Se accuso questo «J’accuse»

Fabio Troncarelli sul bel film di Polanski, sul caso Dreyfus, sullo sciagurato Harris, sui rasoi e sugli scriba-lecchini

Finalmente è uscito nelle sale il film di Polanski sul caso Dreyfus. Dico finalmente perché è stato giustamente molto apprezzato (da critici e pubblico a Venezia) e perchè effettivamente è molto bello. Polanski è uno dei pochi registi che sa fare ancora cinema, quello di una volta non il “birignao” dei patiti dei pupazzi animati. Però non è detto che gli riesca sempre tutto. Farlo notare non significa rompere le uova nel paniere per il gusto di farlo. Vediamo perché.

In originale il film si chiama «J’accuse» riprendendo il titolo di un famoso articolo di Emile Zola. In italiano si chiama invece «L’ufficiale e la spia» che riprende – in omaggio agli editori di libri sempre più assatanati di quattrini facili e sempre più a corto di idee originali – il titolo del best seller del giornalista e scrittore inglese Robert Harris da cui la pellicola è stata tratta. Il legame con il romanzo di Harris non è secondario: come ha scritto Mauro Donzelli: «sulle [sue] pagine era tutto descritto, inquadratura per inquadratura, gesto per gesto1». Ecco, il punto è proprio questo: per alcuni, come Donzelli, ciò significa che Harris è un genio «che meriterebbe più attenzione». Per altri invece, come me, Harris è una palla al piede che fa sprofondare il fim in una palude. Come del resto tutti i romanzieri che vogliono “romanzare” la storia e pretendono di ficcare la fiction dove non serve, anzi stona, come un attore che recita sopra le righe e aggiunge versi inutili a capolavori.

Una volta da ragazzo ebbi la disgrazia di vedere Romeo e Giulietta di Shakespeare nell’orrenda, catastrofica versione di un regista famoso: un bric-a-brac esagerato e sgangherato che intendeva solo imbambolare, ridurre a uno straccio l’innocente spettatore. Ricordo ancora con orrore il fatale momento che segnò tragicamente i miei sedici anni, quando Giulietta, dopo un abbraccio che pareva un amplesso di Laura Antonelli, sgranava i suoi occhioni da mucca al pascolo e diceva ispirata all’attonito Romeo: «Baci come nei libri!». L’effetto sconvolgente di queste parole sulla mia incerta adolescenza non basterebbero giorni e giorni a raccontarlo: per anni evitai con terrore, con furore direi, ogni contatto con il sesso opposto, annichilito dalla sicurezza assoluta che la mia futura Lei, prima o poi avrebbe pronunciato, inesorabile, queste parole o peggio si sarebbe aspettata un bacio al fulmicotone che giustificasse il sillabare questa frase. Ecco: vedete quel che succede quando uno manipola – “smucìna” come si diceva a Roma una volta – una storia che è stupenda così e sudando sette camicie la vuole rendere più sculettante, più “intrigante” come si dice oggi?

Perché dico questo? Beh, ragazzi: la storia di Dreyfus è una tragedia greca così com’è, senza bisogno di aggiungere o levare una virgola. Se uno la prende per il bavero, la strapazza e la strizza per spremerne il succo, manco fosse un limone rinsecchito, fa una cavolata enorme. E si dà la zappa sui piedi. Dico questo a malincuore, perchè il film è bello. Se guardiamo solo il lato estetico dobbiamo ammetterlo. Il regista tiene saldamente in mano una storia complicata, senza perdere il ritmo, sia pur lento, degli avvenimenti; gli attori sono bravi e adatti alle parti; la sceneggiatura funziona e riesce a raccontare, senza sbavature, una serie di eventi intricati che coprono una ventina d’anni; la scenografia è perfetta; la ricostruzione di ambiente pure. Come dicevo all’inizio Polanski fa “cinema”. Come non si vede più in giro tanto facilmente. Basta a dimostrarlo la bella scena iniziale della degradazione di Dreyfus, solenne ed epica ma anche struggente, angosciosa. Ci vuole un regista di razza per fare una cosa del genere. Non a caso Polanski ha una certa età e affonda le sue radici nel grande cinema polacco degli anni d’oro.

