L’Africa nera vista da Nigrizia

Camerun, Ciad, Congo, Etiopia e Somalia: testi di Bruna Sironi, Raymon Dessi, Pyrrhus Banadji Boguel, Maurice Kamto, Raffaello Zordan (tutti ripresi da Nigrizia.it). A seguire un articolo di Chukwuemeka Attilio Obiarinze sulla Nigeria (ripreso da Frontierenews) e una riflessione di Marco Aime, sulla storia africana a partire da “Africa antica” di François-Xavier Fauvelle (da doppiozero.com)

Inossidabile resilienza – Raymon Dessi

 

Docente, giurista e avvocato. Ma prima di tutto rivale numero uno dell’ottantasettenne presidente Paul Biya, al potere da trentotto anni. Da settembre Maurice Kamto è di fatto recluso nella sua abitazione da un cordone di polizia che gli impedisce di uscire

«Maurice Kamto ha la schiena dritta. Ѐ uno che sa incassare i colpi. Fosse stato qualcun’altro al suo posto, già tempo fa avrebbe piantato baracca e burattini». Il commento sulla resilienza politica del sessantaseienne leader dell’opposizione camerunese è del suo collega Yondo Black, ex-presidente dell’ordine degli avocati del Camerun. La sua affermazione, pronunciata a metà ottobre, evidenzia, in un certo senso, la vocazione suicidaria che deve abitare chi s’impegna ad interpretare il ruolo dell’opposizione nella scacchiera politica camerunese.

Le parole di Yondo Black nei confronti di Maurice Kamto non sono solo un commento di un osservatore esterno. Lui stesso è stato incarcerato, agli inizi degli anni ‘90, per aver osato organizzare una manifestazione politica pacifica, ma contro la quale il governo di allora – e di adesso – aveva posto un veto. Nel 2018, trent’anni dopo, il leader dell’opposizione si è trovato incarcerato per aver organizzato una manifestazione di protesta contro la rielezione dello stesso presidente di allora, Paul Biya.

Alle stesse elezioni aveva partecipato Kamto che si era auto-proclamato vincitore anche sulla base di dati numerici risultanti dallo spoglio. Anche se numerosi osservatori erano d’accordo sul fatto che avesse vinto il leader dell’opposizione, la Commissione elettorale e la Corte costituzionale avevano riconfermando l’inossidabile Paul Biya alla guida del paese.

La memoria collettiva del paese è tutt’oggi scossa dallo svolgimento caotico, in diretta televisiva, del contenzioso elettorale presso la Corte costituzionale, quando le discussioni fra fazioni opposte di giuristi avevano contribuito ad accentuare la gravità delle violazioni denunciate dai leader dell’opposizione, e in particolare da Kamto. Alla fine la Corte costituzionale aveva trovato cavilli giuridici, a volte palesemente pretestuosi, per dichiarare irricevibile ogni ricorso.

Gli altri leader delle opposizioni, impotenti di fronte al castello fortificato del partito governativo e degli organismi giudiziari infeudati, hanno deciso di “piantare baracca e burattini”. Non così Kamto che ha invece rilanciato con un “piano di resistenza nazionale”, sorta di programma di contestazione permanente dell’usurpazione del potere. Programma che richiede il sollevamento delle masse di cittadini camerunesi.

Il primo appuntamento era fissato per gennaio 2019 con una manifestazione pubblica contro il golpe elettorale. I leader dell’opposizione occupavano la testa dei cortei, ma la manifestazione fu subito repressa nel sangue dalle forze dell’ordine. Alcuni gruppi di attivisti camerunesi della diaspora, sparsi in Occidente, s’indignarono e lanciarono una serie di spedizioni punitive contro le ambasciate del paese.

L’operazione andò in porto con il saccheggio, in particolare, della rappresentanza diplomatica parigina. Dai muri dell’ambasciata camerunese gli assalitori staccarono le fotografie del presidente, che sostituirono con quelle di Kamto, cantando l’inno nazionale. Riprese con gli immancabili smartphone, le immagini della scena furono diffuse sul web, in segno di incitamento per i giovani rimasti nel paese, chiamati ad seguire l’esempio.

Non importa che Kamto avesse preventivamente chiesto manifestazioni pacifiche e che non si potesse dimostrare che fosse stato lui a dare indicazioni per l’occupazione delle sedi diplomatiche. Il governo lo arrestò insieme ad alcuni suoi collaboratori in un domicilio privato a Douala e lo trasferì nella temibile e sovraffollata “Rebibbia camerunese”, detta nkodengui, la prigione centrale della capitale Yaoundé, a oltre 200 km dal luogo dell’arresto. Fu liberato quasi nove mesi dopo, come atto di clemenza del presidente Biya.

Maurice Kamto non è un uomo che si lascia intimidire, anche perché conosce profondamente la mentalità del governo, avendone fatto parte per un breve periodo come ministro delegato alla giustizia dal 2004 al 2011, quando dovette dimettersi per motivi personali. La sua competenza in materia giuridica è riconosciuta alle istituzioni internazionali, in particolare a Ginevra, dove ha presieduto un famoso directorium degli esperti giuristi, lavorando su questioni di diritti umani nel mondo.

Del resto, si era meritato il rispetto del paese già negli anni ‘90, quando guidò il collegio dei difensori del Camerun presso la corte internazionale di giustizia, dove il paese era in causa con la Nigeria su una disputa frontaliera. Al centro della contesa, la penisola di Bakassi, avamposto del territorio camerunese all’interno del golfo di Guinea, un fazzoletto di terra galleggiante su petrolio e gas naturale. Kamto vinse il processo, protrattosi dal 1994 al 2002, e la Nigeria dovette ritirarsi dall’isola, restituendola al Camerun.

In decenni di insegnamento nelle università del Camerun il professore ha formato intere generazioni di giuristi, molti dei quali oggi fanno parte degli organi dirigenziali del suo Movimento per la rinascita del Camerun. Le sue mosse da oppositore politico hanno spesso colto il governo di sorpresa, evidenziando i limiti dell’esecutivo nell’amministrare le questioni pubbliche nel paese.

Il suo ingresso nel mondo della politica, nel 2013, ha animato il fronte dell’opposizione e la democrazia camerunese ha dovuto esibire il proprio malconcio stato di salute. Il gioco politico nel Camerun francofono ha preso le sembianze di una battaglia al massacro, dove il governo cerca elementi giustificativi per neutralizzare un oppositore radicalizzato e tenace.

L’ultimo episodio è stato la marcia del 22 settembre, indetta da Kamto nell’ambito del suo piano di resistenza nazionale. Una marcia pacifica, organizzata in tutte le città del paese per chiedere le dimissioni del presidente, sempre più dipinto come un usurpatore.

L’annuncio della protesta, con circa un mese di preavviso, ha fatto scattare un’ampia strategia militare e mediatica, finalizzata a non fare uscire nessuno di casa. Centinaia di manifestanti sono stati arrestati e rinchiusi in luoghi non adibiti alla detenzione temporanea. Le immagini dei reclusi che circolavano su internet li mostravano accalcati in cortili, anche di ville private recintate, esposti alle intemperie e sofferenti.

Alla marcia del 22 settembre Maurice Kamto non ha potuto partecipare. Dal giorno prima la polizia lo ha bloccato nel suo domicilio, impedendogli di uscire. Un vero e proprio sequestro di persona. Da uomo di diritto, Kamto ha sporto denuncia. Una denuncia presentata agli stessi tribunali che nel frattempo avevano disposto l’arresto e la carcerazione dei suoi stretti collaboratori, accusati come lui di essere portatori di un progetto eversivo.

