Mormorò il Piave: bugie lunghe 100 anni (1)
Ho letto, in rapida successione, due importanti libri sulla guerra che fu detta «grande». Oggi ragiono sul primo: «Gli ammutinati delle trincee» di Marco Rossi,
pubblicato dalla pisana Bfs (88 pagine per 10 euri) cioè la Biblioteca Franco Serantini con il sottotitolo «Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale: 1911-1918». (*)
«Se ti rivasse notizia che son morto, non dire che son morto per la Patria ma che sono morto per i signori, cioè per i richi che sono stati la causa di tanti buoni giovani, la colpa della sua morte». L’ortografia è zoppicante ma le idee chiarissime. E’ una lettera (dell’aprile 1917) sfuggita ai censori – per chi veniva scoperto a ragionare così non c’era solo la censura ma una pesante condanna – che Marco Rossi cita nel suo bel libro.
«Gli ammutinati delle trincee» si apre con il capitolo intitolato «La persistenza delle parole». Le menzogne e le verità che ci restano. E da «Gli ultimi giorni dell’umanità» (di Karl Kraus) Marco Rossi riprende questa citazione: «Le frasi fatte stanno su due gambe mentre agli uomini magari ne rimaneva soltanto una».
«La sconfinata macellazione umana» detta “Grande guerra” e la fabbrica delle menzogne che accompagnano i massacri iniziano, almeno per quel che riguarda l’Italia, fra settembre e ottobre del 1911 quando Giolitti dà il via all’aggressione contro la Turchia per conquistare la Libia. Ed è in quel periodo che anche il rifiuto della guerra – talora in forma organizzata ma più spesso spontaneo – fa le sue prove. C’è l’anarchico Augusto Masetti che spara a un colonnello; c’è lo sciopero generale del 27 settembre 1911; ci sono moltissime azioni di boicottaggio e sabotaggio contro i militari in partenza; e i soldati che si ribellano (Novara, Este, Genzano, Verona… l’elenco, nelle pagine 27, 58-59 e 73-74, è impressionante). Ci sarà poi – nell’agosto 1917 – la rivolta di Torino: 41 morti fra i dimostranti e 10 tra le forze dell’ordine ma… i giornali non ne scriveranno, censura totale.
Dall’altra parte, cioè all’origine della guerra per la Libia, ci sono le ambizioni colonial-imperialiste, «cercando di far dimenticare il disastro militare di Adua (1896)». Anche i cattolici si accodano a cianciare della «missione civilizzatrice» che spetta all’Italia, cantando di una «Tripoli, bel suol d’amore» che si replicherà poi in «Faccetta nera». In piccolo c’è già nel 1911 tutto quello che si vedrà dal ’15 al ’18 su più larga scala: i generali incapaci, i soldati mandati al macello, le stragi, le rappresaglie contro innocenti, gli stupri e le donne costrette a prostituirsi con il gran contorno di bugie, di truffe, di indebitamenti. C’è pure il triste record del primo (forse) bombardamento aereo con il tenente Giulio Gavotti (cfr qui: Scor-date: 1 novembre 1911) con il solito D’annunzio a celebrare gli assassini. C’è anche Pascoli che si scopre nazionalista-populista («La grande proletaria si è mossa»). A dire quant’è bella la guerra svettano i futuristi; a suggerire che sia utile o comunque obbligatoria anche i socialisti riformisti.
Purtroppo in Libia è solo l’inizio: il peggio verrà tra la fine degli anni 20 e il 16 settembre 1931 con l’uccisione di Omar el Mukhtar (cfr qui: Perché parlare ancora di un boia di Wu Ming 1 e il mio Gheddafi, i nazisti, un leone, i film censurati e noi).
«Il miraggio libico della festosa “passeggiata militare” che avrebbe offerto al popolo italiano un’alternativa all’emigrazione verso le Americhe, andò dissolvendosi dopo pochi mesi […] appena la guerra coloniale si palesò nella sua crudezza e per l’imprevista durata».
Nonostante in Libia tutto sia andato così male da far ricredere, almeno in parte, il liberale Giolitti sull’utilità delle guerre, lo stesso schema si ripeterà quattro anni dopo, nel 1915.
Dentro il grande massacro c’è però «la guerra dentro la guerra» che prende varie forme e per molti (anarchici, socialisti o senza etichette) diventa un pilastro della coscienza di classe presente o futura: il rifiuto della Patria, la solidarietà con gli altri proletari, l’idea che l’unica guerra da fare sia quella «sociale» per abbattere il capitalismo. Nel libro Marco Rossi accenna che «non tutti gli alti ufficiali “caduti in battaglia” vennero uccisi dal fuoco nemico»: come i regi carabinieri sparavano alle spalle dei soldati italiani fuggitivi o “recalcitranti” così in qualche caso le pallottole che tolsero di mezzo ufficiali italiani non erano austriache. «Maledetti signori ufficiali che la guerra l’avete voluta / questa guerra ci insegna a odiar» si cantava in «O Gorizia tu sei maledetta». Il nemico spesso è quello che marcia alla tua testa.
