Honduras, stato di polizia
di David Lifodi
Sessanta contadini del Movimiento Unificado Campesino del Aguán (Muca) uccisi dal golpe del giugno 2009, una ventina di giornalisti e decine di militanti del Frente Nacional de Resistencia Popular (Fnrp) assassinati, due omicidi di stato avvenuti lo scorso settembre a meno di 72 ore di distanza l’uno dall’altro ai danni del’avvocato Antonio Trejo Cabrera e del fiscal Manuel Eduardo Díaz Mazariego, un paio di attentati volti ad eliminare il coordinatore di Via Campesina Rafael Alegria, arresti di massa e incarcerazioni senza prove: questo è l’Honduras di Porfirio Lobo, ed ha ragione Bertha Oliva, portavoce del Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos (Cofadeh) a lanciare l’allarme. “Ci stanno decimando”, dice: difficile darle torto.
L’oligarchia terriera honduregna ha scatenato una vera e propria guerra contro la popolazione indigena e contadina in un territorio dove anche le imprese italiane non brillano per trasparenza. Dietro alla diga di Nacaome si trova l’italiana Astaldi, quella di Cajón è stata realizzata da Impregilo, ma la vera sciagura per il paese centroamericano sono le famiglie riunite nel Club di Coyolito, che dagli anni ’80 si sono impossessate della maggior parte delle terre del paese. All’interno di questo club così esclusivo (e pericoloso per la democrazia) spiccano Miguel Facussé, l’uomo più ricco del paese, proprietario della holding Dinant (specializzata in palma da olio) e probabile mandante dell’omicidio di Antonio Trejo con la complicità dello stato, ed Henry Osorto, responsabile dell’ingiusta carcerazione di José Isabel Morales Lopez, familiarmente conosciuto con il soprannome di Chavelo. Le storie di Trejo e Morales Lopez testimoniano il degrado della vita politica e sociale honduregna, ormai manipolata a piacimento da un’oligarchia terriera che agisce nella più completa impunità. Antonio Trejo, assassinato il 22 settembre, lavorava come avvocato delle cooperative contadine affiliate al Muca, impegnate a riprendersi quelle terre del Bajo Aguán espropriate dai latifondisti. Manuel Zelaya, prima di essere destituito dalla presidenza del suo paese, aveva dato impulso ad una timida riforma agraria stroncata sul nascere in seguito al golpe di Roberto Micheletti che lo estromise dalla guida del paese nel giugno 2009. In questo durissimo conflitto per la terra Trejo aveva scelto da che parte stare, fornendo supporto legale alle famiglie contadine che venivano cacciate da Facussé e dalle sue guardie armate dopo aver provato, in più di una circostanza, a rioccupare le terre da cui erano stati illegittimamente allontanati. Le riforme agrarie degli anni ’60 e ’70 avevano infatti assegnato una parte di quelle terre ai campesinos per la coltivazione. Inquietante anche il percorso che ha condotto in carcere Chavelo Morales, in carcere addirittura dal 2008: anche prima del golpe i proprietari terrieri spadroneggiavano in tutto il paese, ma è stato il 25 giugno 2010 che la situazione di Morales si è aggravata. Chavelo è stato ritenuto responsabile di un omicidio che non ha mai commesso grazie ad una serie di prove costruite ad arte per incastrarlo. Appartenente alla comunità di Guadalupe Carney, una delle più combattive nella lotta per la terra, ha incontrato sulla sua strada Henry Osorto e la sua famiglia, latifondisti da generazioni. Durante un attacco in piena regola delle guardie di sicurezza privata contro la comunità, alcuni membri della famiglia Osorto rimasero bruciati vivi quando si sviluppò un incendio nella casa in cui si trovavano. Senza alcuna prova certa, ma basandosi solo su testimonianze improvvisate, Chavelo è stato condannato a venti anni di prigione, che sta scontando in seguito ad un processo farsa per volere dei terratenientes. Inoltre, il codice processuale penale honduregno stabilisce l’obbligatorietà della sentenza entro due anni dalla detenzione, ma nel caso di Chavelo ne sono trascorsi quasi quattro. Non dissimile è la parabola di Rafael Alegría, , informato “casualmente” dal ministro della sicurezza Pompeyo Bonilla dell’esistenza di un piano per ucciderlo. Come faceva lo stato honduregno a sapere che la vita del dirigente di Via Campesina era a rischio? Già nel febbraio 2011 Rafael Alegría fu messo al corrente di un piano per sequestrarlo e torturarlo insieme a Juan Barahona, coordinatore di quel Frente Nacional de Resistencia Popular a cui il presidente Porfirio Lobo ed il suo governo hanno dichiarato guerra fin dal primo giorno di mandato. È per questo che pochi giorni fa proprio il Fnrp ha convocato un encuentro de luchadores y luchadoras allo scopo di fare fronte comune con contadini, organizzazioni indigene, femministe, ambientaliste e studentesche e difendersi da un regime poliziesco ogni giorno più asfissiante. L’incontro ha affrontato numerosi aspetti della vita sociale honduregna, dalla militarizzazione del paese (vedi le ciudades modelo, vere e proprie città private con una propria polizia ed una propria giustizia contro le quali sta montando una crescente opposizione) all’eliminazione dei dirigenti popolari più in vista, passando per il recupero di quella sovranità territoriale calpestata dall’attuale governo. Alle imprese straniere è stata concessa l’opportunità di estrarre i metalli preziosi (di cui il sottosuolo honduregno è ricco), sfruttare i fiumi come fonte di energia per alimentare le dighe, acquisire i servizi pubblici: dal 2009 sono state privatizzate Hondutel (Empresa Hondureña de Telecomunicaciones) ed Enee (Empresa Nacional de Energía Eléctrica) ed i diritti conquistati dai lavoratori si sono progressivamente erosi.
Ad oggi l’Honduras rimane uno stato senza alcuna regola, in cui chiunque può farsi giustizia da solo o perseguire i suoi interessi privati pur ricoprendo cariche statali nella più totale impunità. Risale a pochi giorni fa il sequestro per alcune ore di Karla Zelaya, giornalista e portavoce del Muca. Torturata da rapitori a volto coperto, Karla ha raccontato che i suoi sequestratori non l’hanno uccisa solo perché torneranno ad estorcerle ulteriori informazioni. In pratica, le hanno fatto capire che non avranno alcuna difficoltà a rapirla di nuovo. La giornalista aveva ricevuto da almeno un mese minacce telefoniche, ma nonostante l’immediata consegna alla polizia dei numeri telefonici da cui provenivano le intimidazioni, le indagini non sono nemmeno cominciate. Inoltre, Karla Zelaya era stata aggredita tempo fa dalla stessa polizia durante la repressione di una manifestazione di campesinos nel Bajo Aguán che stava documentando tramite una serie di scatti fotografici: sembra il Cono Sur degli anni’70 e invece siamo nell’Honduras degli anni duemila.