Maurice Kamto “sa incassare i colpi”, dice Yondo Black che riconosce però che, allo stesso tempo, il popolo camerunese guarda questa via crucis personale del professore come uno spettatore passivo, vedendo spegnersi le proprie già tenue aspirazioni di emancipazione.

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A Kinshasa si discute, nel Kivu si muore – Raffaello Zordan

Mentre il presidente Tshisekedi ha avviato una serie di consultazioni a largo raggio per tentare di scrollarsi di dosso la tutela di Kabila, nel nordest si susseguono i raid di gruppi armati. La testimonianza del comboniano Gaspare Di Vincenzo

Uno dei punti qualificanti del programma di Félix Tshisekedi, eletto due anni fa presidente della Repubblica democratica del Congo, era di portare la stabilità del nordest del paese, in particolare nelle province del Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri. Province ricche di risorse minerarie e terreno di disputa di numerose milizia armate, alcune delle quali al soldo di Rwanda e Uganda.

Padre Gaspare Di Vincenzo, comboniano che lavora a Butembo (Nord Kivu), dice a Nigrizia: «Qui la situazione continua a essere disastrata. Ci sono attacchi continui e massacri che colpiscono la popolazione. L’ultimo è stato venerdì 30 ottobre: ci sono stati 19 morti alla porte della cittadina di Butembo. Il gruppo armato che ha colpito proveniva dalla valle del Graben, al confine con l’Uganda».

Questo sta accadendo perché il mandato di Tshisekedi è fortemente condizionato dalla coalizione dell’ex presidente Joseph Kabila, che ha la maggioranza sia alla camera sia al senato e che non ha certo tra le priorità quella di stabilizzare l’area del nordest.

Kabila infatti si è sempre guardato dall’interferire con le mire del regime rwandese di Kagame sulla Rd Congo. Ma è stato Tshisekedi a sceglierselo come alleato alla vigilia delle elezioni del 2018, che poi si sono svolte all’insegna del disprezzo degli elettori e della falsificazione dei risultati delle urne.

Continua padre Di Vincenzo: «Oltre a uccidere, il gruppo armato ha incendiato il villaggio, saccheggiato tutto il possibile e rapito una parte degli abitanti, tra questi gli infermieri di un piccolo dispensario. Anche la chiesa è stata profanata».

Dovrebbero fischiare gli orecchi a Tshisekedi che, dopo essersi accorto di essere prigioniero di Kabila, sta dedicando questa settimana a un ciclo di consultazioni a tutto campo: lo scopo è di capire se fuori dall’area governativa può trovare interlocutori ed escogitare una via d’uscita politica. Un assetto che gli consenta di avviare le riforme. La strada maestra sarebbe quella di indire nuove elezioni legislative, sciogliendo le camere. Ma non sembra praticabile.

In ogni caso, il presidente ha incontrato i responsabili uscenti della Commissione elettorale indipendente, che porta la responsabilità maggiore delle elezioni-truffa del 2018 e che deve essere rinnovata per intero. Poi ha visto i rappresentanti delle confessioni religiose, le organizzazioni sindacali e vari esponenti della società civile.

Ha in programma anche un confronto con il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovi di Kinshasa, e con la Conferenza episcopale congolese, che ha criticato aspramente il processo elettorale e il voto del 2018.

«Tra gli uccisi nel raid di venerdì scorso – sottolinea padre Gaspare – c’è anche il catechista Richard Kisusi della parrocchia di Maboya sulla strada che va verso l’Uganda. È stato legato, insieme ad altre persone, davanti alla chiesa e poi ucciso. Aveva finito, giusto il 24 ottobre, il corso di formazione annuale al centro catechistico di Butembo. E aveva ricevuto insieme a 65 catechisti l’attestato di partecipazione e l’accreditamento a poter esercitare la funzione di animatore catechista nella parrocchia di Maboya. Era un ragazzo molto intelligente, gioioso, amava la musica. Io stesso gli ho insegnato liturgia e missiologia: spiccava tra i suoi compagni. Lo affidiamo alla misericordia del Signore insieme con tutte le persone uccise. E ci auguriamo che la comunità internazionale e lo stato congolese possano intervenire e mettere fine a questi massacri attuati per occupare terre e sfruttare le risorse minerarie della regione».

Vista dalla capitale Kinshasa e vista dal Nord Kivu, la Repubblica democratica del Congo non sembra le stessa nazione.

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Prigioni segrete e torture (in Ciad) – Pyrrhus Banadji Boguel (Commissione nazionale dei diritti dell’uomo)

L’Agenzia nazionale di sicurezza (Ans), che risponde direttamente al presidente, gestisce prigioni parallele dove infligge sevizie ai detenuti. Lo afferma un rapporto della Convenzione ciadiana di difesa dei diritti dell’uomo. Due ex prigionieri raccontano che cosa succede in quelle celle.

La Convenzione ciadiana di difesa dei diritti dell’uomo (Ctddh) ha di recente reso pubblico un rapporto in cui afferma che ci sono prigioni segrete, gestite dall’Agenzia nazionale di sicurezza, (Ans) che sono vere e proprie anticamere della morte.

Il ministro della giustizia non ha negato l’esistenza di queste prigioni, ma ha detto che i detenuti sono «trattati bene». Affermazione che ha provocato la reazione di persone che sono stati ospiti delle prigioni dei servizi di sicurezza. Due di loro hanno accetto testimoniare apertamente.

Una delle prigioni segrete è sulla via Farcha, nella capitale N’Djamena, di fronte al ministero dei lavori pubblici. Nelly Versinis Dingamnayal, presidente del Collettivo contro il carovita, vi è stato rinchiuso la prima volta nell’aprile 2017 per aver organizzato uno sciopero dei commercianti. Daniel Ngadjadoum, esponente del partito Federazione per la repubblica, era finito il quella prigione nel febbraio 2017 per aver tenuto un convegno sul governo del presidente Idriss Déby, al potere da trent’anni.

Le loro versioni concordano. Entrambi assicurano che sono stati condotti in questo centro di detenzione con gli occhi bendati. Una volta sul posto sono stati «gettati» in una piccola cella sovraffollata. Dingamnayal ha detto ai microfoni di Radio France Internationale: «Ero ammanettato e la prigione era lugubre, scura».

Le sevizie, programmate tra le 23 e le 4 del mattino, sono iniziate fin dal primo giorno. Racconta Ngadjadoum: «Peperoncino negli occhi, bastonate, cavi elettrici… mi hanno infilato un tubo nel ventre e versato acqua del rubinetto a forte pressione, poi mi hanno tolto il tubo e incominciato a calpestare il mio ventre…».

Una variante dei supplizi era cospargere un sacchetto di plastica di peperoncino in polvere e infilare il sacchetto sulla testa della vittima, testimonia Dingamnayal. E durante la detenzione veniva dato un solo pasto al giorno.

Sia Dingamnayal che Ngadjadoum sono figure pubbliche e quindi i media locali, seguiti da quelli internazionali, si sono interessati al loro caso e lo hanno rilanciato. All’epoca, dei medici hanno potuto verificare la gravità delle torture subite dai due, che hanno sporto denuncia. Ma finora, assicurano, non si è mosso nulla.

I limiti del mandato

L’Agenzia nazionale di sicurezza è stata creata nel 1993 con il decreto 302 e in seguito ristrutturata con un altro decreto nel gennaio del 2017. Secondo l’articolo 2 di quest’ultimo decreto, l’Ans è un servizio speciale che ha la missione di contribuire alla protezione delle persone e dei beni oltre che alla sicurezza delle istituzioni della repubblica.