Allora che cosa c’è che non va in «J’Accuse»? Non va proprio quello che manda in estasi alcuni sprovveduti, servi dell’editoria e dei soldi facili: che il film derivi da un romanzo e non da un libro di storia. Da un surrogato e non dall’originale. Senza rendersene conto (o forse rendendosene conto benissimo) chi scrive il romanzo della storia riduce la storia a un fotoromanzo; al solito vecchio schema hollywoodiano del Buono contro i Cattivi, del Bene contro il Male. Quel che non va è il manicheismo. Al servizio del best seller. Per carità: non siamo al livello ruspante e paesano di una volta, con i cow-boys contro gli indiani. Oggi il pubblico è sofisticato e mica ce lo freghi più così. Lo freghi in un altro modo. Facendogli credere che sei un vero intellettuale, mentre sei solo un nerd.

Più di un critico francese e italiano ha fatto subito notare certi limiti del film, smentendo le recensioni filisteee e neo-conformiste dei soliti giornalisti da rotocalco, che scrivono compiaciuti e pasciuti: «Polanski ricostruisce “l’affare Dreyfus” non dalla parte del capitano condannato all’Isola del diavolo per alto tradimento, ma da quella del colonnello Picard (sic!) che… si accorse dell’inconsistenza delle accuse … smascherando l’ingranaggio di bugie che sfruttava l’antisemitismo montante e vedeva nel capitano ebreo la vittima ideale…. Il film evita le facili tirate retoriche: l’antisemitismo è qualcosa che si muove sullo sfondo, inquietante proprio perché considerato normale»2.

Già! Basta non essere retorici e gongolare! Invece no. Mica perché bisognerebbe spingere il pedale e far vedere in modo ancora più violento che cos’era l’antisemitismo in Francia alla fine dell’Ottocento. Perchè bisognerebbe essere meno superficiali.

Lo ha detto molto bene Clotilde Bertoni, con cui concordo pienamente.

«Una didascalia introduttiva sottolinea subito la rigorosa autenticità dei fatti esposti; e vari articoli hanno elogiato il valore di testimonianza [del film]. In realtà, l’autenticità non è poi così rigorosa, la testimonianza non è perfettamente attendibile, il lavoro, pur molto documentato, rimaneggia a più riprese la vicenda… Il film, come in parecchie altre recenti riletture di fatti storici, scivola nella soggezione a un consolidato repertorio di cliché… Innanzitutto, va notato che mettendo sempre le vicissitudini di Picquart in primo piano, il lavoro lascia ai margini la grande battaglia collettiva del nucleo dell’Affaire, e gli eterogenei personaggi da essa aggregati… L’apertura alla fine del 1897 dell’inchiesta su Esterhazy, la vera spia, risulta merito esclusivo di Picquart, mentre in realtà … ad accusare pubblicamente Esterhazy fu invece Mathieu Dreyfus [fratello dell’accusato] grazie a una testimonianza raccolta proprio nello stesso periodo; la variazione contribuisce a lasciare in ombra il ruolo di quello che fu chiamato a ragione “il fratello indistruttibile”, e più in generale la multiformità delle forze che scatenarono la battaglia.

