Prima dell’art.18 (parte terza)
di Alexik
[A questo link il capitolo precedente.]
A Modena il 1950 si aprì nel peggiore dei modi. Nei primi giorni dell’anno gli industriali della città, riuniti presso Confindustria, decisero che era ora di sancire col sangue il loro diritto a licenziare.
Era passato un mese da quando Adolfo Orsi, proprietario delle Fonderie Riunite, aveva decretato la serrata buttando fuori 560 lavoratori. L’intenzione dichiarata era quella di riassumerne solo 250, ad esclusione di quelli politicamente e sindacalmente attivi, e di procedere all’azzeramento di tutti i diritti conquistati: il cottimo collettivo, la mensa gratuita, le bacheche sindacali, la stanza di allattamento per le operaie.
Il pretesto dei licenziamenti (allora come oggi) era la crisi. L’obbiettivo (allora come oggi) era la restaurazione in fabbrica dell’ ancien régime, e non solo alle Riunite.
Adolfo Orsi, che possedeva, oltre alle Fonderie, la Maserati e la Cave Engentra, era un fascista di lungo corso. Anche per lui la vittoria democristiana alle elezioni del ’48 aveva rappresentato l’occasione di rialzare la testa.
Sapeva Orsi di poter contare sullo Stato, rappresentato a Modena da un prefetto e da un questore traghettati direttamente dal periodo fascista, senza che la legge sull’epurazione li avesse minimamente scalfiti. In particolare il prefetto Giovan Battista Laura si era già distinto negli anni ‘30 come Vice-Podestà di Milano, dimostrando “uno zelo ed una diligenza veramente fuor di luogo, assumendosi una personale responsabilità” nella persecuzione degli ebrei1.
Sapeva, Orsi, di poter contare, con poche defezioni, anche sull’appoggio dei suoi pari, che riuniti nella sede di Confindustria decisero l’uso della violenza contro la manifestazione indetta il 9 gennaio dalla Camera del Lavoro per opporsi ai licenziamenti delle Riunite.
Prefetto e questore rifiutarono la concessione della piazza nel giorno dello sciopero generale, nonostante la richiesta venisse avanzata da senatori e deputati della Repubblica. Il diniego fu comunicato in termini perentori dal questore, che accolse la delegazione parlamentare al grido “Vi stermineremo tutti !”. Fu di parola.
Domenica 8 gennaio affluirono a Modena circa 1.500 fra poliziotti e carabinieri, tra cui i corpi speciali anti sommossa, con autoblindo, camion, jeep, e armati di tutto punto. Orsi li fece accomodare dentro la fabbrica, in modo che potessero appostarsi sopra i tetti. Questa, nelle testimonianze di chi c’era, la cronaca del giorno seguente2:
“Lo stabilimento è presidiato, circondato dalla polizia. Tutto il quartiere blindato dai posti di blocco nei punti cruciali. I rinforzi erano arrivati da Cesena, Bologna, Ferrara, Parma, Reggio Emilia”….”Ventimila persone cominciano a radunarsi nella zona industriale, pacificamente. La celere comincia a scatenarsi con il suo repertorio, fatto da caroselli, manganellate, lacrimogeni”. “I primi spari partirono dal terrazzo delle fonderie e rimasero colpiti subito 3, e altri feriti”. “Io avevo 18 anni allora, ero in prima linea, e là erano là sopra che facevano il tiro al piccione” .
Morirono Angelo Appiani (30 anni, partigiano, metallurgico), Arturo Chiappelli (43 anni, partigiano, spazzino), Arturo Malagoli (21 anni bracciante), Roberto Rovatti (36 anni, partigiano, metallurgico), Ennio Garagnani (21 anni, carrettiere), Renzo Bersani (21 anni metallurgico). Sei morti a cui aggiungere duecentottanta feriti3.
Il 10 gennaio fu sciopero generale in tutta l’Emilia Romagna, con manifestazioni di migliaia di persone in ogni città: a Bologna e Reggio Emilia dove l’astensione dal lavoro fu totale, a Rimini, dove i manifestanti subirono le cariche, a Forlì, dove sfilarono in 20.000, ed altri 20.000 a Ravenna.
Il 12 ci furono i funerali e 300.000 persone si strinsero agli operai modenesi. Togliatti, pronunciò parole vibranti, forse dimentico che senza l’amnistia da lui varata nel ’46, prefetto e questore di Modena sarebbero stati probabilmente epurati da tempo. Quel giorno si dimise il IV governo De Gasperi, ma solo per un breve rimpasto, che non spostò comunque Scelba dal Ministero degli Interni.
Ormai, il ritorno dei fascisti ai loro posti di potere era un problema generalizzato, una tendenza che l’ondata di indignazione successiva al massacro non riuscì ad invertire. Così come non riuscì ad impedire i licenziamenti. Le Riunite riaprirono, ma senza riassumere tutti, un pessimo esempio anche per la vicina Bologna, dove Adolfo Orsi divenne un modello da imitare.