L’Ans esercita le sua funzione nel quadro della legge e degli impegni internazionali che il Ciad ha sottoscritto. Contribuisce inoltre, in collaborazione con altri servizi dello stato, al mantenimento dell’ordine, della sicurezza e della tranquillità pubblica. L’Agenzia risponde direttamente alla presidenza della repubblica.

Tra le sue attribuzioni quelle di ricercare, raccogliere e utilizzare le informazioni che hanno a che vedere con la sicurezza dello stato; di rilevare, prevenire e anticipare ogni azione sovversiva e destabilizzante, diretta contro gli interessi vitali dello stato.

L’articolo 7 del decreto specifica che la missione dell’Ans deve attuarsi nel rispetto dei diritti dell’uomo. E l’articolo 8 dice che l’Ans ha il potere di procedere all’arresto e alla detenzione di persone sospettate di rappresentare una minaccia, reale e potenziale: il tutto nel rispetto delle leggi della repubblica.

Quando l’Ans detiene persone in maniera arbitraria e illegale, e infligge trattamenti inumani e degradanti, oltrepassa i limiti del suo mandato. Per questo la Commissione nazionale dei diritti dell’uomo ha chiesto ufficialmente di poter visitare le prigioni dell’Ans. Finora non ha ricevuto risposta.

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Etiopia, la crisi si aggrava – Bruna Sironi

Il conflitto interno, allargatosi nei giorni scorsi all’Eritrea, rischia di fare da detonatore per l’intera regione, dal Sudan alla Somalia

 

In meno di due settimane la crisi etiopica è diventata una crisi regionale che coinvolge l’Eritrea e il Sudan, mette in gioco la sicurezza della Somalia e, in modo indiretto, anche quella del Kenya e forse di Gibuti.

Un’escalation che con ogni probabilità non era nelle intenzioni del primo ministro Abiy Ahmed, quando, lo scorso 4 novembre, ha ordinato all’esercito federale di riportare l’ordine nel Tigray, ma che molti osservatori paventavano.

Il braccio di ferro tra Addis Abeba e Macallé (capitale del Tigray) era diventato così grave che non si poteva pensare che si sarebbe risolto con un’operazione chirurgica, alla fine della quale la regione “ribelle” si sarebbe adeguata alle disposizioni del governo federale.  Infatti, in pochi giorni si è superato di molto il punto in cui la controversia poteva essere rapidamente composta grazie a pressioni internazionali e mediazioni regionali.

E’ impossibile, ad esempio, prescindere dalle atrocità commesse in questi pochissimi giorni di conflitto, che hanno già spinto più di 20mila persone a cercare rifugio oltre confine, in Sudan, dove, secondo agenzie dell’Onu competenti, si prospetta l’ennesima crisi umanitaria della regione.

Alcuni episodi sono diventati di dominio pubblico nonostante l’isolamento del Tigray – causato dalla chiusura dello spazio aereo, delle linee telefoniche e della rete internet – come i bombardamenti di basi militari che avrebbero fatto invece molte vittime civili, o il massacro di decine, forse centinaia, di persone nella cittadina di Mai-Kadra, al confine con la regione Amhara.

Crimine denunciato da Amnesty International, che ne attribuisce la responsabilità a milizie fedeli al Tplf, il Fronte popolare di liberazione del Tigray, pur sottolineando che è stato impossibile finora confermarne i dettagli in modo indipendente.

I profughi nei campi sudanesi ne danno una versione differente. Secondo interviste a testimoni oculari raccolte dalla Reuters, l’attacco ai civili, comprese donne e bambini, sarebbe stato fatto da milizie amhara allineate con l’esercito di Addis Abeba.

Nella crisi etiopica si combatte infatti anche una guerra a colpi di notizie false e di mistificazioni, in cui è quasi impossibile districarsi. Il ginepraio più fitto riguarda probabilmente il coinvolgimento dell’Eritrea, dato per scontato dal governo del Tigray fin dal primo giorno della crisi, ma sempre negato dagli accusati.

La scorsa settimana un sedicente giornalista del canale arabo della televisione governativa eritrea aveva fatto circolare sui social media la notizia che l’esercito di Asmara si era ormai attestato a Badme, la cittadina simbolo della guerra di confine del 1998/2000, assegnata all’Eritrea dal tribunale dell’Aja, ma che i tigrini non avevano mai voluto restituire, neppure dopo la pace siglata tra i due paesi nel 2018.

Il post, che aveva scatenato l’entusiasmo social dei nazionalisti eritrei, non è mai stato né confermato né smentito dagli interessati e, in mancanza di  fonti attendibili, non è stato ripreso da nessun mezzo di informazione indipendente. Una provocazione? L’indizio dell’obiettivo di un eventuale intervento eritreo? Tutte le ipotesi sono possibili, compresa quella che in realtà si trattasse di uno specchietto per le allodole a copertura di sviluppi futuri.

Sta di fatto che la narrazione del coinvolgimento eritreo ha determinato la regionalizzazione conclamata del conflitto. Sabato 14 novembre, verso sera, Asmara è stata colpita da almeno tre missili partiti dal Tigray. Obiettivi: l’aeroporto internazionale e il ministero dell’Informazione, che, particolare non irrilevante, si trova in città.

Nulla si sa ufficialmente di danni e vittime. Le autorità eritree minimizzano, ma testimoni in loco parlano di diversi feriti. L’attacco è stato rivendicato dal presidente tigrino Debretsion Gebremicael – destituito con l’intera giunta regionale e colpito da un mandato di cattura – con un discorso ufficiale alla televisione della regione. Se davvero l’Eritrea si era finora tenuta al di fuori dalla crisi etiopica, ora avrà un ottimo argomento per intervenire con tutto il suo apparato militare.

Più tardi la stessa tivù ha presentato un gruppo di presunti prigionieri di guerra eritrei. Ma è impossibile distinguere un giovane eritreo da un giovane tigrino, che non differiscono in nulla fisicamente e parlano la stessa lingua. Nel comunicato con cui il primo ministro Abiy Ahmed ufficializzava l’intervento dell’esercito federale nella regione si accusava il Tplf di aver fatto confezionare divise eritree proprio allo scopo di mistificare la realtà.

Probabilmente l’unica cosa certa tra tante notizie controverese e impossibili da verificare è che ormai neppure Abyi Ahmed crede che la crisi nel Tigray possa essere risolta velocemente, sostituendo il governo regionale e portando in tribunale i responsabili della “ribellione”, come, con ogni probabilità, si proponeva di fare.

Ed è anche possibile che si trovi in difficoltà sul piano militare perché potrebbe aver perso il pieno controllo degli uomini del contingente del nord, di stanza a Macallé, il nerbo del suo esercito. Le autorità tigrine, infatti, hanno dichiarato che molti militari del contingente hanno disertato unendosi alle loro milizie – Addis Abeba ha fermamente smentito -, mentre quelle sudanesi hanno fatto sapere che tra i profughi civili che hanno passato il confine ci sono anche un certo numero di militari, a cui è stato chiesto di consegnare le armi.

Sta di fatto che Abiy ha deciso di richiamare il contingente etiopico che dal 2006 era di stanza in Somalia, dove contribuiva alla stabilizzazione del paese e alla lotta al terrorismo. Il governo di Mogadiscio si trova perciò ora più esposto in un momento critico, il periodo pre elettorale – le elezioni sono previste a febbraio – mentre assiste ad un intensificarsi degli attacchi del gruppo al-Shabaab. Se in Somalia diventa impossibile controllare il territorio, anche per il Kenya diventa più difficile evitare gli sconfinamenti dei terroristi nel paese.