Ancor più significativamente, poi, [nel film] Picquart sembra il promotore del J’Accuse, il famosissimo articolo di Zola uscito sull’“Aurore” il 13 gennaio 1898, da cui il film deriva il titolo: è lui, durante un incontro con le personalità impegnate nel caso, a spronare lo scrittore a rendere nota la vicenda al grosso pubblico, e la comparsa del pezzo sembra diretta conseguenza del loro confronto. Un passaggio del tutto inesatto, non solo perché l’incontro in questione in realtà non ebbe luogo ma anche perché i fatti essenziali erano stati già divulgati da Bernard Lazare (scrittore e giornalista ebreo vero pioniere della denuncia, che già nel 1896 aveva pubblicato un primo pamphlet in merito) e poi via via da diversi giornali… Il film quasi esclude il campo degli intellettuali che secondo una nota riflessione di Bourdieu ebbe nell’Affaire la sua consacrazione. E anche qui Polanski non fa una scelta isolata ma segue una tendenza imperversante: l’appeal sempreverde dell’eroismo singolo resta spesso ancorato ai modelli più classici, l’immaginario contemporaneo dà raramente peso agli uomini di pensiero, mentre non finisce mai di confermare lo smalto degli uomini d’azione; attualmente innumerevoli romanzi e film storici rileggono gli eventi prescelti attraverso le avventure di personaggi certo difformi – autentici o immaginari, eroi adamantini o antieroi sgualciti, con o senza l’uniforme – ma sempre con le armi alla mano, sempre audacemente esposti a rischi estremi, sempre fieramente opposti a tutti i possibili apparati, spesso pure a tutte le possibili aggregazioni. La rassegnazione alla crisi delle ideologie e della politica, lo scetticismo circa la presa sulla collettività delle elaborazioni concettuali, seguitano a cercare il proprio antidoto, in forme più rozze o più sofisticate, nel ripescaggio di mitologie logorate fino allo sfinimento da feuilleton e fumetti, ma sempre lontane dall’estinguersi…. Picquart (…) sopportò fermamente l’isolamento, la prigionia, l’ostracismo dell’esercito e il pesantissimo livore del partito antidreyfusardo… Però, non tenne sempre un comportamento dei più limpidi: non contestò per nulla la condanna del 1894… non abbandonò mai del tutto i suoi preconcetti antisemiti, fu attento ad approfittare della notorietà che l’Affaire gli aveva dato, rimproverò a Dreyfus l’accettazione della grazia al punto di rifiutare a lungo di incontrarlo…

Beninteso, Polanski non era tenuto a ricostruire la sua fisionomia effettiva; ma un maggior affondo nelle sue ombre avrebbe potuto ispirargli un personaggio più sfaccettato3».

Mi sia permesso fare due piccole aggiunte a queste critiche.

La prima. E’ strano che ancora oggi ci sia così poca consapevolezza che dietro l’affare Dreyfus vi sia stato, con ogni verosimiglianza, molto più di quello che è venuto fuori e che pochi abbiano voglia di andare a frugare sotto la superficie.

Perchè lo dico? Per due ragioni.

Prima ragione: Non si tiene mai conto che molti dei personaggi implicati nella vicenda avevano un passato glorioso che li rendeva credibili. Il capitano Henry (non “colonnello” come si dice nel film), il quale fabbricò materialemente la falsa lettera che avrebbe dovuto inchiodare per sempre Dreyfus, era un eroe della guerra franco-prussiana ed era scappato ben due volte ai campi di prigionia tedeschi facendosi beffe degli odiati crucchi, con grande delizia dei francesi sconfitti ma non domati. Come lui anche il vero spione, il famigerato Ferdinand Walsin Esterhazy, aveva valorosamente combattuto nella guerra franco-prussiana ed era stato in seguito, altettanto coraggiosamente, una spia al servizio dei francesi. Non è vero per niente, come dice il film di Polanski seguendo il romanziere Harris, che Esterhazy fosse una nullità qualsiasi, un puttaniere e un omosessuale, pieno di debiti di gioco e basta. Per carità, non era uno stinco di santo. Ma aveva un passato significativo. Viene il sospetto che l’opinione pubblica sia stata condizionata dalla frustrazione contro i tedeschi e che sia stato facile soffiare sul fuoco sfruttando questo sentimento. Non a caso, all’inizio della vicenda, giornali e uomini comuni se la presero con Dreyfus perché era alsaziano e dunque mezzo tedesco, non perché era ebreo: e non a caso la denuncia contro Dreyfus venne fatta, oltre che dal già ricordato Henry, dal suo superiore Jean Robert Sandherr, il quale era a sua volta alsaziano e dimostrava – perseguitando un suo compaesano – di non essere “mezzo tedesco” ma piuttosto “mezzo francese”. E’ solo dopo che venne giocata la carta dell’antisemitismo, molto più redditizia. Dunque all’inizio era il presunto patriottismo antitedesco il vero motore delle cose.

