Guerre e fughe di gas: dagli amici…
… mi guardi iddio; oppure se al proverbio preferite un vecchio-nuovo slogan … non è mai troppo tardi per uscire dalla Nato.
Articoli, immagini e video di Massimo Mazzucco, bortocal, Eliseo Bertolasi, Demostenes Floros, Francesco Masala, Daniele Novara, Vauro, Giorgio Bianchi, Larry Johnson, Antonio De Lellis, Pepe Escobar, Franco Fracassi, Giuseppe Germinario, Max Bonelli, Stefano Orsi, Tiziano Cardosi, Scott Ritter, Manolo Monereo, Angelo Baracca, Alberto Negri, Antonio Mazzeo, Sergio Mauri, Gigi Eusebi, Carlo Tombola, Pasquale Pugliese, Fulvio Scaglione, Alessandro Ghebreigziabiher, disarmisti esigenti, Enrico Tomaselli, Gianandrea Gaiani, Davide Malacaria, Clara Statello, Roberto Vallepiano, Mauro Biani, Carlos Latuff
Gli Usa sono il vampiro del mondo – Francesco Masala
Sempre più si capisce cosa succede.
Il complesso politico-militare-economico che governa la nato, cioè gli Usa, lo stato più bellicoso e sanguinario del mondo, disvela il suo piano perverso (per noi).
La guerra contro la Russia è in realtà anche contro l’Europa; come nella prima e seconda guerra mondiale, anche la terza guerra mondiale verrà combattuta in Europa, che sarà grandemente impoverita economicamente.
Quando Edward Snowden rese pubblici i file del NSA ne apparvero alcuni riguardanti lo spionaggio verso i paesi europei e loro leader, Angela Merkel in testa (qui e qui e qui). Quasi nessuno si scandalizzò e Snowden entrò nella lista dei morituri, fra gli eroi dei nostri tempi, insieme a Julian Assange e Leonard Peltier.
Chi (di)mostra le azioni e le trame degli Stati Uniti d’America, il loro disegno (criminale, dal punto di vista delle vittime) deve morire, o, in subordine, deve essere messo in condizioni di non nuocere (all’Impero, naturalmente).
Gli Usa sono come una mafia, la più potente, minacciano, fanno attentati e guerre, tutto il mondo è cosa nostra, dicono e fanno capire che non si muove foglia che gli Usa non vogliano.
Intanto aspettiamo che i nostri coraggiosi e informati giornalisti, che incolpano i russi degli attentati ai gasdotti, scrivano, venti anni dopo, che gli attentati dell’undici settembre 2001 sono stati ideati dagli Usa.
“Bisogna prendere sul serio le parole di Putin“, ha detto Merkel, che ha chiesto di “non minimizzarle fin dall’inizio come se fossero un bluff” e di “affrontarle seriamente”, secondo quanto riporta la radio tedesca Rnd. “Questo non è un segno di debolezza o di pacificazione, ma un segno di saggezza politica, una saggezza che aiuta a mantenere un margine di manovra o, cosa almeno altrettanto importante, a raggiungerlo”
dove sono nascosti i saggi politici (se ce n’è ancora qualcuno in vita)?
l’annessione illegale del Donbass – bortocal
quindi l’annessione del Donbass alla Russia sarebbe illegale…
è un coro.
ma la legge dov’è?
le parole sono importanti: potrebbero dire che è illiberale, piuttosto, visto che la parola è di moda.
però temo che sarebbe fuori posto, dato che invece ha dato a quelle popolazioni la libertà di sentirsi parte del mondo che considerano il loro.
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io direi, se proprio costretto, che semplicemente è irregolare, cioè contraria alle regole.
ma poi dovrei spiegare quali sono queste regole.
l’occupazione israeliana della Palestina araba è regolare?
quella turca del nord della Turchia e del nord di Cipro lo è?
la separazione del Kosovo dalla Serbia come mai è diventato regolare?
e il tentativo argentino del 1982 di annessione delle isole Falkland, peraltro abitate da un paio di migliaia di inglesi, lo era?
e c’è chi era favorevole allora agli argentini ed è contrario oggi ai russi.
purtroppo ogni regola ha le sue eccezioni e le eccezioni rischiano di diventare regolari.
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che sia una bella cosa, questa annessione, non direi.
che quei referendum siano stati del tutto trasparenti, nemmeno.
che ora però quella regione, abitata da russi, sia diventata parte della Russia è un fatto.
ci ricorda l’annessione alla Germania dell’Austria o della regione dei Sudeti, abitati da gente che parlava il tedesco, negli anni Trenta?
indubitabilmente, e non è una bella cosa.
però nel 1938 il mondo occidentale di allora accettò anche la seconda annessione, per salvare la pace.
non accettò l’analoga annessione di Danzica e del cosiddetto corridoio polacco che la univa al resto della Germania nel 1939 e chissà se fu una buona scelta.
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ma almeno, prima, avevano cercato due volte di evitare la guerra mondiale.
e la bomba atomica non era stata ancora inventata…
“Torniamo a casa”. Le immagini del referendum da Donetsk – Eliseo Bertolasi
Il 23 settembre sono iniziate le votazioni per l’adesione alla Federazione Russa della Repubblica Popolare di Donetsk, della Repubblica Popolare di Lugansk e delle regioni di Kherson e Zaporozhje.
Mi trovo a Donetsk, sul posto, quindi, ho modo di vedere direttamente come queste votazioni sono organizzate e allestite.
Dopo aver ottenuto il dovuto accredito giornalistico ho visitato tre seggi elettorali, uno a Donetsk nel quartiere Budennovskij e due a Makeevka, un grande centro abitato adiacente a Donetsk.
La novità di questo evento sta nel fatto che sono stati predisposti dei gruppi mobili di scrutatori, che da una sezione centrale si muovono poi tra le case, tra i cortili, addirittura si recano direttamente negli appartamenti delle persone impossibilitate a muoversi, per dar la possibilità a tutti gli aventi diritti al voto, in maniera capillare, di esprimere la propria scelta.
Il vantaggio, in tal modo, è che le persone non devono fare dei lunghi spostamenti all’aperto, evitano delle lunghe attese, sostanzialmente tutto è molto più sicuro, comodo, facile, e rapido.
Le autorità locali avendo a cuore la sicurezza dei cittadini, di fatto, hanno adottato questa soluzione soprattutto per limitare il rischio di possibili bombardamenti di rappresaglia da parte delle formazioni armate ucraine sui punti di assembramento. I seggi elettorali affollati potrebbero diventare un facile bersaglio.