La crisi etiopica rischia, insomma, di innescare una vera e propria cascata di cause concatenate di destabilizzazione in tutta la regione, che è già tra le più problematiche del continente.

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I redditizi affari di al-Shabaab – Bruna Sironi

Tasse, estorsioni, traffici illeciti. Il movimento terrorista somalo si è trasformato negli anni in una vera e propria organizzazione di stampo mafioso, in grado di guadagnare cifre astronomiche che reinveste in immobili e altre attività regolari. Soldi che vengono movimentati anche tramite il sistema bancario nazionale 

Da anni il Consiglio di sicurezza dell’Onu segue con particolare attenzione la Somalia, avvalendosi di gruppi di esperti in grado di analizzare l’evolversi della situazione in relazione alle risoluzioni dell’Onu che riguardano il paese in settori chiave quali la sicurezza, il commercio delle armi, il controllo del territorio, la minaccia terroristica. Grande attenzione è riservata all’evoluzione del gruppo al-Shabaab, il primo e più importante alleato di al-Qaeda nell’Africa Orientale.

Negli ultimi rapporti presentati dagli esperti al Consiglio di sicurezza è emerso un crescente rafforzamento economico del gruppo. In pochi anni – dal 2006, quando è nato dalle milizie giovanili dell’Unione delle corti islamiche sconfitte dal governo federale di transizione, e per suo conto dall’esercito etiopico sostenuto dalla comunità internazionale – al-Shabaab ha organizzato una specie di “stato parallelo” capace di imporre tasse e balzelli non solo nel vasto territorio controllato, ma fin nei gangli economici del paese, quali il porto e i mercati di Mogadiscio, di Kisimayo e di Baidoa.

Il gruppo è stato anche in grado di differenziare le sue fonti di finanziamento. Fino ad un paio d’anni fa, la maggiore, o la più conosciuta, era costituita dai balzelli sul commercio del carbone di legna, raccolti durante il trasporto al porto di Kisimayo, da dove la merce partiva soprattutto verso la Penisola Arabica e gli Emirati del Golfo.

Fonti credibili stimano che il traffico del carbone abbia fruttato almeno 7 milioni di dollari all’anno al gruppo terroristico. La fonte di finanziamento era così importante che nel 2012 l’Onu bandì il suo commercio, che però continuò illegalmente, e continua anche adesso, seppur con maggiori difficoltà, grazie alla connivenza di molti nel paese e tra il personale del contingente della missione di pace Amisom che pure ne traevano, e ne traggono, un notevole vantaggio economico.

Secondo rapporti diffusi recentemente dalla commissione di esperti Onu e dall’istituto Hiraal, un centro di ricerca specializzato in analisi sulla sicurezza in Somalia e nei paesi del Corno d’Africa in generale, ora al-Shabaab è in grado di raccogliere almeno 15 milioni di dollari al mese, una cifra pari al gettito fiscale del governo ufficiale. Almeno la metà dei fondi provengono dalla capitale, Mogadiscio.

I proventi sono raccolti con la minaccia, e se necessario con la violenza, imponendo quello che noi in Italia chiameremmo “il pizzo” a tutti coloro che hanno attività economiche, non solo nelle zone rurali controllate ma anche nelle zone urbane e nella stessa capitale.

Il gruppo è stato in grado di infiltrarsi nelle istituzioni del paese, come ad esempio gli uffici doganali del porto di Mogadiscio, da cui passa la maggior parte dei beni importati ed esportati dal paese, in modo da avere le informazioni necessarie per imporre i propri balzelli in modo proporzionale al giro d’affari.

Per i riscossori del gruppo, un container da 40 piedi “varrebbe” 160 dollari, uno da 20, 100 dollari. Lo affermano diversi commercianti, testimoni in inchieste giornalistiche credibili, i quali aggiungono che al-Shabaab avrebbe accesso alle informazioni ufficiali degli agenti portuali e saprebbe sempre con precisione a chi rivolgersi per la riscossione. Lo stesso avviene praticamente in tutti i settori economici.

Secondo gli ultimi rapporti, tutte o quasi le maggiori compagnie del paese pagano mensilmente una tangente ad al-Shabaab e annualmente versano una sorta di zaqat, il contributo dovuto da ogni buon musulmano per il sostegno degli indigenti, pari al 2,5% del proprio giro di affari. Nelle zone controllate dal gruppo, perfino i comandanti di contingenti militari pagherebbero, pur di salvaguardare la sicurezza propria e quella dei propri uomini.

Ma questa dinamica, da molti osservatori definita come mafiosa, era già conosciuta. Nell’ultimo periodo è stata probabilmente resa più efficace e capillare, grazie alla crescente influenza del gruppo anche nelle zone controllate dal governo.

La novità degli ultimi rapporti riguarda piuttosto l’investimento delle risorse nel settore edilizio ed immobiliare e nel commercio, compreso quello che alimenta i maggiori mercati della capitale e del paese, facendo transitare ingenti somme, si direbbe in modo regolare, attraverso il sistema bancario ufficiale somalo, nonostante una legge varata nel 2016 abbia l’obiettivo proprio di impedire le operazioni finanziarie di gruppi terroristici.

I ricercatori hanno seguito in particolare le operazioni di due conti correnti aperti presso la Salaam Somali Bank. Su uno, quest’anno, in un periodo di due mesi e mezzo, sono transitati 1,7 milioni di dollari che potrebbero essere frutto della raccolta della zakat. Sull’altro, che potrebbe essere stato aperto per le tangenti raccolte al porto di Mogadiscio, sono stati depositati 1,1 milioni di dollari da metà febbraio alla fine di giugno di quest’anno.

Complessivamente sono state effettuate 128 operazioni nelle quali sono stati mossi più di 10mila dollari, l’ammontare massimo, oltre il quale avrebbero dovuto scattare i controlli dell’autorità competente, il Financial reporting centre. La responsabile del centro, Amina Ali, cui l’agenzia Reuters ha chiesto se i conti erano stati chiusi, si è limitata a dire, in modo evasivo, che “tutti i passi necessari sono stati fatti”.

Hussein Sheikh Ali, ex consigliere dei servizi di intelligence somali e fondatore dell’istituto Hiraal, al-Shabaab si è dimostrata molto efficiente nel raccogliere soldi. Ed è ormai risaputo che ne raccoglie molti più di quanti gliene servano per gestire la propria organizzazione.

Secondo i rapporti citati, l’anno scorso avrebbe speso circa 21 milioni di dollari per sostenere circa 5mila miliziani e per l’organizzazione di operazioni terroristiche nel paese e nella regione. Circa un quarto della somma sarebbe andata ai suoi propri servizi di spionaggio, l’Amniyat intelligence.

Dell’ingente surplus, una parte sarebbe ben investita, e un’altra, afferma Hussein Sheikh Ali «… crediamo che potrebbero mandarla ad al-Qaeda».

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Vivere con il terrore della polizia. Testimonianza dalla Nigeria – Chukwuemeka Attilio Obiarinze

In questo articolo Chukwuemeka Attilio Obiarinze testimonia la paura che i cittadini nigeriani vivono davanti alla polizia, e in particolare alla SARS (Special Anti-Robbery Squad), un braccio armato speciale molto violento accusato di crimini e torture. Durante il mese di ottobre ha fatto notizia anche in Occidente End SARS, un movimento sociale decentralizzato che ha organizzato una serie di proteste di massa contro la brutalità della polizia in Nigeria. Partendo dalla violenza delle forze armate, Obiarinze indaga sulla sfiducia dei cittadini verso le istituzioni e quindi verso i propri leader.