Il 10 maggio alla Sigma (Officine Casaralta) di Bologna, azienda specializzata nella costruzione e riparazione delle carrozze ferroviarie, venne annunciata la messa in liquidazione e il licenziamento immediato dei 700 dipendenti. La proprietà, l’imprenditore bergamasco Carlo Regazzoni, intendeva così rispondere alle rivendicazioni salariali delle maestranze, che da alcuni mesi attuavano la tattica degli scioperi a singhiozzo.
Anche Regazzoni, come il modenese Orsi, era un vecchio amico dei fascisti, legato in particolare, durante il ventennio, a Leonardo Arpinati, gerarca e squadrista della prima ora. Anche Regazzoni si era arricchito grazie alle commesse belliche. Ma di restituire un po’ di quel guadagno sotto forma di salari agli operai neanche a parlarne.
All’annuncio dei licenziamenti seguì subito l’occupazione della fabbrica. Mario Cornetto, operaio della Minganti, ricorda cosa doveva affrontare chi portava solidarietà agli occupanti: “Occuparono la fabbrica gli operai e la occuparono per parecchio tempo e poi ci fu la serrata, che poi… riaprirono l’azienda cambiando nome sociale e poi fecero la scelta di quelli che dovevano entrare e di quelli che non dovevano entrare. […] Noi tutte le mattine andavamo lì e tutte le mattine c’erano i carabinieri con il calcio del fucile e ti davano delle gran botte. Non era lo sfollagente, era proprio… che venivano da Padova, il famoso, il famigerato capitano Bianco, del battaglione là che venivano da Padova e serviva per stangare, per dare delle gran botte. Non è scappato il morto a Bologna fortunatamente, ma… delle botte !”4.
Dopo tre mesi di occupazione le Officine Casaralta riaprirono i battenti, ma a personale ridotto. I più politicizzati rimasero fuori.
Nel frattempo, a peggiorare la situazione occupazionale in città, scattarano i licenziamenti anche al calzificio Doppieri, una fabbrica prevalentemente al femminile.
Anche al novarese Carlo Doppieri il ventennio aveva portato fortuna. Grazie alle leggi razziali aveva potuto comprare sottocosto il calzificio di Bologna dal proprietario ebreo, Armando Passigli, e grazie alla guerra aveva anche visto prosperare la Motofides, la sua fabbrica di siluri di Livorno. Amava giocare, Doppieri, in tempo di guerra, con la fame delle sue operaie. Quando veniva a trovarle da Novara era solito radunarle nella mensa e lanciare loro pacchetti di calze e sigarette, per vedere se si azzuffavano. A guerra finita le operaie decisero che non volevano più queste elemosine, ma salario5.
Nel giugno del ’50 la direzione comunicò 70 licenziamenti su una forza lavoro di 122 donne e 35 uomini, la riduzione dell’orario di lavoro a 24 ore settimanali e il progressivo smantellamento della fabbrica. Fu occupazione, subito.
“Tutti partecipammo alle lotte della serrata. Tutti quanti, la fabbrica era ferma. Siamo stati fermi un bel po’, eravamo lì giorno e notte. Si, tutto il caldo abbiamo passato lì, tutta l’estate. In piazza c’erano sempre delle manifestazioni e qualcuno di noi ci andava, che allora sparavano, mica facevano dei complimenti. Bussavano forte, ma era una lotta partecipata. Si sentiva che c’era un ideale. Per un ideale la gente si ammazza”6 (Dolores, licenziata dalla Doppieri).
L’occupazione alla Doppieri durò 110 giorni, durante i quali si scatenò una vera e propria gara di solidarietà. I contadini della provincia portavano il grano, i calzolai e le orlatrici disoccupate allestirono un laboratorio all’aperto, lavorando per sottoscrivere a favore delle licenziate Doppieri. Gli operai della Sigma, alla fine della loro lotta, consegnarono le loro scorte di viveri, e in 100 fabbriche ci furono assemblee di solidarietà. La lotta si concluse con un accordo che confermava 38 licenziamenti, la sospensione di altri 38, e la ripresa del lavoro di 81. Fra i licenziati il segretario della Commissione interna e l’operaia Dolores Giovannini, ex partigiana 7. (Continua)
- Luigi Ambrosi, La continuità dello Stato, in Zapruder. Storie in movimento, 16 ottobre 2003. ↩
- Testimonianze di Marcello Sighinolfi, Valmori Francesco e altri, tratte dal video 9 gennaio 1950, Fuori.tv. ↩
- Per approfondire: Eliseo Ferrari, A sangue freddo. Modena 9 gennaio 1950. Cronaca di un eccidio, Roma, Editrice LiberEtà, 2005, pp. 146. Tinelli Francesco, Era il vento e non la folla. Eccidio di Modena 9 gennaio 1950, Bèbert, 2015. ↩
- Piano b, La fabbrica e il dragone. Casaralta. Inchiesta sociale su una fabbrica e il suo territorio, in Metronomie anno XIV Giugno-Dicembre 2007, pp. 43/103. ↩
- Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991, pp. 70/72. ↩
- Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico sindacale a Bologna negli anni ’50, Editrice socialmente, 2014, p.122. ↩
- Ibidem, p. 79 ↩