Seconda ragione. I servizi segreti francesi conoscevano bene Esterhazy e si fidavano di lui. In particolare lo conosceva bene Henry che fu l’autore del falso, al punto che Esterhazy affermò essere stato Henry a istigarlo. Non è strano che il vero traditore fosse una spia che i servizi segreti conoscvano bene? Più di uno studioso ha suggerito che Esterhazy facesse il doppio gioco fingendo di fare la spia per i tedeschi mentre era e rimaneva sempre al servizio dei servizi segreti francesi. Già, i servizi segreti francesi! Che erano al… servizio di chi? Ecco nel film – che deriva dalle fantasie paranoidi di uno snobbetto inglese per cui esiste solo 007 e i francesi “mangiarane” – i servizi segreti francesi sembrano un covo di mentecatti. Basti dire che il portiere dello stabile fatiscente, dove si riuiscono loschi figuri i quali giocano a carte e si ubriacano, è un vecchio franco-arabo che si addormenta sempre sul lavoro e neppure vede chi entra e chi esce nella stamberga delle spie. Beh, io credo che questa rappresentazione, per quanto francamente divertente e spiritosa sul piano cinematografico, non sia affatto vera e sia invece una mistificazione. Far credere che i “mangiarane” francesi avessero servizi segreti scardellati non ci aiuta a capire cosa ci fosse dietro al caso Dreyfus. Possibile che nessuno si domandi come mai tanta ostinata resistenza a riaprire il caso, anche dopo rivelazioni clamorose? E come mai ci fosse tanto bisogno di un capro espiatorio per mascherare una vera spia? Come si spiega una così accanita resistenza di generali e di politici, contro cui si schierarono i più importanti intellettuali dell’epoca, tutti a favore di Zola, come Edward Manet, Jules Renard, Charles Peguy, André Gide, Anatole France, Henri Poincaré e metà dei professori della Sorbona? Una resistenza che portò a diverse crisi di governo, con dimissioni a catena di personaggi influenti. La nostra modesta storia italiana ci ha insegnato che quando non si riesce a capire un’acca delle bombe di Piazza Fontana o di Bologna, nonostante la pressione della stampa e degli intellettuali, è perchè ci sono interessi da difendere molto più importanti dell’onore dell’esercito o del razzismo. Di solito in questi casi c’entrano i servizi segreti, magari deviati; c’entrano uomini politici che giocano sporco; c’entrano servizi segreti stranieri… Vi pare strano? Allora vi sembrerà curioso anche che una buona parte dell’esercito e della borghesia francese si sia accodato senza fiatare ai nazisti, per odio contro le sinistre e i fronti popolari, alla faccia del patriottismo e dello sciovinismo degli abitanti delle Gallie. Siete così sicuri che dopo il 1870 e dopo la Comune di Parigi non ci fossero altrettanti uomini importanti in Francia, che preferivano avere rapporti – come dire – “privilegiati” coi crucchi, per paura del socialismo e delle masse capaci di ribellarsi? Rapporti che si tenevano attraverso spie insospettabili, ex-eroi della guerra contro i tedeschi, gente che sapeva benisimo come fare il doppio gioco, mica scalcinati impiegatucci che si fanno un pisolino sul posto di lavoro. Oppure potrebbe essere, semplicemente, che i francesi cercassero di imbrogliare i tedeschi attraverso false spie per metterli fuori strada: anche in questo caso personaggi come Esterhazy ed Henry erano manovrati da figure più importanti che agivano nell’ombra e non dovevano essere mai denunciate. Comunque la vediamo, si ha l’impressione che ci sia qualcosa di più profondo dietro la superficie. Ne dubitate? Pensate che abbia troppa fantasia? Sarà così. La fantasia come dice Aristotele è la qualità che ci fa vedere le immagini degli oggetti, i “fantasmata” che solo molto tempo dopo sono divenuti sinonimi di illusioni.