“It’s a shame for leaders. Because there will be no future for Africa until they respect the dignity of their little children.” Majek Fashek in “I come from the ghetto”

Verso metà mattinata arriviamo all’Ufficio Immigrazione a Ikeja, dove mamma e zia Hannah hanno fissato un appuntamento per il rinnovo del passaporto. C’è tantissima gente in coda e l’ufficiale preposta alla mansione non sembra essere disposta a sbrigare le pratiche celermente senza una piccola jara. Di sicuro ne avranno per un bel po’ lì…

Nell’attesa, per non squagliare al caldo dentro quella stanzetta angusta, mio cugino Kelvin e io decidiamo di rifugiarci dentro un centro commerciale poco distante. Si chiama ShopRite, è un’importante catena sudafricana di supermercati al cui interno di certo non mancano bibite fresche, aria condizionata e, di conseguenza, bellissime ragazze da contemplare. Stupende donne africane, nere, di ogni tonalità, rilucenti di una bellezza che non ho mai potuto configurare a pieno in Europa. Con sorpresa scorgo qua e là anche qualche signora caucasica e libanese. Mi rivolgo a Kelvin: “Omo mehn, guarda quella lì con quel culo illegale! ‘Sto posto dovrebbero chiamarlo LustRite…!”.

Lui scoppia a ridere, di pancia, come se quelle risa fossero rimaste trattenute a lungo per qualche motivo. Saliamo al secondo piano con l’intenzione di sederci in un lounge bar, bere un drink e magari attirare l’attenzione di qualche lady fortunata quando, dal nulla, appaiono due energumeni con gli occhiali da sole e le camicie scure. Li vediamo camminare verso di noi con un senso di superiorità e una confidenza tipici di chi va in giro armato, ci passano a fianco, molto lentamente, scrutandoci dalla testa ai piedi con fare intimidatorio e distruggendo l’atmosfera di giubilo: sarà per il nostro bighellonare spensierato? Sarà per i vestiti alla moda europea? Sarà per gli occhiali a goccia cool o per il Huawei relativamente nuovo? Sarà perché non siamo messi così male insomma?! Chiedo a Kelvin cosa vogliano da noi questi due tizi, lui non mi risponde. È visibilmente preoccupato, consiglia di dimenticarci dei cocktail e delle signorine e di andarcene da lì non appena fuori dalla loro vista.

Usciamo dal centro commerciale. Il sole è già alto, sembra un occhio di fuoco antico offuscato in una patina grigiastra incapace di contenerne il furore. L’afa esalata dall’asfalto rovente e i gas di scarico dei camion in transito rendono l’aria a dir poco mefitica. Pur essendo abituato a Lagos e le sue temperature, Kelvin sostiene che questo calore sia del tutto anomalo: “Bro, non ha mai fatto così caldo in aprile, è reale il cambiamento climatico”. È la prima volta che quelle due parole così astratte mi fanno seriamente preoccupare. Seguo il mio Virgilio per le trafficatissime vie di Ikeja anche se ormai ci avanza poco tempo per i tour; dopo una breve visita al New Afrika Shrine dove Femi Kuti suole esibirsi i giovedì sera, raggiungiamo le nostre madri che finalmente hanno terminato i loro impegni all’Ufficio Immigrazione e quindi, sgranocchiando dolci pannocchie grigliate, ci dirigiamo tutti insieme al parcheggio dove Babà, il nostro autista Uber, ci attende pazientemente in macchina. Sulla strada verso casa passiamo di fronte a una caserma militare e di colpo, come un tuono nella notte, zia Hannah emette un sospiro profondo commentando: “Grazie a Dio che a Magboro non c’è una stazione di polizia”. Silenzio. Se questa frase fosse stata pronunciata da altre persone di mia conoscenza non mi avrebbe fatto né caldo né freddo, ma per il fatto che lo dica zia Hannah, una donna di mezz’età, madre, credente e lavoratrice onesta, è davvero scioccante. 

La polizia a Lagos (e a Como)

Di cosa ha bisogno in primis una nazione o una società per esistere e prosperare? Sicurezza, no? All’improvviso, lì schiacciato fra mia madre e Kelvin nel sedile posteriore, mi tornano in mente immagini di Como dove il decoro – puramente estetico e non morale – è un dogma e dove a un ragazzino tocca imboscarsi furtivamente anche solo per fumarsi una canna. Lì, la stazione di polizia è sinonimo di controllo, ordine, prevenzione, ora più che mai. Girando per Como a volte si ha l’impressione di stare sotto un vero e proprio stato poliziesco. Come il sottotenente Drogo nel Deserto dei Tartari, molti cittadini sentono la necessità e il dovere di difendere la loro “fortezza” dall’arrivo minaccioso dell’esercito nemico, in questo caso composto da migranti ed emarginati sociali in generale. Nei fatti, il rischio di un’invasione non sussiste; grazie agli sforzi dei vari governi succedutisi finora, gli arrivi di migranti in Italia sono drasticamente calati e tantissimi ora sono ancora detenuti in schiavitù nelle carceri libiche, sottoposti a ogni genere di crudeltà lontano dagli occhi dell’ONU. In sincronia con i provvedimenti DASPO di Minniti e, in seguito, con quelli di Salvini quando era ministro dell’Interno, il braccio della legge a Como ha cominciato a scagliarsi in maniera quasi esclusiva contro mendicanti, rifugiati, nomadi, artisti di strada e chiunque possa essere percepito come pericoloso o semplicemente “fastidioso” dall’opinione pubblica. Tutti ricordano la crisi umanitaria che fece scalpore nel 2016 quando centinaia di profughi abissini rimasero accampati per mesi in stazione S. Giovanni nella speranza di poter attraversare la frontiera con la Svizzera. Una città turistica come Como non poteva certo presentare ai visitatori uno scenario da campo-profughi nel cuore cittadino! Così disposero Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia Locale a pattugliare l’area in concerto e intensificarono le costosissime deportazioni di migranti verso i centri di accoglienza del sud Italia. Il risultato di tali misure era che i migranti prendevano il treno o il bus dalla Puglia o dalla Calabria e facevano ritorno alla stazione della città di confine, allo stremo ma ancora decisi a raggiungere i parenti in nord Europa. E così giornalisti, politici, movimenti d’azione cattolici, centri sociali, squadre neofasciste, volontari, associazioni private, artisti, tutti presero parte all’inaspettato scontro di civiltà. Ma poi, di che civiltà stiamo parlando? Qual è il motore della civiltà, la compassione o la paura? Il clima di tensione sbollì solo quando in previsione dell’inverno il consiglio comunale decise di creare fra l’oratorio di S. Rocco, il cimitero monumentale e la ferrovia un complesso di prefabbricati gestito dalla Croce Rossa Italiana, dove i rifugiati venivano ospitati, ben nascosti dallo sguardo dei turisti chiaramente. Ma oggi la Croce Rossa non c’è più.

