“Una certa idea di Italia“

Recensione di Gian Marco Martignoni al secondo numero della rivista Limes dedicato al declino economico, sociale e culturale del nostro paese.

È uno sguardo preoccupato ma non rassegnato quello con cui la redazione di Limes ha indagato il declino economico, sociale e culturale del nostro paese nel secondo numero monografico del 2024 “Una certa idea di Italia“ (pagg.324, euro 15).

Il ventaglio delle tematiche messe a fuoco è decisamente ampio, ma è significativo innanzi tutto il collegamento che emerge tra l’adozione dell’euro, in virtù dell’impostazione ordoliberista del trattato di Maastricht, e la strutturale perdita della crescita economica, con l’aggravante dell’assorbimento del segmento più avanzato dell’industria italiana all’interno della catena del valore tedesca. Quest’ultimo aspetto, che ha tra le sue case i consistenti processi di deindustrializzazione che hanno investito il comparto degli elettrodomestici e quello della chimica di base, e al contempo la crescita della rete dei subfornitori al servizio sia dei grandi gruppi tedeschi che francesi, è l’ennesima conferma della fotografia che un paio di decenni fa Luciano Gallino aveva memorabilmente tracciato nel libro “La scomparsa dell’Italia industriale“.

Infatti, dobbiamo considerare che i quattro quinti del valore aggiunto, pari a circa 250 milioni di euro, sono prodotti da circa 30 mila imprese con oltre 20 addetti, delle quali ben 1700 sono sotto il controllo tedesco, localizzate per il 60% in Lombardia e Trentino-Alto Adige, e per il restante nel Veneto, Emilia – Romagna e Piemonte. Diversamente il 99% del tessuto produttivo composto da aziende con meno di venti dipendenti produce con circa 50 milioni di euro solo un quinto del valore aggiunto complessivo , nonostante l’acritica esaltazione del “piccolo è bello”, che storicamente si è contraddistinto per la licenza di evadere e le continue richieste di riduzione del costo del lavoro.

Mentre per quanto riguarda le aziende di una certa caratura internazionale l’Italia, nella classifica Fortune 500, è scesa al quindicesimo posto, stante che la Germania è al quarto posto e la Francia al quinto. Solo focalizzando questi dati possiamo comprendere perché la produttività del lavoro è pari allo 0,4% rispetto alla media europea dell’1,6%, che però è la naturale conseguenza di una produttività del capitale scesa drammaticamente ad un -0,5%, in ragione della scarsa innovazione tecnico-scientifica e della collocazione nella divisione internazionale del lavoro nei settori a basso valore aggiunto.

Altresì il forte arretramento della nostra economia è indicato dal dato del Pil, che fatto 100 il valore del 2007, nel 2023 è stato contabilizzato a 95,6; ovvero dieci punti inferiore a quello della Spagna, e ben venti punti rispetto alle prestazioni di Germania e Francia, delle quali siamo considerati “estremità debole“.

In secondo luogo , sempre in relazione all’anno 2007, in antitesi alla retorica governativa che vanta il picco massimo raggiunto sul piano occupazionale, risultano mancanti a fin 2022 ben 800 mila posti di lavoro, anche per il crollo del 34,8% degli investimenti pubblici nel decennio 2009 – 2019. Al punto che la crescita in questo decennio è stata del 2,7%, a fronte di una media europea pari al 16,9%.

Pertanto, perfettamente in linea con le indicazioni fornite a iosa dai più qualificati centri studi, Alessandro Aresu individua nella crescita dimensionale delle imprese e nel rilancio di una politica industriale, a partire dal sostegno delle medie imprese internazionalizzate e della nostra industria spaziale, gli obiettivi preliminari da perseguire. Pur nella consapevolezza che negli ultimi trent’anni “il progresso scientifico è come non ci fosse stato“ per l’insieme del nostro paese. Non è un caso che Agnese Rossi ,nel formidabile contributo “La crisi dell’università e il suicidio dello stato” , evidenzi come il disinvestimento pubblico nei confronti di questa fondamentale istituzione abbia approfondito il divario da un lato tra le sedi del Nord e del Sud d’Italia, sulla scorta di una perniciosa concezione dell’autonomia scolastica, dall’altro lato un mercato del lavoro che per la strutturale predominanza delle micro-imprese non ricerca personale qualificato.

Perciò, per la spesa in ricerca e sviluppo siamo ad un risibile 1,47% del Pil ( con però il 54,4% dei finanziamenti provenienti dal settore privato ), mentre nell’istituzione terziaria siamo scesi allo 0,9% rispetto allo 0,94% del 2012, considerando che in realtà lo stato si fa carico dello 0,55%, in quanto il restante è a carico delle famiglie degli studenti, con le inevitabili differenze di classe che ne conseguono.

Inoltre, stante l’apologia delle competenze senza riflessione storica e teorica , e la crescita delle università telematiche (224 mila clienti registrati nell’anno scolastico 2021/22), in antitesi con le proposizioni dell’illuminista tedesco Karl Wilheim von Humboldt “sistema universitario e sistema politico mediamente convergono sulla formazione di cittadini inconsapevoli”, funzionali a sottomettere l’etica agli imperativi del profitto. Quindi, la discrasia con le esigenze di un mercato del lavoro in buona parte precarizzato, spiega abbondantemente la fuga dei giovani all’estero (dal 2012 al 2021 sono stati 337 mila gli espatriati, di cui 120 mila i laureati), ma è anche la testimonianza più tangibile, come sostiene Massimiliano Valeri, dello spaesamento “della prima generazione dal dopoguerra che si misura con gli idoli infranti del progresso”.

Infine, merita die essere segnalato l’allarme che Giuseppe De Ruvo, Alessandro Francescangeli e Jacopo Ricci lanciano attraverso il saggio “Autonomia differenziata o della fine dello Stato”. Le contraddizioni che la legge sull’autonomia differenziata innesca innanzi tutto con il premierato, fortemente voluto da Giorgia Meloni e dalla destra di estrazione missina, sono il prodotto di “una profonda incoscienza strategica della classe dirigente del nostro paese”, che unisce una mentalità feudale a sentimenti preunitari e particolaristici.

Pertanto, si profila una secessione dei ricchi, che mira all’accaparramento di risorse aa danno degli altri territori, storicamente svantaggiati, mettendo a rischio tutte le politiche pubbliche di valenza nazionale e di conseguenza l’eguaglianza dei cittadini. Viene quindi meno il regionalismo solidale e non competitivo sancito dalla nostra carta costituzionale. Proprio la forza di questi principi non depone per una strada in discesa rispetto al percorso applicativo di questa legge: il principio della sussidiarietà non può essere esercitato senza il corollario dell’adeguatezza, in quanto i fini di pubblico interesse non si conciliano con una devoluzione incondizionata alle regioni.

Redazione
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