Vi propongo un “fantasma” in senso aristotelico: quando fu scoperto, il capitano Henry confessò tutto. Fu rinchiuso in una cella. Lì venne trovato un’ora dopo, con la gola tagliata da un rasoio, come si vede anche nel film. Però c’è un problema. Non è la “fantasia” che lo dice, ma proprio i testimoni ocualri, i guardiani della prigione i quali dicono che Henry era stato ovviamente perquisito e non aveva nessun rasoio con sé. Su avanti: ecco l’immagine del rasoio, il “fantasma “ aristotelico che la nostra fantasia ci fa vedere. Ecco il rasoio “universale” o “aristotelico” che balza vivido davanti agli “occhi della mente” grazie alla nostra “fantasia”, ma anche il rasoio “particolare” che taglia la gola di Henry. Mi dite voi chi glielo ha dato questo rasoio? E mi dite voi se colui che glielo ha dato si è limitato a darglielo o se invece lo ha usato, per “suicidarlo” come succede sempre quando qualcuno sa troppe cose, come il banchiere Roberto Calvi ad esempio. Che ne dite, nemici della fantasia? Era solo l’onore dell’esercito a impedire ai generali e politici di riaprire il caso Dreyfus? O era la paura che qualcuno sputasse il rospo facendo nomi e cognomi?

Seconda osservazione. In tutta questa fanfara gli scrittori come Zola gridano «Io accuso», i generali indignati gridano «L’onore della Francia è in pericolo» mentre gli accusati gridano «Io sono innocente», i giudici prezzolati gridano «Tu sei colpevole» e gli eroi senza macchia gridano «Ho scoperto il complotto” … ecco, ci fosse uno che perde un po’ del suo preziosissimo tempo e abbassa il tono dei suoi preziosissimi gridi per dedicarsi al sommesso bisbiglio di un eroe per caso, un personaggio che potrebbe piacere a Stephen Frears, ebreo anche lui come Polanski e avrebbe tutti i requisiti per parlare di antisemitismo: uno schlemil, per dirla con un espressione yddish cara a Billy Wilder, il quale avrebbe certamente affidato la parte a Jack Lemmon.

Chi è lo schlemil? Ma il poveraccio che in mezzo a tanto clangor di buccine ebbe il coraggio di dire con flebile voce “il re è nudo” scoprendo veramente qualcosa che nessuno aveva notato prima. I lettori della Bottega del Barbieri lo conoscono già perché gli ho dedicato un ricordo commosso in un intervento del 1 giugno 2017, rievocando il caso Dreyfus, quando il film di Polanski era ancora pura immaginazione. Mi sia permesso di citarmi: «Nel caso Dreyfus la svolta non fu solo il celeberrimo J’accuse, l’editoriale dello scrittore Émile Zola … La vera svolta ci fu qualche mese dopo, il 13 agosto, quasi contemporaneamente alla condanna in tribunale di Zola. Louis Benjamin Cuignet, un piccolo capitano al servizio del ministro Godefroy Cavaignac, l’ultimo feroce nemico del povero Dreyfus, era un piccolo tirapiedi, solerte, ma sempre sottomesso, uno come Fazio rispetto a Montalbano. Una sera, alla luce di una miserabile lampada egli vide, per caso, quello che tutti si rifiutavano di vedere: la lettera che inchiodava Dreyfus – la prova delle prove, che il feroce Cavaignac aveva ordinato di riprodurre in 36.000 copie, tante quanti i comuni di Francia, perché anche il più piccolo centro sperduto conoscesse l’infamia del traditore – era FALSA. E sapete perché? Perchè la firma era scritta su un pezzo di carta con filigrana visibile e la lettera no: la lettera era scritta su pezzi di carta diversi, appiccicati grossolanamente insieme… L’ufficialetto, un pesce piccolo al servizio dei nemici di Dreyfus, addirittura convinto che Dreyfus fosse colpevole… aveva l’abitudine di non credere all’apparenza. Quest’uomo, di statura apparentemente così modesta, ebbe il coraggio di essere onesto e denunciò la cosa al suo superiore, il terribile Cavaignac che fu altrettanto onesto e ammise pubblicamente l’errore.