Tutti hanno ben presente la tragedia e il numero delle vittime civili dei bombardamenti degli ultimi giorni, il 19 e il 22 settembre.
Previa presentazione dell’accredito ai responsabili dei seggi mobili, ho potuto filmare, fotografare, verificare in prima persona come la gente sta votando. Non ho avuto nessun impedimento, nessun diniego, tutto mi è parso svolgersi nel modo più tranquillo e pacifico.
Gli addetti ai seggi mobili sono dotati delle liste degli aventi diritto al voto, verificano i documenti, e poi consegnano la scheda per il voto. Il votante dopo aver espresso la sua preferenza ripone la scheda in appositi contenitori trasparenti trasportabili a mano. Posso solo confermare, in base a ciò che ho osservato, che non viene esercitata nessuna costrizione o imposizione: chi vuole votare incontra questi seggi mobili in prossimità della propria abitazione, chi è impossibilitato telefona e li aspetta a casa.
Nella scheda elettorale il quesito referendario è posto in modo chiaro senza nessun artificio linguistico, in sostanza: favorevole all’adesione alla Russia “si” o “no”. La gente dice: “Torniamo a casa”, col significato che presto torneranno a far parte della Russia.
In questi giorni, in questi territori, si sta scrivendo una pagina di storia, tutti ne sono consapevoli, l’emozione è tanta e le aspettative sono enormi: pace e prosperità. Sono otto anni che gli abitanti del Donbass aspettano la pace, sono convinti che questa è l’unica strada da percorrere.
MOBILITAZIONE, CHE COSA FA L’UCRAINA
Tutti vediamo quali siano le difficoltà della Russia nell’organizzare e gestire la “mobilitazione parziale” dichiarata da Vladimir Putin. Le proteste nelle grandi città, le lunghissime code di uomini in fuga verso la Georgia, persino gli atti di terrorismo nei commissariati militari. Ma come si regola, quanto a mobilitazione, l’Ucraina? Qui, dalla fine di febbraio, la mobilitazione è andata avanti a ondate continue, che si susseguono. Quindi non è nemmeno chiaro quando un’onda si è conclusa e la successiva è cominciata. Secondo i documenti ufficiali, l’Ucraina si prepara ora alla “quarta ondata” di mobilitazione, ovvero alla coscrizione delle donne, che dal 1° ottobre dovranno mettersi a disposizione degli uffici di registrazione e arruolamento militare. Ma andiamo per ordine.
La prima ondata di mobilitazione, ovvero il richiamo dei riservisti, è iniziata in Ucraina ancor prima dell’inizio dell’invasione russa: il 22 febbraio, infatti, il presidente Zelensky ha firmato un decreto sulla mobilitazione della riserva. Questa categoria include i cittadini che hanno in precedenza prestato servizio militare, e che dovevano essere inviati alle unità militari attive. All’inizio di marzo, il ministero della Difesa ucraino riferiva che “quasi il 100% dei riservisti registrati aveva raggiunto le unità da combattimento e stava svolgendo compiti di difesa”. Più di 36 mila persone sono entrate nell’esercito attraverso questa prima leva. La seconda ondata, però, è iniziata quasi subito: il 24 febbraio il presidente Zelensky ha proclamato la legge marziale e il 3 marzo ha firmato un documento sulla mobilitazione generale, che riguardava tutti gli uomini dai 18 ai 60 anni atti al servizio militare. In seguito a questo, sono stati chiamati in servizio anche gli ucraini che non avevano esperienza di servizio militare, mandati a seguire un corso di addestramento di due settimane presso i centri delle forze armate.
Secondo i dati disponibili, circa 300 mila ucraini sono stati coinvolti da questa ondata. Nello stesso tempo, però, era possibile arruolarsi nella Milizia Territoriale, evitando così, almeno in prima battuta, di essere destinati alle unità di prima linea. Si sono peraltro notate grandi differenze nell’atteggiamento delle autorità tra le regioni orientali e meridionali dell’Ucraina e quelle occidentali. Nelle prime, i richiamati sono stati spesso “catturati” in strada o in spiaggia, nei negozi e nelle banche. I riservisti dell’Ucraina occidentale, inseriti nella Milizia, hanno servito vicino a casa, presumibilmente con funzioni di ordine pubblico, per esempio negli interventi contro saccheggiatori e profittatori.
Il divieto di lasciare il Paese per gli uomini di età compresa tra i 18 ei 60 anni è entrato in vigore subito dopo l’introduzione della legge marziale. Tuttavia, secondo i servizi di controllo delle frontiere dei Paesi confinanti, più di 7 milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina. Non tutti sono vecchi, donne e bambini. Il fatto che un certo numero di uomini in età da servizio militare abbiano lasciato l’Ucraina è testimoniato da moltissime notizie arrivate da diversi Paesi europei. Il prezzo per attraversare clandestinamente il confine, per una persona soggetta a coscrizione, era di 3 mila dollari in febbraio-marzo. In estate ha raggiunto i 10 mila dollari.
Il 24 aprile è iniziata la “terza ondata” di coscrizione: secondo le comunicazioni governative, sono stati richiamati gli ufficiali della riserva diplomati nei dipartimenti militari delle università. Secondo molte voci, però, nello stesso periodo sono stati inseriti nei ranghi delle forze armate ucraine anche molti detenuti, compresi quelli del battaglione punitivo Tornado, condannati anche in Ucraina per atrocità contro civili…
In balia di nuovi dottor Stranamore – Daniele Novara
Nell’agosto del 1945, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki hanno creato un solco irreversibile nella storia dell’umanità. La guerra portata alle estreme conseguenze con la bomba nucleare non è possibile: nessuno può realisticamente pensare di superare il proprio nemico, o presunto tale. Le centinaia di guerre combattute dopo questa data sono sempre state basate su una belligeranza che non prevedeva mai l’uso dell’arma finale. Si chiama “finale” proprio perché non contempla un altro inizio: semplicemente la fine di tutto.
Restiamo quindi sconcertati sia per le devastanti dichiarazioni di Vladimir Putin, ma anche per l’idea che emerge nel campo avverso che si possa reagire, che ci possa essere una controffensiva, che i “nostri” comunque vinceranno. Su chi vinceranno? Sulla fine della specie umana? Da mesi facciamo i conti da un lato con l’arroganza di Putin e del suo entourage e dall’altro con l’incompetenza e la superficialità dei politici europei e statunitensi che giocano una partita a poker con rilanci al buio, senza minimamente considerare che potrebbe essere l’ultima, che il mito sconsiderato della vittoria – evocato continuamente da Volodymyr Zelensky, supportato dalla Presidente della Comunità Europea, dal capo della Nato e anche dai politici americani – non ha alcun senso. Non esiste la minima possibilità di vincere.
