ΟΙ ΣΑΡΔOI – SOS SARDOS – I SARDI

di Natalino Piras

Nico Orunesu, Acque terre migrazioni, olio, gesso e sabbia su tela, cm 30×40

Tornato in sé, Zivago Artus non perdeva il senso della visionarietà, quanto dava corpo, contraddizione in termini, alla sua voglia di conoscenza. La virtute acuiva in lui dolore privato e dolore storico. Perso in questa foresta, faceva paragoni con il passato prossimo ma anche con il passato remoto, remotissimo. Era un dimidiatus sacerdos, un uomo dimezzato munito di volontà feroce, come molti sardi. Perennemente diviso tra speranza, la capacità dei poveri di organizzare sogni di rivolta, e l’abbagliante cupezza degli sconfitti, quelli che quando era prete operaio, nei momenti di sosta dalla dura fatica cantavano in coro:

tutta la vita semu in la foresta,

fora de dogni muimentu umanu,

e sia a lu soli sia a la timpesta,

a carant’anni non è unu sanu.[i]

Allora, tra i quaranta e i cinquant’anni, Zivago Artus stava spesso in foresta. E visionava. Diceva di navigare il cuore della tenebra. Qualsiasi paragone tornava utile al suo dolore, al suo rimorso. Come Cornus, luogo riflettente una catastrofe storica e una privata. A Cornus, nel golfo del Sinis, costa occidentale nel sud della Sardegna, nel 215 a.C. le legioni romane sbaragliarono e fecero strage dell’esercito sardo punico comandato da Josto, figlio di un latifondista meticcio, Amiscora.

Clangore di trombe saliva al cielo, suono dolce per i vincitori, assordante e terribile per i vinti, come lama che stride sulla pietra. Il fetore faceva mucchio e stratificava in pire di corpi di uccisi. Non ci fu più resistenza. Gli elefanti corazzati per la guerra barrivano feroci, si innalzavano mostruosi, ritti su due zampe e poi ricadevano schiacciando impazziti i loro padroni. Molti cavalli scossi fuggirono verso la foresta del Monte di ferro. Gli altri sarebbero stati bottino di guerra. Quanto restava dei sardo punici errava e solo erranza oppose alla cavalleria romana. Si sentirono più forti le urla degli scannati a sangue freddo, dei mutilati di braccia, mani e piedi, e occhi e naso e genitali prima di essere finiti oppure lasciati lì, soli o a mucchi, perché potessero venire divorati dai cani.

Josto perì in combattimento. C’è chi dice che fu il poeta Ennio ad ucciderlo. Non si sa se Josto combatté da valoroso e neppure se conosceva l’oracolo della Sibilla cumana dei romani, quella che faceva responso dicendo a chi andava alla guerra: ibis et redibis non perieris in bello[ii].

Amsicora si uccise. I sardi rimasti furono fatti schiavi e portati a Roma per essere venduti a prezzo vile.

Dice la leggenda che solo uno non cadde in battaglia, uno il cui nome si sarebbe ripetuto nei secoli e nei millenni.

Era Istefane Dorveni.

 

Natalino Piras, Barbaricinorum libri

https://www.facebook.com/natalino.piras

Immagini: Nico Orunesu

 

[i] tutta la vita stiamo nella foresta,

fuori da ogni movimento umano,

e sia al sole sia alla tempesta,

a quarant’anni non ce n’è uno sano.

[ii] https://it.wikipedia.org/wiki/Ibis_redibis_non_morieris_in_bello

 

 

 

 

TAG:  Natalino Piras, Bitti, Sardegna, Nico Orunesu, guerre puniche, Istefene Dorveni, Amsicora, Josto, Quinto Ennio, sardi

 

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