Dreyfus (…) venne deportato all’Isola del Diavolo dove viveva completamente solo, divorato dalle febbri. Chi aiutò davvero quest’uomo solo e abbandonato? Un suo nemico… Uno che non ebbe paura di gettare al vento la sua reputazione e fu veramente onesto fino in fondo: non l’onestà prometeica del cavaliere senza macchia e senza paura, ma l’onestà senza gloria di chi oppone alla “banalità del male” la banalità del bene»4.

 

1 Mauro Donzelli, L’ufficiale e la spia: un nuovo gioiello nato dalla penna di Robert Harris, uno scrittore che meriterebbe più attenzione, in Coming Soon, 24 novembre 2019, https://www.comingsoon.it/cinema/news/l-ufficiale-e-la-spia-un-nuovo-gioiello-nato-dalla-penna-di-robert-harris/n97364/

2 Paolo Mereghetti, L’ufficiale e la spia di Polanski arriva al cinema , in «Io donna», 23 novembre 2019, https://www.iodonna.it/spettacoli/cinema/2019/11/23/lufficiale-e-la-spia-j-accuse-roman-polanski-recensione/

3 Clotilde Bertoni, L’Affaire Dreyfus di Roman Polanski, in Doppio Zero, 10 settembre 2019, https://www.doppiozero.com/materiali/laffaire-dreyfus-di-roman-polanski

4 Fabio Troncarelli, ERA – QUASI CERTAMENTE – IL 26 GIUGNO 1898, MEZZOGIORNO CIRCA, in La bottega del Barbieri, 1 giugno 2017, http://www.labottegadelbarbieri.org/era-quasi-certamente-il-26-giugno-1898-mezzogiorno-circa/

Redazione
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4 commenti

  • (dall’estero)

    certo Polanski avrebbe potuto parlare di questo, ed anche parlare di quello, pero un film non puo mai dire “tutto” -e per quanto avendo dedicato ricerche all’Affare penso di poter dire questo ‘J’accuse’ dice già molto…

    Di più -e soprattutto : TUTTE le cose qui sopra rimprovate a Picquart (“non contestò per nulla la condanna del 1894… non abbandonò mai del tutto i suoi preconcetti antisemiti, fu attento ad approfittare della notorietà che l’Affaire gli aveva dato” ecc. ecc.) sono ricordate con perfetta onestà dal regista.

    In altri termini il titolo di quest’articolo mi sembra perlomeno, eccessivo.