Le vite umane consumate in questi primi mesi non sono neanche quantificabili e nessuno si sta prendendo il disturbo di definire un numero. Quasi che occorresse alimentare lo sforzo bellico a prescindere dalle vittime.
Il mito della vittoria si regge sull’idea che in una guerra nucleare qualcuno ha ragione e che quindi deve andare avanti a tutti i costi. L’assurdità di questa posizione è stata ampiamente sostenuta dai grandi personalità come Albert Einstein, il nostro Franco Fornari, Bertrand Russell, Gandhi. E anche da papa Francesco, insieme ai pontefici che l’hanno preceduto. Il realismo politico da Hiroshima in poi è sempre stato quello della deterrenza nucleare, mai del suo utilizzo.
Si tiene viva la guerra in Ucraina per sostenere gli interessi macabri della holding delle armi, un’economia che non solleva dubbi sulla priorità dei propri affari rispetto all’estinzione stessa della vita umana sul pianeta. Ma la politica dovrebbe invece, e purtroppo non lo fa, curare l’interesse generale e non quello dei pochi oligarchi delle armi, di un business che non ha etica e non ha nessuna visione del bene comune.
Per uscire da questo incubo esiste una sola strada: riprendere il percorso tortuoso e difficile delle trattative, del negoziato, del dialogo, dell’incontro. L’Europa deve impegnarsi per una tregua, non per una vittoria inattuabile. La tregua rappresenta un primo passo per stabilire una possibilità di composizione. Che interesse abbiamo a tenere viva questa minaccia sulla testa di tutti? Ad alimentare dibattiti assurdi con presunti strateghi militari e pseudopolitologi che ci presentano l’opzione di una bomba nucleare localizzata? Ebbene, quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki vengono oggi definite armi tattiche, destinate a obiettivi precisi. Serve aggiungere altro? Sono idee folli e deliranti che non necessitano neanche di commenti.
Le generazioni che ci hanno preceduti dopo Hiroshima conoscevano bene questo scenario e hanno garantito per quasi settant’anni che la specie umana potesse continuare la sua esistenza nonostante la bomba atomica. Che oggi qualcuno metta in discussione tutto questo ragionando su possibili scenari di guerra nucleare risulta semplicemente sconcertante.
Mi auguro una mobilitazione delle coscienze e una mobilitazione della politica. Ma soprattutto mi auguro una mobilitazione dei giovani, coloro che più hanno interesse a far sentire la propria voce su decisioni che riguardano il loro futuro. Si fa fatica a trovare le parole per arginare visioni così catastrofiche presentate con la naturalezza della guerra tradizionale. Ma sono due cose completamente diverse. Bisogna che anche l’informazione ricordi ciò che la scienza in primis, dal 1945 in poi, ha sempre confermato: non c’è guerra nucleare, ma solo l’inverno eterno del pianeta.
Vladimir Putin concede la cittadinanza russa a Edward Snowden
Vladimir Putin ha concesso la cittadinanza russa all’ex ufficiale dell’intelligence statunitense Edward Snowden. Il documento è stato pubblicato oggi sul portale delle informazioni legali.
La cittadinanza russa è stata concessa su richiesta dello stesso Edward Joseph Snowden, nato il 21 giugno 1983 negli Stati Uniti di America.
Dopo Snowden, anche sua moglie chiederà la cittadinanza, ha affermato l’avvocato Anatolij Kucerena, che ha aggiunto che Snowden non sarà chiamato come parte alla mobilitazione parziale, poiché non ha prestato servizio nell’esercito russo.
Per ricordare, nel giugno 2013, Snowden ha dato vita a un grande scandalo internazionale consegnando al Washington Post e al Guardian alcuni materiali riservati sui programmi di sorveglianza statunitensi e britannici su Internet. Snowden rimase bloccato nella zona di transito in Russia e si scoprì che nessuno lo accettava, gli USA avevano spaventato tutti i paesi, e Putin disse: “la Russia non è quel paese che consegna (alle grinfie USA) chi lotta per il diritti umani”!
L’Italia in bolletta, con Draghi o Meloni è lo stesso – Alberto Negri
La Germania mette in campo 200 miliardi. Il prossimo governo ne avrà a disposizione per gli aiuti 9,5. Grazie alla tassa sugli extraprofitti e a qualche spostamento di spesa si dovrebbe arrivare a una cifra più o meno uguale a quella dell’ultimo Decreto Aiuti di Draghi: 18-20 mld. A fronte di rincari delle bollette del 59% e di una crisi dovuta non solo all’energia ma anche all’impennata delle materie prime è una goccia nel mare. L’Italia è in bolletta ma si chiacchiera a vanvera su giornali e tv. As usual.
NORD STREAM: CONTRORDINE COMPAGNI! – Fulvio Scaglione
La rivoluzione non è un pranzo di gala, diceva Mao. E tanto meno lo è una guerra. Se vai in guerra lo devi sapere. Ma noi non siamo in guerra, almeno teoricamente, e non abbiamo fatto nulla per meritarci questa stampa da Minculpop, che si è consegnata mani e piedi alla propaganda e vive di pessime veline. Prendiamo l’ultimo caso, il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 nel Mar Baltico. È stato ovviamente un sabotaggio: i sismografi degli svedesi hanno subito registrato le esplosioni e non esiste che si producano 4 falle nello stesso tempo in due gasdotti diversi. Ovviamente, la “stampa di qualità” parla subito, addirittura pochi minuti dopo i fatti, di un complotto della Russia. Con il corollario indispensabile che, se ne dubiti, se un alleato di Putin. È l’ennesimo, ridicolo contrordine compagni a cui dovremmo ubbidire.
Mettiamo in fila qualche fatto. Per anni, gli stessi che oggi accusano la Russia di questo sabotaggio ci hanno spiegato che la Russia putiniana prosperava sul “ricatto energetico”, cioè sul fatto di fornire all’Europa circa il 40% del gas necessario alle industrie e alle gas. L’emblema di questo “ricatto” erano proprio i Nord Stream, i gasdotti che collegavano la Russia alla Germania, i Nord Stream: il numero 1 varato all’epoca del cancelliere Schroeder, il 2 dalla cancelliera Merkel. Che infatti, in tempi recenti, è stata coperta di contumelie: aveva sbagliato tutto, ci aveva consegnati al “ricatto”, appunto, del Cremlino. Quindi, tornando al sabotaggio: i russi avrebbero distrutto un’infrastruttura strategica che consentiva loro di ricattare, dal punto di vista energetico, l’Europa. Bravi, 7 più.