Riflettendo su queste cose lungo il tragitto, noto che l’amministrazione comunale e la Polizia di Como almeno sembrano avere a cuore l’incolumità dei cittadini che proclamano di difendere. Se non altro ascoltano le loro paure, infondate o meno. Al di là dell’ignoranza, l’ipocrisia, la xenofobia e i doppi fini politici, ciò è ragionevole perché ogni governo in teoria dovrebbe interessarsi alla sicurezza dei propri contribuenti. Un italiano X, generalmente, sa di avere una certa protezione e di poter rivendicare i propri diritti in quanto cittadino italiano, ovvero, membro di uno Stato con struttura e leadership abbastanza forti e credibili da riuscire a tutelarlo, in Italia o all’estero che sia. Il cittadino di una giovane nazione decolonizzata, come la Nigeria, chi ha alle spalle per essere difeso all’estero se pure “a casa sua” viene è trattato da subumano dai suoi stessi leader? Come può confidare nella giustizia e nelle istituzioni quando il governo genera appositamente i blackout e manda i soldati a sparare indiscriminatamente su gente innocente che non la pensa uguale? Purtroppo, nel vocabolario di un nigeriano popolare – e non solo – stazione di Polizia significa frode, estorsione, tortura e, non di rado, morte. Sia chiaro, con questo non sto dicendo che tutti i poliziotti nigeriani siano corrotti, anzi. Polizia ed esercito nigeriani sono intervenuti nelle zone di conflitto di altri paesi africani portando un sostegno notevole e sono ammirati in tutto il Continente per la preparazione e l’efficacia dimostrate. Ahimè, però, in casa propria ognuno toglie le scarpe e l’odore che ne esce difficilmente sa di rose: i salari ridicoli, la frustrazione clinica, la provenienza da contesti sociali miserabili, la corruzione legittimata, la mancanza di punibilità per i reati commessi sono alcuni dei fattori che portano un numero considerevole di soggetti a sfruttare un distintivo per fini personali, spesso commettendo abusi e infamità, mentre il sistema giudiziario attuale non è disegnato per assistere chi è più indifeso. La SARS è un esempio di questo cancro congenito nella società nigeriana. Acronimo di Special Anti-Robbery Squad, la SARS è un corpo di polizia speciale creato nel 1992 e che negli anni si è macchiato di ogni sorta di crimine efferato proprio come i delinquenti che insegue.

Nella Lagos dove risiede la mia famiglia, quando salgo in auto con Kelvin, i miei zii mi sconsigliano di sedermi sul sedile anteriore con lui dato che, vedendo due ragazzi vestiti bene, la Polizia potrebbe pensare – o voler pensare – che siamo rapinatori o yahoo boys ed inizierebbero a darci un sacco di wahala, come sarebbe potuto accadere benissimo a ShopRite con quei due grossi agenti in borghese. L’eccesso di violenza della Polizia contro i cittadini in Nigeria può essere paragonato a quello dei cops contro le comunità afroamericane e ispaniche nei ghetti statunitensi. Tuttavia, se in quest’ultimo caso esiste la componente razziale e dalla narrazione ormai romanzata del razzismo negli Stati Uniti (senza il quale non sarebbero gli Stati Uniti) nascono movimenti di protesta e hashtagismi globalizzati come Black Lives Matter, sul quale ora come ora un po’ tutti ci speculano, nel primo caso invece si tratta di quotidiana brutalità comunemente accettata da parte di un africano su un altro africano, brutalità della quale la maggior parte dei media internazionali non parlerà. Mio cugino un giorno mi raccontò di quando per leggerezza diede il suo cellulare ad un amico, un ragazzo affiliato agli omonile. Questo fece una chiamata col suo cellulare e la SARS intercettò la conversazione. In perfetto stile militare, la polizia speciale fece un assalto nell’abitazione dei miei zii sparando all’impazzata nel quartiere, per poi sfondare la porta e mettere in scompiglio tutte le cose. Mio cugino era a casa da solo, fu arrestato e sbattuto in una cella di sicurezza dove rimase per quattro giorni senza avvocati di ufficio né la minima possibilità di difendersi davanti ad un giudice finché la famiglia pagò per il suo “riscatto”. Innocente, avrebbe potuto essere trasferito a Kiri Kiri, il carcere di Lagos, e restarci dentro per settimane, mesi, chi lo sa, un anno o più. Tutto dipende come al solito dal potere d’acquisto di un individuo per la propria libertà. Un altro esempio di abuso d’ufficio in famiglia coinvolge mio padre. Anni fa, sulla via per andare a cambiare cento dollari da un aboki, venne fermato da due poliziotti che lo minacciarono di consegnargli i soldi, altrimenti lo avrebbero ucciso, sparso un po’ di banconote sul suo cadavere e inscenato il tentativo di fuga di un ladro. Mio padre, sapendo che avrebbero potuto farlo realmente, gli diede tutto ciò che possedeva, ma nella paura riuscì a leggere i nomi degli agenti sul distintivo che portavano al petto. Il giorno stesso si presentò con mia madre al comando di Polizia del quartiere per spiegare l’accaduto al generale della stazione e l’indomani riuscì a farsi ridare una parte della somma sottratta. Anche stavolta la storia ebbe un esito felice ma pure qui fu la pecunia a far scampare mio padre al pericolo immediato. 

La violenza e l’eredità coloniale 

Dietro l’affermazione di zia Hannah dunque non vi è un pensiero pseudo-anarchico o criminoso, ma una rassegnazione generalizzata ed insanabile verso lo Stato ed i suoi emissari. Fortunatamente, fino ad ora non ci è capitato nulla di tragico tranne qualche piccola mazzetta qua e là, ma anche solo l’aggressività verbale degli ufficiali che abbiamo incontrato mi fa ridere amaramente del decantato senso di fratellanza pan-africano di cui molti europei parlano: “Siete tutti brotha and sistah fra di voi eh?” Non gliene faccio una colpa, non sanno niente sull’Africa perché al sistema-mondo conviene di più mantenere l’oscurantismo sull’Africa, salvo per Lucy, i safari, il Re Leone e, meno male, di recente la musica afro-beats. Non sanno che la democrazia storica occidentale è un esperimento fallito in molti Paesi ex-coloniali, dal momento che non è mai stata scelta ma imposta con la Bibbia ed i moschetti. Non sanno che le repressioni sanguinarie attuate oggi dai governi africani o sudamericani contro chi manifesta pacificamente fanno parte di un’agenda neo-coloniale mirata alla perpetuazione delle diseguaglianze e dell’oppressione.

Da secoli ormai è in atto un processo di disumanizzazione dell’uomo africano di cui l’Occidente non è l’unico responsabile. Pensandoci bene, a Badagry i primi a vendere africani come schiavi ai mercanti europei furono gli africani stessi, i sovrani locali oba. Una delle famiglie reali più influenti nell’odioso traffico furono i Mobee; se uno decidesse di visitare Badagry non potrebbe evitare di fare un salto al Mobee Royal Family’s Slave Relics Museum, dove le reliquie della schiavitù sono ancora custodite. Ma cos’era di preciso lo schiavismo? Avete presente i braccialetti e le collane di conchiglie bianche che per decenni i venditori ambulanti senegalesi hanno provato a rifilarci e che solo negli ultimi anni sono diventate di moda in Italia grazie a Chiara Ferragni? Ecco, quelle conchiglie chiamate cyprea moneta o cauri erano l’euro degli imperi africani pre-coloniali. Ma quando nel 1440 l’anglo-portoghese Prince Henry giunse a Badagry con la sua flotta, a differenza della Ferragni egli non riconobbe il valore monetario dei cauri, così venne stabilito di utilizzare il baratto per le transazioni commerciali con i re. Da allora cinquecentomila uomini, donne e infanti, in maggioranza Yoruba, furono catturati come prigionieri di guerra nell’entroterra, fatti arrivare a Badagry e scambiati per altri beni “di valore”, quaranta africani per un ombrello, dieci per una bottiglia di gin, cento per un cannone grande usato per combattere guerre fratricide contro altri africani. Una volta ceduti agli europei nelle aste di Vlekete market, gli schiavi venivano marchiati sulla pelle con il nome del proprietario come bestiame. I cosiddetti house slaves venivano evirati di pene e testicoli. Nei tre mesi antecedenti l’imbarco essi venivano ammassati in quaranta in celle strette e prive di sufficiente aereazione, le donne violentate davanti ai mariti, ai figli, e lasciate a partorire doloranti nel letame, le ossa spezzate per chi aveva le braccia troppo grosse per indossare le catene, le labbra bucate e serrate con lucchetti metallici perché nessuno potesse nutrirsi delle canne da zucchero raccolte col proprio sudore, i bambini incatenati per tutto il giorno così da evitare distrazioni alle madri, i cani addestrati all’inseguimento e all’uccisione dei fuggitivi, le impiccagioni e le flagellazioni punitive diarie. Quando il numero di schiavi raggiungeva il livello massimo di capacità di una nave, essi venivano traghettati sull’isola di Gberefu di fronte a Badagry Town.