    • Fabio Troncarelli

      Il titolo dell’articolo è solo un gioco di parole: e un gioco di parole non può essere né “esagerato”, né “moderato”. Dovrebbe essere solo “divertente”. Se non lo è chiedo scusa al lettore. Quanto al film, ognuno è libero di fare quello che gli pare se fa un’opera di totale finzione. Ma se fa un film storico e afferma esplicitamente che ogni cosa che c’è nel film è vera e rigorosamente documentata, l’equivoco lo crea da solo. Se io faccio un film sulla guerra di liberazione in Italia e dico che la vitoria è stata tutto merito degli alleati senza ricordare le “Quattro giornate di Napoli”, dico una balla grossa come una casa. E se faccio un film sulla storia del divorzio in Italia e dico che la legge sul divorzio è stato merito dei socialisti e non parlo minimamente di Marco Pannella e dei Radicali dico un’altra balla. Di simili balle è pieno il film di Polanski. Ne ricordo solo una: nel film non appare mai il giornalista Bernard Lazare, che nella lotta per riabilitare Dreyfus ha molti più meriti di Piquart, il protagonista delle due ore e mzzo offerte allo spettatore da Polanski. In due ore e mezz magari un minuto per Lazare si poteva trovare. E invece no. E questo è veramente bizzarro: è Lazare che ha inventato la celebre frase “J’accuse, che ” poi è stata letteralmente copiata da Zola. E’ Lazare che ha rivelato chi era la vera spia, scoperta dal fratello di Dreyfus, molto prima di Piquart. E’ Lazare che ha fatto una campagna di stampa clamorosa a favore di Dreyfus, sul giornale “L’ Aurore”, a cominciare da due anni prima dell’articolo di Zola, procurandosi odi e violenti attacchi personali. Perché in “J’accuse” non c’è traccia di lui? A mio parere il film ci avrebbe guadagnato se fosse stato pensato in un altro modo: come un film “corale” in cui si muovono parallelamente diversi personaggi, qualcosa come “Nashville” di Altman, per esempio. In ogni caso, l’hoidetto e lo ripeto: ognuno è libero di fare quello che vuole se fa un’opera di finzione. Anche io, però, sono libero di farlo se recensisco l’opera (e qualcun altro è d’accordo con me, a quanto pare). E sono libero di dire che quando prevalgono le ragioni economiche sulle ragioni artistiche , quando si fa un film di cassetta e non un film veramente controcorrente, è facile banalizzare tutto ed essere superficiali, alla faccia della “verità” e della “onestà”! Vorrei ricordare che di fronte a un caso simile e cioè di fronte alla bugia del film “La vita è bella” che fa vedere i carri armati americani che liberano il campo di concentramento di Trieste, mentre invece sono stati i russi dell’Armata rossa a liberarlo, il regista Monicelli ha detto, senza peli sulla lingua ,che questa era “una mascalzonata”. Io non arrivo a dire tanto: dico solo, scherzando, che “accuso” il film “J’accuse”. Però Pulcinella, scherzando, scherzando, disse la verità…

  • (dall’estero)

    E’ stata… censurata, la mia breve -e cortese va da sé- risposta : l’Italia di Salvini ha la “sinistra” che merita…

  • Fabio Troncarelli

    Nessuno ha censurato un bel niente. E quanto a Salvini non capisco che cosa vuoi dire. Se rispondere a un’osservazione è una censura, non so che cosa devo pensare di hi si dice “cortese” (nei modi) ma non è cortese nel pensiero. In ogni caso vorrei aggiungere una cosa: nella “cortese risposta” che smentisce quello che ho detto si dice che il regista “onestamente” ricorda con “perfetta onestà” certi limiti di Piquart: Ma questo è un modo non corretto di presentare la cosa (sto censurando qualcuno? No, ditemelo che allora non scrivo più!). E’ vero che il regista ricorda i limiti di Piquart: ma se poi lascia intendere che è stato lui a ispirare Zola o quanto meno a spingerlo a scrivere il famoso “J’accuse” mentre questo non è vero, allora questi “limiti” diventano piccole cose. Inoltre se il regista non dice che Zola ha copiato il “J’accuse” da Lazare omette una cosa importante. La sua “onestà” non è messa in discussione da nessuno: ma è un’onestà che è anche reticente. No sto dicendo che è stato un malvagio e un bugiardo: dico solo che se si fa un fulm con il supereroe si finisce per essere reticenti. Detto questo: perché le mie osservazioni che rispondono ad altre osservazioni sarebbero una “censura”? perché dire che un regista non ha detto cose importanti e ha perduto un’occasione è degno di Salvini? E perché prendersela con l’Italia o al sinistra? Io non sono l’Italia. Sono una persona. Una persona che ragiona. Posso sbagliare. Ma non sono il tipico rappresentante dell’Italia dell’epoca di Salvini: E non dio di nessuno, neppure del mio interlocutore, che è il tipico esponente di….Chi ragiona come Salvini è chi classifica gli altri e li rende “tipici”, non chi ragiona e risponde a ragionamenti con altri ragionamenti.

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