipola la sua figura per i propri scopi personali. Quanta distanza tra la sua ossessione per il potere e «Para mi no quiero nada […]. No ambiciono nada, sólo deseo la redención de la clase obrera». Le frasi «superficialmente scarlatte» che Daniel costantemente pronuncia, sono puro fumo negli occhi sia per i nicaraguensi sia per i suoi ormai scarsi sostenitori internazionali che ancora credono alle favole con il lieto fine del «e tutti vissero felici e contenti».

Per mantenere un certo livello di consenso, pur sempre necessario, si utilizza il costante lavaggio del cervello (gestito e diretto da Rosario, la quale pare stia passando il testimone al figlio Daniel Edmundo) appaiato a un sistema che si può definire della carità (o beneficenza che dir si voglia): minime donazioni pubbliche a intervalli più o meno regolari, in genere gestite da burocrati di partito che tengono più alla loro poltrona che all’effettivo benessere della cittadinanza. Regalie che non contribuiscono a creare un mutamento strutturale nell’organizzazione della società né modificano il livello di vita della popolazione, perpetuando invece la psicologia dell’accattonaggio**. Grazie all’imperante Neolingua, questo meccanismo è definito «solidarietà». Il più noto ed esteso è senza dubbio il «paquete AFA», ossia 10 libbre di riso, 10 di fagioli e 5 di zucchero (1 libbra = grammi 453) che una famiglia media finisce in pochi giorni. Piccole elemosine che servono solo come tentativo di conservare la subordinazione di quello che demagogicamente è denominato Pueblo Presidente.

* Confrontando i dati ufficiali indicati nel Mapa de Salud del MINSA (Causas de defunciones), nel 2019 il totale dei decessi fu di 16.321, mentre nel 2023 è salito a 18.111. Pur depurati dagli incidenti stradali (686 nel 2019 e 623 nel 2023) la differenza di circa duemila decessi in più non depone di certo a favore del miglioramento del sistema sanitario pubblico negli ultimi cinque anni.

** Venerdì 23 maggio 2023 Daniel ha affermato pubblicamente: «Noi non siamo mendicanti. Non vogliamo che ci regalino un solo centesimo». Peccato che nel 2022 il Nicaragua avesse ricevuto 62,9 milioni di dollari per donazioni e nel 2021 ben 84,8. La maggior parte dei quali erano stati donati da organismi internazionali, non ultima la Banca Mondiale.

Redazione
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