Lì, venivano costretti a bere l’acqua dal pozzo di attenuazione dello spirito degli schiavi. Tutt’ora non si sa se l’acqua fosse corretta o jazzed, cioè stregata con il juju, sta di fatto che bevendo da quel liquido gli schiavi venivano rintontiti prima di essere condotti al punto di non ritorno, dove finalmente venivano fatti salire a bordo, sofferenti e annichiliti. Camminando oggi per l’isola è difficile credere che in un tale paradiso naturale si possa essere consumata una barbarie del genere. Chi non reggeva le umiliazioni e le atrocità si lasciava morire per poi essere seppellito in mezzo agli alberi di cocco o gettato nell’Atlantico in acque infestate di pescecani. Così milioni e milioni di vite umane, in catene pesantissime e incandescenti, venivano vendute praticamente a gratis per quattrocento anni in cui il resto del mondo si sviluppò impassibile e rapido, gettando le basi del capitalismo contemporaneo attraverso il sistema produttivo della piantagione estesa. Solo centosessant’anni fa nei bar dello Stato Pontificio, di Liverpool o Amsterdam, sniffando tabacco e mescolando lo zucchero nel caffè, ancora si rifletteva se i negri avessero un’anima o meno mentre persone che nella loro vita non avevano mai visto l’oceano venivano immagazzinate in seicento, in mille, nelle pance asfissianti e nauseabonde delle navi negriere e spedite verso una destinazione ignota in schiavitù perpetua.

La storia diventa ancora più raccapricciante se si pensa che all’epoca esisteva una tratta più antica di quella europea, quella araba; si stima che nello stesso lasso temporale della tratta transatlantica essi portarono quasi tredici milioni di africani dall’Africa orientale nei califfati asiatici attraverso il Sahara, il Mar Rosso e il Pacifico. Basta fare una piccola ricerca in internet sugli Zanj di Turchia e Iraq o sui Sidi in Pakistan e in India per capire le dimensioni globali della Maafa. Questi schiavi, spesso giovanissimi, avevano principalmente una funzione sociodemografica: le femmine venivano vendute come concubine, o meglio, come schiave sessuali mentre i maschi utilizzati come soldati o servi eunuchi. Solo con l’influsso dei portoghesi e dei britannici nel Pacifico gli schiavi vennero impiegati maggiormente nel lavoro forzato, nelle immense piantagioni di riso e di tè. A parte casi eccezionali in cui qualche africano riuscì a ricoprire ruoli di comando nei ranghi militari e religiosi, le condizioni di vita della maggior parte degli schiavi negli imperi islamici erano incredibilmente orribili, trattati come bestie e finendo spesso nelle mani di psicopatici, seviziatori e pedofili. Pur non essendo riconosciuti come le popolazioni negre del continente americano o europeo, al giorno d’oggi esistono milioni di afro-discendenti in Asia che reclamano maggiore uguaglianza e rappresentanza politica. 

Leader che amano i cittadini 

Anche negli eventi più macabri la storia ha il suo senso dell’umorismo, basti pensare a Ifaremi, conosciuto anche come sir Williams Seriki Abass, preso schiavo all’età di sei anni in un villaggio dell’odierno stato federale di Ogun e che, una volta liberato, divenne anch’egli trafficante di esseri umani. Schiavo domestico di uno studioso musulmano del Benin di nome Abass, Ifaremi fu rivenduto ad uno schiavista brasiliano di nome Williams, che lo portò in Brasile e gli insegnò a leggere e a scrivere nelle lingue dei bianchi: portoghese, spagnolo, inglese ed olandese. Un giorno il signor Williams pose ad Ifaremi una domanda cruciale: “vuoi tornare in Africa come uomo libero e collaborare nel business degli schiavi con me o vuoi continuare ad essere il mio schiavo?”. Ifaremi scelse la prima opzione. Al ritorno in madrepatria, egli divenne il proprietario del Brazilian Barracoon, la struttura dove milleseicento schiavi venivano imprigionati prima di essere caricati sulle navi. Dato il suo forte interesse per la religione islamica, la comunità musulmana di Badagry gli diede la carica onorifica di seriki. Da qui Williams Seriki Abass. Egli ebbe centoventotto mogli e centoquarantaquattro figli. Oggi i bambini, discendenti di Ifaremi, giocano in quell’edificio fatiscente che è casa loro, corrono sorridendo come se i segni della morte e dell’avidità demoniaca dell’uomo non li turbasse, troppo impegnati a gioire della vita. Un foglio appeso al muro giallo ocra scrostato recita: “Noi discendenti ci pentiamo e siamo davvero dispiaciuti per il ruolo e la collusione di Williams Seriki Abass nella tratta di schiavi transatlantica, o per forza o per scelta. Ci dispiace tanto”.

Tutto questo è per dire cosa? Che nei miei libri di scuola la schiavitù era giusto tre o quattro paragrafetti in un tomo di trecento pagine? Che dovrei smettere di fumare sigarette della British-American Tobacco? Che girando per Napoli, fra un caffè sospeso e una pizza al portafoglio, potrei ricordarmi delle migliaia di africani passati in uno dei più grandi porti schiavistici nel Mediterraneo del ‘600? Forse, ma non è solo per dire questo. L’Africa risorgerà quando i leader africani cominceranno ad amare gli africani, mettendoli al primo posto di tutto, insegnando agli africani ad amare sé stessi e ad avere fiducia nelle istituzioni. Thomas Sankara, Patrick Lumumba, Steve Biko, Ken Saro Wiwa, Fela Kuti e tanti altri provarono a cambiare una mentalità disumanizzante. Tutti furono assassinati, ma ci provarono. Non è giusto incolpare i discendenti dei Mobee o di sir William Seriki Abass che con passione tentano di mantenere viva la memoria di questo luogo di dolore. È vero, in qualche modo con il turismo lucrano su questa memoria ma ho potuto leggere nei loro occhi il peso dell’eredità lasciata dai loro antenati. Quello che voglio dire è che finché gli agenti di polizia estorcono soldi ai cittadini onesti, finché i militari scaricano i caricatori addosso a giovani disarmati che reclamano solo il diritto di vivere, finché i dipendenti dello Stato intascano tangenti per fare il loro dovere, finché l’estrazione del petrolio arricchisce schifosamente solo governatori e compagnie petrolifere straniere distruggendo ecosistemi, finché il presidente si assenta per mesi per farsi curare all’estero anziché negli ospedali del Paese, finché gli alti funzionari africani tacciono di fronte ai loro figli seviziati in Libia o annegati nel Mediterraneo, non ci potrà mai essere perdono sincero per i nostri re.