La rivolta non fu solamente quella dei disperati che si ammutinarono nelle trincee: ci sono «attivisti politici» che espatriarono in Paesi neutrali; molti di più «disertori e renitenti» che si diedero alla macchia. «Spesso con il sostegno della popolazione», soprattutto in Toscana e Sicilia ma anche nelle Marche, nel Gargano e altrove come «una comunità di disertori di Imola, autonominatisi Fratelli Ciliegia». A proposito, ecco una piccola, buona notizia che ci riporta a 100 anni dopo e alla forza della memoria: «i fratelli Ciliegia» continuano a fomentare sovversione, posso garantirlo perché li ho incontrati da poco e magari… ve ne racconterò prossimamente.
Le storie che Marco Rossi ripercorre – o talvolta accenna (molte meriterebbero davvero una più ampia trattazione) – sono tantissime: la carcerazione speciale e il «filetto giallo»; le infamie dei generali (soprattutto Luigi Cadorna e Andrea Graziani) e la pratica infame della decimazione; gli innumerevoli casi di «psiconevrosi bellica» (ma dentro la casistica vennero infilati anche disertori e sabotatori); l’appoggio alla guerra di Ernesto Teodoro Moneta…. «premio Nobel per la pace»; l’esaltazione «belligerante» di padre Agostino Gemelli ma anche i 500 sacerdoti che si schierarono contro; «il supplizio del reticolato»; un Giacomo Matteotti in prima fila contro il militarismo e ben diverso dalla consueta agiografia mentre altri dirigenti socialisti ricevono dalla polizia «un attestato di benemerenza» per il loro atteggiamento «patriottico»…
E i tribunali militari: «870mila denunce, delle quali 470mila per renitenza; 350mila processi celebrati; circa 170mila militari condannati di cui 111.605 per diserzione «» […] 4028 condanne a morte (gran parte in contumacia) delle quali 750 eseguite»: anche da questi numeri si conferma l’ampiezza della opposizione alla guerra.
Le coraggiose, geniali vignette d’epoca di Scalarini completano un libro che bisogna assolutamente leggere, far girare, presentare anche come antidoto alle bugie di questo centenario.
«Gli ammutinati delle trincee» chiude sul dopoguerra accennando alla questione politica dei reduci ma soprattutto alle rivolte (di Trieste e Ancona ma anche di Brindisi e Parma) dei soldati che rifiutarono nel giugno 1920 di essere inviati in Albania. Nella rivolta parmense si distinse l’ex sottotenente Guido Picelli che sarà poi a capo degli Arditi del popolo, l’unica opposizione armata al fascismo degli esordi. «Il passo dalle trincee alle barricate era breve» conclude Marco Rossi. Ma questa naturalmente è un’altra vicenda.
(*) Domani appuntamento con il secondo libro: «La grande menzogna» – sottotitolo: «Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla prima guerra mondiale» – di Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella (sono 170 pagine per 13,90 euri) pubblicato da Disssensi.
Un grandissimo massacro umano scientificamente pianificato.
Vincenzo Rabito, il contadino analfabeta di Chiaramonte Gulfi ( Ragusa) nel suo “Terra Matta”, dove scrive sul suo pluridecennale percorso di vita, così, tra l’altro scrive, sull’orrore del immane macello.
“ ….così, Monte Fiore restava ammano annoi e li austriace si ne dovettero antare. E così, a noi zapatore, ci hanno detto che vedetta non ci ne facevano fare più, e ci facevano fare di sepolire muorte, fare trenceie e fare il soldato zapatore. Così, ebimo il tempo, di sepolire una metà di catavere, e facendoce li buche nella terra, metendoce una delle suoi coperte e levandoce il piastrino di reconoscimento per vedere come si chiamava. Poi, dopo seppellito, ci metiemmo una crocetta.
E così, amme, tutta la paura che aveva, mi ha passato, che antava cercanto li morte magari di notte, che diventaie un carnifece. Impochi ciorne sparava e ammazava come uno brecante, no io solo, ma erimo tutti li ragazze del 99, che avemmo revato piacento, perché avemmo il cuore di picole, ma, con questa carneficina che ci ha stato, deventammo tutte macellaie di carne umana.
Così, avemmo viste milliaia di ferite che credavino e correvino come li pazze, con il tando dolore che sentivano, poverette, e ce n’erano che moreva nella barella e mentre che correva…..”.
Mi fa piacere che si “commemori” la Grande guerra anche tra i compagni. A tal proposito vi segnalo il link della mostra della Rete Napoli No War “Cento anni di guerre” che sta girando nelle scuole della Campania e che può essere liberamente scaricata e stampata in proprio
http://www.centoannidiguere.org
Vi segnalo su radiazione.info (radio web) la punata n.27 di Millenovecentoquattordici, trasmissione che attraverso testimonianze di trincea e di ribellione, occupando uno spazio critico, intende proporre una narrazione della guerra che sia finalmente nostra. Dal sito:
Gli ammutinati delle trincee, chi si è ribellato, chi ha disertato, chi ha combattuto una guerra alla guerra, tante guerre dentro la guerra. Una tesi poco nota che narra la Prima Guerra Mondiale partendo dalle guerre coloniali e districandosi tra esperienze personali e collettive che hanno creato conflitti di classe, di genere, di sogni all’interno di un conflitto che ha macellato tutto in un unico polpettone patriottico. Indigesto.
Ne abbiamo parlato con l’autore, Marco Rossi, a due giorni dal 24 maggio, centenario dell’entrata dell’Italia in guerra, richiamando al presente quei rifiuti inceneriti dalla voracità di re, governi, generali, industriali… cenere che riprende vita, finalmente.
http://www.radiazione.info/2015/05/millenovecentoquattordici-27/