Non solo. Venendo a questi tempi infami della guerra: quante volte ci è stato spiegato che proprio con il “ricatto energetico” (che è poi vendere a noi, grazie al Nord Stream, il gas di cui abbiamo bisogno) la Russia attuale finanzia la guerra? Quante volte ci è stato detto che negli ultimi sei mesi Gazprom ha fatto i profitti che normalmente farebbe in due anni? Giusto, vero. Ma allora perché la Russia avrebbe dovuto bombardare uno dei gasdotti che le consentono tali profitti? Proprio mentre in Europa crescono le proteste contro il caro-prezzi, la Ue stenta a varare il tetto al prezzo del gas e in Italia si afferma una maggioranza di Governo che molti, a torto o a ragione, considerano freddo verso la Ue e non indifferente alle ragioni del Cremlino?
Terzo. Diciamo che, per qualche misteriosa ragione, la Russia aveva interesse a tagliare questa specie di cordone ombelicale gasiero che la legava all’Europa. E non bastava, allora, chiudere il rubinetto alla fonte? Interrompere il flusso del gas senza danneggiare in modo forse definitivo una struttura che le è costata decine di miliardi di dollari e su cui, al limite, avrebbe potuto contare in futuro, quando la guerra e le tensioni con l’Occidente fossero eventualmente placate?
Certo, questi sono argomenti razionali. Non sono affascinanti come le fanfaluche dei soliti noti, che da sei mesi vanno in Tv a fantasticare di congiure anti-Putin, rivolte dei generali, ammutinamenti dei ministri, smentiti ogni giorno dalla realtà. Altrettanto razionale (quindi lo faranno in pochi) è guardarsi intorno è vedere quali Paesi profittano da questo sabotaggio. In primo luogo l’Ucraina, ovviamente. I gasdotti sotto il Mar Baltico, nel progetto russo, servivano appunto a evitare il passaggio sul territorio ucraino, cioè sul territorio di un Paese percepito prima come insicuro (si veda la Rivoluzione arancione del 2004, la presidenza di Viktor Yushcenko, i maneggi di Yuliya Tymoshenko) e poi, dopo il 2014 e l’Euromaidan, decisamente ostile. E anche a risparmiare i 3 miliardi di dollari che ogni anno vengono pagati, appunto come diritto di transito, al Governo di Kiev. Finiti i gasdotti sotto il Baltico, è ovvio che diventano molto più preziosi i transiti sul territorio ucraino: se la Russia vorrà o potrà continuare a esportare gas verso Ovest, non potrà più evitare di passare per l’Ucraina.
Ma non solo. Il transito ucraino diventa ancor più prezioso in futuro, proprio nel quadro di quell’affrancamento dal “ricatto energetico” russo di cui gli Usa e la Ue parlano da anni. Tre giorni fa, i primi ministri di Polonia e Danimarca e il ministro dell’Energia della Norvegia hanno simbolicamente inaugurato il nuovo gasdotto Baltic Pipe, una linea da 10 miliardi di metri cubi l’anno che collega la Norvegia alla Polonia via Danimarca e che dovrebbe garantire quella che i polacchi chiamano “sovranità energetica”. Anche in quella occasione la premier danese Mette Frederiksen ha ripetuto il discorso del “ricatto energetico” della Russia. L’ambizione della Polonia, però, non è solo quella di affrancarsi dalle forniture russe ma di diventare il perno di un sistema europeo di distribuzione dell’energia, in collaborazione proprio con l’Ucraina. Lo ha spiegato bene e senza ipocrisie il premier polacco Mateusz Morawiecki: “Essendo il più grande Stato dell’Europa centrale e orientale, ovviamente, pensiamo alla responsabilità della sicurezza energetica non solo in Polonia, ma anche in altri paesi che fanno parte dell’iniziativa dei Tre mari e, ad esempio, l’Ucraina. Vogliamo essere un partner che contribuirà davvero alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico per i Paesi della nostra regione. Nella prospettiva degli anni 5-10, la Polonia potrebbe diventare un centro regionale per la distribuzione del gas al di fuori della Russia, ma tutto dipende dalla cooperazione con i nostri amici dell’iniziativa dei Tre mari e dalle condizioni economiche”. Progetto che, una volta realizzato, e in coincidenza con il declino politico ed economico della Germania, farebbe di fatto della Polonia il Paese più influente nella Ue.
A guadagnare dalla distruzione dei gasdotti russi, poi, non ci sono solo Polonia e Ucraina. C’è anche la Norvegia che zitta zitta è diventata il primo fornitore europeo di gas, prendendo il posto che per decenni era stato appunto della Russia. Le sue esportazioni di gas sono quadruplicate rispetto al 2021 e infatti il Paese ha registrato il più alto surplus commerciale della sua storia: 15,6 miliardi di euro. E ci guadagnano anche gli Usa, come spesso capita: nel 2022 hanno esportato in Europa il 74% della loro produzione di gas liquefatto, contro il 34% del 2021. E lo hanno venduto a noi a un prezzo 7 volte superiore a quello praticato sul mercato interno.
È difficile capire come si possa, in questo quadro, puntare subito il dito contro la Russia per i sabotaggi del Nordstream. Può farcela, appunto, solo la propaganda. Che cerca di non farci notare qualche altro fatto. È la Russia che ha chiesto la convocazione urgente del consiglio di Sicurezza Onu per parlare dei sabotaggi. Mentre, al contrario, né gli Usa né la Ue sembrano arsioni di indagare sull’accaduto. La per il solito ciarliera Von der Leyen tace. Borrell, alto rappresentante europeo per la politica estera e la difesa, invita i gay a lasciare la Russia. contrordine compagni, anche sul Nordstream.
WSJ: Gli Usa non bloccheranno le loro armi contro i nuovi territori della Russia
Secondo il Wall Street Journal, gli Stati Uniti hanno vietato l’uso delle loro armi contro il territorio russo, ma non contro le aree che ora votano nei referendum per unirsi alla Russia.
Secondo le fonti anonime del media nordamericano, l’amministrazione guidata Joe Biden non ha chiesto agli ucraini di fermare gli attacchi, anche con armi fornite dagli Stati Uniti, contro le aree che ora votano per i referendum, ovvero le repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e le regioni di Kherson e Zaporozhye.