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L’Africa ha davvero una storia? – Marco Aime

Sembra quasi impossibile, eppure ancora oggi quante volte sentiamo chiedere, con tono scettico di chi crede di sapere già la risposta: «L’Africa ha davvero una storia?». Anche questo ricchissimo volume curato Africa antica da François-Xavier Fauvelle parte da quella domanda, cercando però, con dovizia di dati e immagini, di rendere un po’ di giustizia a quel continente. Avendola spinta da sempre nell’abisso della nostra ignoranza, dei nostri pregiudizi, per non dire della nostra presunzione razzista, l’Africa sembra essere stata espulsa dal club di chi ha fatto la storia. Semmai, l’avrebbe subita e basta. Persino l’antica civiltà egiziana, che studiamo ampiamente a scuola e a cui conferiamo dignità storica, viene spesso presentata e percepita come espressione mediterranea e assai poco connessa al continente africano.

Una delle poche concessioni fatte all’Africa è il riconoscerle il primato dell’origine della nostra specie – ormai è certo, che veniamo tutti di lì – ma poi cala il buio.

Sembra che una volta che i sapiens siano usciti dall’Africa, quella terra si sia svuotata e nulla vi sia più avveduto. Dipingendola come “culla dell’umanità”, ci si è sollevati dal problema di indagare più a fondo e di riconoscere davvero cosa è accaduto.

Gli autori di questo libro hanno cercato di sfatare questo mito negativo, e lo hanno fatto con un approccio multidisciplinare, intrecciando dati storici, reperti archeologici e sguardi antropologici, senza trascurare l’importanza dei fattori ambientali, spesso determinanti per comprendere certi eventi. Per esempio, la concezione a volte ciclica del tempo di certe popolazioni, fa sì che il passato sia percepito in modo diverso e di questo occorre tenere conto, se si vuole uscire da un approccio etnocentrico. Per comprendere la storia dell’Africa (o meglio delle varie regioni africane) secondo i parametri africani, occorre talvolta cambiare il punto di osservazione, prendere punti di riferimento diversi da quelli utilizzati solitamente nel mondo occidentale. I luoghi comuni da smontare sono molti: per esempio, l’Africa viene spesso descritta come spazio di oralità, quando, invece, come ci dimostrano gli autori, ci sono antichissime testimonianze di forme di scrittura in varie parti del continente. Scritture autoctone, che rivelano come l’oralità sia uno dei modi di comunicare, ma non l’unico. Per esempio il Tifinaghè, uno degli alfabeti più longevi al mondo: una scrittura libico-berbera nata probabilmente nel sud dell’attuale Algeria cinquemila anni fa, e adottata ben presto in tutta l’area dei commerci carovanieri e dei pascoli tuareg (Libia, Mali, Niger, Chad, Burkina Faso, Algeria, Senegal, Mauritania…).

Il Sabeo è un alfabeto usato in Etiopia e Yemen fra il 700 a.C. e il 600 d.C., mentre l’Antico Nubiano, un alfabeto derivante dal Meroitico e, in una fase successiva, dal Copto, è il sistema utilizzato per trascrivere le lingue nubiane fra l’VIII e il XV secolo. L’elenco potrebbe continuare, ma ciò che appare più evidente è la nostra scarsa conoscenza di queste espressioni culturali, che cambierebbero l’immagine che abbiamo dell’Africa.

La patente di “terra di origine” ha inoltre relegato l’Africa a un’epoca “primitiva”, negando ogni forma di trasformazione successiva, così che ancora oggi prevale spesso, nel migliore dei casi, l’idea di un profondo rapporto con la natura. Un espediente di comodo, per non ammettere che quella terra ha sviluppato molte culture e civiltà diverse a partire dall’antichità. Spingendo l’Africa nella sua immagine di “culla dell’umanità”, la si congela a quello stato originario, impedendole di esprimere i suoi cambiamenti.

Lo testimoniano non solo i grandi regni e imperi come quelli del Songhay, del Mali, dello Zimbabwe, dei Luba, ma anche le raffinate strategie messe in atto dai popoli pastorali e dai cacciatori-raccoglitori, capaci di sfruttare al meglio anche ambienti spesso ostili come il deserto o la foresta.

Popoli che hanno saputo innescare profonde trasformazioni da un’epoca di semplice predazione della natura a una di produzione. Particolare attenzione viene anche posta sulle produzioni artistiche africane, partendo dalle più antiche testimonianze di pitture e incisioni rupestri ritrovate nel Sahara e in Sudafrica, fino alle splendide sculture e maschere in legno, che testimoniano perlopiù un’arte di villaggio prodotte dai differenti gruppi etnici, per arrivare poi alle raffigurazioni in bronzo o in terracotta, che raccontano il potere degli imperi e dei grandi regni. Una varietà e una ricchezza che vengono spesso ignorate o trascurate. Basti pensare a quante volte abbiamo visto proporre mostre di arte africana, così come parliamo di musica africana, mentre nessuno parlerebbe di arte o di musica europee. Chi avrebbe il coraggio di mettere in una stessa mostra Giotto e Van Gogh? Oppure Beethoven con i Deep Purple? Eppure con l’arte africana lo facciamo. Ampio spazio viene anche dato allo studio delle lingue africane, contribuendo ancora una volta a frantumare quell’immagine unitaria e omogenea, che spesso abbiamo dell’Africa.

Moltissime e interessanti immagini a colori e cartine tematiche arricchiscono il racconto di questo libro, e si dimostrano fondamentali per farci apprezzare la raffinatezza di certi manufatti, i rapporti tra società e clima, le connessioni interne all’Africa e tra l’Africa e il resto del mondo. Infatti, un altro luogo comune qui sfatato, è quello dell’isolamento africano: in realtà il Sahara non ha mai fermato nessuno, ha reso difficili e faticosi i traffici di merci, sì, ma non li ha mai impediti. Così scopriamo che le grandi città carovaniere del Sahel, come Timbuctu, Djenné, Gao, Oualata, Chinguetti commerciavano regolarmente con i porti del Mediterraneo e con città come Venezia e Genova. Purtroppo nemmeno gli oceani hanno impedito la tragica tratta degli schiavi, altra fondamentale tappa per raccontare la storia dell’Africa e degli africani, che ha causato una emorragia di milioni di donne e uomini giovani strappati ai loro villaggi per essere deportati nelle Americhe.

Non solo l’Africa ha una storia, ma è stata – a volte suo malgrado – protagonista centrale della storia dell’umanità, dall’Antico Egitto alle Guerre Mondiali, dal traffico di oro e avorio allo sfruttamento del coltan e del cobalto, gli africani sono stati coinvolti in quegli eventi e processi globali, che hanno contribuito alla trasformazione dell’intero genere umano. È stata la nostra visione “eurocentrica” a disconnettere l’Africa dalla storia, immediatamente dopo l’uscita dei nostri antenati, congelandone così l’immagine di culla dell’umanità. Una lettura, questa, che ha legittimato (e continua a legittimare) le varie forme di sfruttamento e di egemonia nei confronti del continente.

Nel sottolineare le numerose sfaccettature culturali e storiche dell’Africa del passato, questo libro non solo ci aiuta a comprendere meglio il presente, ma ci restituisce anche una fotografia, ampia e dettagliata, che rende giustizia alla ricca e multiforme storia di un continente troppo spesso rimasto, nel nostro immaginario, a quell’hic sunt leones degli antichi romani.

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Redazione
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