Il giornale precisa che, per cercare di controllare il rischio di escalation, il presidente Biden ha deciso che gli Stati Uniti non forniranno all’Ucraina sistemi missilistici in grado di raggiungere il territorio russo.
In linea con ciò, l’amministrazione Biden si è astenuta dal fornire agli ucraini sistemi missilistici tattici come l’ATACMS, che hanno una portata di 190 miglia (305 chilometri). Invece, ha fornito loro gli Himar, razzi guidati con una portata di 48 miglia (77 chilometri). Gli accordi su tali trasferimenti includono l’impegno dell’Ucraina a non utilizzare tali armi per attaccare il territorio russo.
La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha avvertito che se gli Stati Uniti decidessero di fornire missili a lungo raggio all’Ucraina, attraverserebbero “una linea rossa”. In tal caso, ha ricordato, la Russia “si riserva il diritto di difendere il proprio territorio con tutti i mezzi a sua disposizione”.
Secondo il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, i territori che si uniscono legalmente alla Russia saranno “sotto la piena protezione dello Stato”.
Allo stesso tempo, fonti americane, a condizione di anonimato, hanno ribadito che l’amministrazione Biden non riconoscerà mai questi territori come russi e continuerà a sostenere Kiev “per tutto il tempo necessario”, ha ribadito il quotidiano.
L’Europa si staccherà dagli Stati Uniti? – Larry Johnson
Un lettore tedesco, che è anche un giornalista, mi ha fatto una bella domanda: “Quali sarebbero il modo e le implicazioni pratiche se l’Europa in generale, e la Germania in particolare, rompessero con gli Stati Uniti per trovare una pace europea e un quadro economico che includa la Russia?”
La vile sicofantìa dimostrata da Germania, Francia e Regno Unito nel loro appassionato abbraccio al confronto dell’America con la Russia è ora in fase di supporto vitale. Nonostante le continue e reboanti minacce di continuare ad armare l’Ucraina fino al collasso della Russia, la realtà economica sta colpendo gli europei come una doccia gelata da un idrante. La rapida inflazione, in particolare nel settore energetico, sta costringendo le fabbriche e le imprese a chiudere i battenti. È iniziata la deindustrializzazione dell’Europa, in particolare della Germania e del Regno Unito. Le acciaierie tedesche stanno chiudendo, le panetterie tedesche stanno cercando di capire come pagare le bollette in aumento pur continuando a produrre pane e pretzel, e il produttore tedesco di carta igienica Hakle GmbH [in inglese] ha richiesto una procedura di insolvenza. Se non avete un bidet o un secchio pieno di sabbia, la carta igienica è un articolo essenziale. La spirale inflazionistica potrebbe portare al giorno in cui sarà più conveniente pulirsi il sedere con una banconota da 100 euro che con tre fogli di Hakle.
Quindi, la situazione economica dei paesi creerà un’enorme pressione interna affinché i rispettivi governi europei, che ora tifano per l’Ucraina e maledicono la Russia, ripensino le loro politiche. La guerra tra Russia e Ucraina ha già creato notevoli spaccature tra i membri dell’Unione Europea, con l’Ungheria che si rifiuta di imporre ulteriori sanzioni alla Russia. Gli elettori, affamati e infreddoliti, s’indigneranno sempre di più per l’invio di milioni di dollari all’Ucraina, mentre le privazioni si moltiplicano, da Berlino a Londra.
La frattura dell’Europa con la Russia è enorme, e la Russia non è dell’umore giusto per perdonare gli insulti lanciati contro tutto ciò che è russo, il furto di risorse finanziarie e l’agevolazione da parte dell’Europa degli attacchi terroristici contro i nuovi cittadini russi degli oblast di Kherson, Zaporozhye, Donetsk e Lugansk. La Russia detiene l’asso nella manica: può attivare i flussi di gas e petrolio essenziali per riavviare la produzione e il riscaldamento domestico in Europa. Ma non credo che lo farà senza una contropartita. Quale potrebbe essere?
Che ne dite di una rottura dell’Europa con la NATO? O, più semplicemente, la rottura della NATO. Finora l’Europa ha cullato l’illusione che la Russia non possa funzionare economicamente senza un mercato europeo. Gli ultimi sei mesi di Operazione Militare Speciale della Russia hanno dimostrato che è vero il contrario: senza le risorse chiave della Russia, l’Europa è un’economia morta che cammina nuda in un inverno gelido.
I due maggiori partner commerciali dell’Europa sono [in inglese] la Cina e gli Stati Uniti. L’Europa ha un deficit commerciale con la Cina. Se la Cina richiede pagamenti in dollari e non in euro, la pressione inflazionistica sull’Europa aumenterà. Perché? Perché il valore del dollaro americano è aumentato rispetto all’euro e alla sterlina britannica. Dovranno spendere più euro per comprare dollari, il che significa che il deficit commerciale con la Cina probabilmente peggiorerà.
La situazione con gli Stati Uniti è opposta. Gli Stati Uniti hanno registrato un deficit con l’Europa che, a sua volta, ha avuto un surplus. Questo surplus è destinato a scomparire o, come minimo, a ridursi drasticamente. La capacità della Germania di esportare prodotti negli Stati Uniti s’indebolirà a causa del prezzo del dollaro, e perché le fabbriche europee chiuderanno o ridurranno la produzione.
Salvo che non avvenga un’inversione di tendenza miracolosa, cioè che l’inflazione scompaia e la crisi energetica si dissolva, la situazione in Europa si aggraverà. La storia di questo tipo di sconvolgimenti economici è disseminata di cadaveri di politici che hanno insistito nel promuovere politiche che hanno danneggiato i loro elettori. Il fallimento della Repubblica di Weimar in Germania ha spianato la strada all’ascesa al potere di Adolf Hitler. Non sto insinuando che un nuovo Hitler stia aspettando dietro le quinte, ma credo che il potere ora esercitato dai Verdi in tutta Europa sarà ridotto o addirittura annullato.
Gli Stati Uniti stanno affrontando un loro disastro economico incombente. Il crollo del mercato azionario – ora sceso di oltre il 20% dall’inizio dell’anno – è destinato a continuare. Nonostante la strenua insistenza dell’amministrazione Biden sull’assenza di recessione, i segnali di questa si stanno moltiplicando, soprattutto nel mercato immobiliare. Ma il peggioramento del quadro economico non è ancora sufficiente a generare la pressione politica necessaria nell’elettorato americano, sottoposto alla propaganda, per rinunciare ad inviare miliardi all’Ucraina. Un forte shock di stagflazione o un crollo dell’esercito ucraino, tuttavia, potrebbero cambiare il calcolo.
Gli Stati Uniti e l’Europa stanno giocando una partita a poker con la Russia. Hanno scommesso tutte le loro fiche sul fatto che l’Ucraina sconfiggerà la Russia, o la costringerà al tavolo delle trattative, e che Putin, con il cappello in mano, striscerà sulla pancia davanti ai padroni occidentali e implorerà di essere aiutato. È una follia. Ma ci sono molti politici e opinionisti, abitanti degli angoli bui di Washington, che credono fermamente a questa fantasia.
La Russia non gioca a poker. Gioca a scacchi, e lo fa bene. Le crescenti relazioni commerciali e militari della Russia con la Cina, l’Iran, l’India e il Pakistan, l’Arabia Saudita e il Brasile stanno rendendo la posizione di Putin più forte, non più debole. L’eventuale collasso dell’Ucraina, come risultato di un’economia distrutta e/o di sconfitte sul campo di battaglia, sarà più di un occhio nero per la NATO e, per estensione, per l’Europa. Probabilmente distruggerebbe la ragion d’essere della NATO. Questo a sua volta getterà le basi per un riavvicinamento alla Russia senza gli Stati Uniti.
L’era del Colosso statunitense si avvicina alla fine. Lo zio Sam non avrà più al guinzaglio un branco di Yorkshire, barboncini e bassotti europei. Penso che ci troviamo alle soglie di un nuovo ordine internazionale multipolare che alla fine distruggerà l’eredità del colonialismo europeo e dell’imperialismo americano. Come ha saggiamente osservato [in inglese] Garland Nixon, “il Generale Inverno è in marcia”.
Le lenti della pace sull’economia di guerra – Antonio De Lellis
Che cos’è una economia di pace in un mondo abitato da economie di guerra? Insieme a Clara Capelli, economista dello sviluppo esperta di Medio Oriente e Nord Africa, e insegnante presso l’università di Betlemme, ho provato ad integrare ciò che credo debba essere sempre più il centro degli interessi dei movimenti sociali. Studiare una economia di guerra ci può aiutare a comprendere meglio cosa non deve essere una economia di pace. Dal 1967 i sistemi economici israeliano e palestinese si sono legati e intersecati, ma in un rapporto di dipendenza e subordinazione dell’economia palestinese a quella israeliana.
In primo luogo, a beneficiare dei miglioramenti di produttività sono state le attività israeliane, mentre i palestinesi sono stati mercato di sbocco di beni, servizi e forza lavoro a basso costo.
Questa asimmetria strutturale è stata ‘istituzionalizzata’ e approfondita con gli Accordi di Oslo, i quali, non ribilanciando i rapporti di potere, hanno contribuito a consolidare un’economia di guerra. Un annesso agli Accordi di Oslo, il Protocollo di Parigi, sancisce fra le varie cose:
a) rigidi vincoli commerciali per la Palestina (es. controllo dei confini e dei porti d’ingresso delle merci, limitazioni sulle caratteristiche dei beni importabili ed esportabili, applicazione dei dazi doganali israeliani);
b) azzoppamento della politica fiscale (due terzi delle entrate fiscali dell’Autorità palestinese provengono da dazi e Iva sulle importazioni, che sono raccolti e trasferiti da Israele e possono essere trattenuti a ogni occasione di screzio politico);
c) assenza della politica monetaria (la Palestina utilizza lo shekel israeliano).
Molto si potrebbe dire anche di Gaza, sotto blocco terrestre, marittimo e aereo dal 2007. Questa subordinazione si traduce in un sottosviluppo strutturale dell’economia palestinese (alcuni autori parlano di de-sviluppo, senza contare come confische e acquisizioni forzate di terre e risorse generino una stagnazione/recessione cronica della Palestina) e quindi di dipendenza.
Le dipendenze sono:
a) da importazioni, perché molti beni provengono da Israele;
b) di capitali, perché per molti esponenti del settore privato palestinese è più remunerativo prendere commesse e assecondare delocalizzazioni da parte delle imprese israeliane;
c) di lavoro, dato che oltre 200.000 palestinesi lavorano in Israele e negli insediamenti israeliani. Peraltro, il rapporto fra Pil pro capite israeliano e Pil pro capite palestinese é il più diseguale fra economie confinanti al mondo, molto più elevato rispetto a Stati uniti-Messico e Germania-Polonia.
Questa subordinazione crea delle gerarchie di ingiustizia e disuguaglianza feroci all’interno delle due società. Nel caso di Israele, la forza lavoro palestinese, e per certi versi anche la forza lavoro dei palestinesi con cittadinanza israeliana, si trova a competere con quella israeliana; nel caso palestinese, si creano situazioni tipiche dell’economia di guerra con stratificazioni di privilegi e situazioni in cui caporali e imprenditori palestinesi finiscono per approfondire lo sfruttamento dei loro connazionali per denaro e altri favori.
Una economia di pace nonviolenta è una economia in cui gli stati o gli organismi sovranazionali non sono subordinati fra loro, non asimmetrici soprattutto negli scambi commerciali e indipendenti tra loro in quanto a beni e servizi essenziali. Dovremmo sempre più convincerci che al momento la prima e più urgente cosa da fare sia (ri-)trovare le lenti della pace per leggere ciò che accade ogni giorno su questa terra.
La “Maskirovka” incontra Sun Tzu nella nuova strategia russa – Pepe Escobar
(traduzione di Nora Hoppe)
Le placche tettoniche geopolitiche si stanno proprio sballando e spaccando… e il suono si sente in tutto il mondo, mentre i due orsetti gemelli DPR e LPR e Kherson e Zaporozhye votano i loro referendum. Un fatto irrecuperabile: entro la fine della prossima settimana la Russia si avvierà sicuramente ad aggiungere oltre 100.000 km2 e oltre 5 milioni di persone alla Federazione.
Denis Pushilin, capo della RPD, ha riassunto tutto: “Stiamo tornando a casa”. Gli orsetti stanno tornando da mamma.
Insieme alla mobilitazione parziale di 300.000 riservisti russi – probabilmente solo una prima fase – le conseguenze della posta in gioco sono immense. Uscire dal precedente formato soft dell’Operazione Militare Speciale (OMS): entrare in una guerra cinetica seria, non ibrida, contro qualsiasi attore, vassallo o meno, che osi attaccare il territorio russo.
C’è, come coniata dai cinesi, una finestra brevissima di crisi/opportunità per l’Occidente collettivo, o la NATOstan, di negoziare. Non lo faranno. Anche se chiunque abbia un quoziente intellettivo superiore alla temperatura ambiente sa che l’unico modo per l’Impero del Caos/Menzogna/Spreco di “vincere” – al di fuori della copertina dell’Economist – sarebbe quello di lanciare una raffica di armi nucleari tattiche al primo colpo, che incontrerebbe una risposta russa devastante.
Il Cremlino lo sa – il Presidente Putin vi ha alluso pubblicamente; lo Stato Maggiore russo (RGS) lo sa; i cinesi lo sanno (e hanno richiesto, anche pubblicamente, di negoziare).
Invece, abbiamo una russofobia isterica che raggiunge il parossismo. E da parte dei vassalli – quelli cervi illuminati dai fari, un’ulteriore fanghiglia tossica di “paura e disgusto”.
Le implicazioni sono state affrontate in modo acuto e razionale da The Saker e da Andrei Martyanov. Nel regno dell'”influenza” dei social – una componente chiave della guerra ibrida – l’intrattenimento da quattro soldi è stato fornito da tutti, dagli eurocrati spaventati ai generali statunitensi di merda in pensione che minacciano un “attacco devastante” contro la Flotta del Mar Nero “se Vladimir Putin userà le armi nucleari in Ucraina“…
HANNO SEMINATO VENTO…ORA RACCOLGONO TEMPESTA – Scott Ritter
La guerra non è mai una soluzione; ci sono sempre alternative che avrebbero potuto – e dovuto – essere perseguite da coloro ai quali è affidato il destino della società globale prima di dare l’ordine di mandare i giovani di una nazione a combattere e morire. Qualsiasi leader nazionale degno di questo nome dovrebbe cercare di esaurire tutte le possibilità per risolvere i problemi che affliggono i rispettivi Paesi.
Se considerato nel vuoto, l’annuncio del Presidente russo Vladimir Putin mercoledì, in un discorso televisivo al popolo russo, di ordinare la mobilitazione parziale di 300.000 riservisti dell’esercito per integrare i circa 200.000 effettivi russi attualmente impegnati in operazioni di combattimento sul territorio dell’Ucraina, sembrerebbe l’antitesi della ricerca di un’alternativa alla guerra.
Questo annuncio è stato fatto parallelamente a quello che autorizza lo svolgimento di referendum nei territori ucraini attualmente occupati dalle forze russe sulla questione dell’unione di questi territori alla Federazione Russa.
Considerate isolatamente, queste azioni sembrerebbero rappresentare un attacco frontale al diritto internazionale come definito dalla Carta delle Nazioni Unite, che proibisce atti di aggressione da parte di una nazione contro un’altra allo scopo di impadronirsi di un territorio con la forza delle armi. È quanto ha affermato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden intervenendo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite poche ore dopo l’annuncio di Putin.
“Un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha invaso il suo vicino, ha tentato di cancellare uno Stato sovrano dalla mappa,” ha detto Biden. “La Russia ha spudoratamente violato i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite.”
La storia, tuttavia, è una dura padrona, dove i fatti diventano scomodi per la percezione. Se vista attraverso il prisma dei fatti storici, la narrazione promulgata da Biden si capovolge. La realtà è che dal crollo dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno cospirato per soggiogare la Russia nel tentativo di garantire che il popolo russo non fosse mai più in grado di lanciare una sfida geopolitica all’egemonia americana definita da un “ordine internazionale basato su regole” imposto al mondo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.
Per decenni, l’Unione Sovietica ha rappresentato questa minaccia. Con la sua fine, gli Stati Uniti e i loro alleati erano determinati a non permettere mai più al popolo russo – alla nazione russa – di manifestarsi in un modo simile.
La Germania occidentale aveva aderito alla NATO nel 1955, durante la Guerra Fredda, e questo aveva portato alla formazione dell’organizzazione rivale, il Patto di Varsavia. Bundesarchiv, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)
Quando Putin ha parlato della necessità di “passi necessari e urgenti per proteggere la sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale della Russia” dalle “politiche aggressive di alcune élite occidentali che cercano con ogni mezzo di mantenere la loro supremazia,” aveva in mente questa storia.
L’obiettivo degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali, ha dichiarato Putin, è quello di “indebolire, dividere e infine distruggere il nostro Paese,” promuovendo politiche volte a far sì che “la Russia stessa si disintegri in una moltitudine di regioni e territori mortalmente nemici tra di loro.” Secondo Putin, l’Occidente guidato dagli Stati Uniti “ha deliberatamente incitato all’odio verso la Russia, in particolare in Ucraina, alla quale ha riservato il destino di una testa di ponte anti-russa.”
La terza legge del moto di Newton, secondo cui per ogni azione c’è una reazione uguale e contraria, si applica anche alla geopolitica.
Il 24 febbraio Putin aveva dato ordine alle forze armate russe di avviare quella che aveva definito una “Operazione militare speciale” (SMO) in Ucraina. Putin aveva dichiarato che questa decisione era conforme all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite e ai principi di autodifesa collettiva preventiva definiti dal diritto internazionale.
L’obiettivo dell’operazione era quello di proteggere le repubbliche recentemente indipendenti di Lugansk e Donetsk (denominate collettivamente regione del Donbass) da un pericolo imminente rappresentato da una concentrazione di forze militari ucraine che, secondo la Russia, erano pronte ad attaccare.
L’obiettivo dichiarato della SMO era quello di salvaguardare il territorio e la popolazione delle repubbliche di Lugansk e Donetsk eliminando la minaccia rappresentata dalle forze armate ucraine. Per raggiungere questo obiettivo, la Russia aveva identificato due obiettivi primari: la smilitarizzazione e la denazificazione.
La smilitarizzazione dell’Ucraina sarebbe stata realizzata attraverso l’eliminazione di tutte le infrastrutture e le strutture organizzative affiliate all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, o NATO; la denazificazione avrebbe comportato un’analoga eliminazione dell’odiosa ideologia dell’ultranazionalista ucraino Stepan Bandera, responsabile della morte di centinaia di migliaia di Ebrei, Polacchi e Russi etnici durante la Seconda Guerra Mondiale e in un decennio di resistenza antisovietica dopo la fine della guerra.
A partire dal 2015, la NATO ha addestrato ed equipaggiato le forze armate ucraine per affrontare i separatisti filorussi che avevano preso il potere nel Donbass dopo l’estromissione del presidente ucraino filorusso Victor Yanukovich in una violenta insurrezione, nota come “Rivoluzione di Maidan”, guidata dai partiti politici ucraini di destra che professavano fedeltà alla memoria di Stepan Bandera.
L’Ucraina ha perseguito l’adesione alla NATO fin dal 2008, sancendo questo obiettivo nella sua costituzione. Sebbene nel 2022 l’adesione effettiva non sia ancora avvenuta, il livello di coinvolgimento della NATO nelle forze armate ucraine ne ha fatto un’estensione de facto dell’alleanza NATO.
La Russia considerava la combinazione tra l’adesione alla NATO e l’atteggiamento antirusso del governo ucraino post-Maidan, legato all’ideologia di Bandera, come una minaccia alla sua sicurezza nazionale. La SMO è stata concepita per eliminare tale minaccia…
DALL’ EUROPA ALL’IRAN, VERSO LA RICOMPOSIZIONE DELLA “GUERRA MONDIALE A PEZZETTI” – Tiziano Cardosi
Spero di non essere considerato un complottista per quello che segnalo.
Ci sono delle notizie che forse confermano delle ipotesi sulle vicende che oggi interessano il mondo e la nostra vita. Nell’articolo scritto da due giornalisti svedesi che trovate qui nella sua versione originale e qui tradotto si parla di un documento della RAND Corporation, agenzia vicina al governo US, in cui si proponeva al governo USA una crisi internazionale proprio del tipo che stiamo vivendo con l’inizio della guerra in Ucraina.
In particolare ve ne cito il cuore: “L’obiettivo chiave descritto nel documento è dividere l’Europa – in particolare Germania e Russia – e distruggere l’economia europea inserendo utili idioti in posizioni politiche per impedire alle forniture energetiche russe di raggiungere il continente”.
Messa così potrebbe apparire una classica denuncia complottista dove si accenna a gruppi segreti che pianificano e realizzano strategie globali. Non so quanto questo documento rinvenuto dagli svedesi sia stato utilizzato da Biden o sia un semplice falso, mi pare però evidente che descriva correttamente cosa stiamo vedendo in questo periodo e soprattutto corrisponda precisamente alle linee guida della politica statunitense da sempre, tesa soprattutto a mantenere un controllo del pianeta ancora più difficile da gestire dopo le fallimentari guerre passate, soprattutto in Medio Oriente. Prodromi di questo c’erano già stati con Trump con lo scandalo del Dieselgate e l’inizio dei dazi doganali all’Europa.
L’articolo conferma la mia impressione, avuta poco dopo il 24 febbraio, che quella in Ucraina sia una guerra USA, tramite lo strumento NATO e le vite degli Ucraini, nei confronti della Russia ma anche dell’Europa (che per gli USA viene intesa soprattutto come Germania). Sullo sfondo ovviamente c’è la Cina.
Un altro articolo ha confermato i miei timori; viene da HispanTV e riguarda i fatti interni dell’Iran, cioè le proteste per l’uccisione di una giovane donna, per mano della assurda polizia morale, perché non indossava correttamente il velo. Proteste che ritengo più che giustificate, ma che cadono proprio in un quadro politico del Medio Oriente e dell’Asia centrale dove i sintomi pericolosi di guerra stanno crescendo. L’articolo originale è qui. Quello tradotto qui.
In sostanza si dice di come i media britannici che vengono visti in Iran fomentino i disordini per aggravare la crisi interna di quel regime teocratico e dogmatico, ma non allineato agli interessi di USA-Israele.
I media occidentali pongono molto l’accento sulla giusta richiesta di libertà degli iraniani e delle iraniane – molto meno sulle loro richieste di giustizia sociale – ma ignorano ipocritamente altri contesti come nella penisola arabica dove la situazione delle donne è anche più grave. I manifestanti e le manifestanti iraniane non possono che avere la nostra solidarietà, ma credo sia bene aver chiaro come anche queste rivendicazioni siano, in mano all’Occidente, strumento di guerra e non di liberazione. Chi scende in piazza a Teheran e nelle altre città si trova sotto il martello di un regime autoritario e sull’incudine di una guerra che si sta preparando loro.
In pochi mi pare colleghino questi fatti con ciò che sta accadendo a sud delle montagne del Caucaso e a est del Caspio. In particolare al conflitto tra Armenia e Azerbaigian, dove la Russia fatica ad intervenire accanto all’alleato armeno, la Turchia fomenta le richieste dei turcofoni azeri sognando ancora l’impero ottomano, gli US ci mettono del loro per destabilizzare il fianco sud della Russia. Spezzare il fronte interno è importante in una guerra e gli occidentali lo hanno sempre fatto nella loro plurisecolare e sanguinosa esperienza coloniale; accade adesso che l’Iran ha ammassato truppe al confine con l’Azerbaigian in difesa dell’alleato armeno. Indebolirlo in un conflitto sarebbe tatticamente molto efficace. Quando appoggiamo le giuste richieste delle donne iraniane dovremmo chiedere anche che non vengano massacrate con i loro uomini in una guerra che non hanno e non abbiamo voluto.
Se mettiamo insieme a questi fatti e alla guerra ucraina anche la crisi che stanno attraversando i paesi dell’Asia centrale – ex repubbliche sovietiche – mi pare ci si trovi davanti ad un grande puzzle di quella che il papa Francesco ha definito, più di dieci anni fa, la guerra mondiale a pezzetti; la NATO a guida statunitense sta riunendo i pezzi dispersi e la guerra che era frammentata si sta materializzando in quella che potrebbe essere la terza guerra mondiale. Non è certo consolante che i contendenti stiano giocando con circa 13.000 ordigni nucleari, tutto mentre i media dalle nostre parti si baloccano a dipingere un Putin sempre più cattivo.
C’è da preoccuparsi ben oltre la vittoria dell’estrema destra in Italia.
aridatece la Merkel – bortocal
27 ottobre Angela Merkel, discorso alla Fondazione Kohl, per ricordare il suo predecessore e mentore politico.
la Merkel dice di avere appreso da lui “tre principi dell’arte politica”: “L’importanza in politica della personalità, la volontà incondizionata di dar forma alle cose, il pensare dentro contesti storici”.
che cosa farebbe oggi l’artefice della riunificazione tedesca negoziata con Gorbaciov? si è chiesta la Merkel.
modo neppure tanto velato per chiedersi che cosa in realtà farebbe lei stessa.
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non perderebbe mai di vista “il giorno dopo”, ha detto.
Farebbe di tutto per restaurare la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, “ma parallelamente non smetterebbe mai di pensare quel che al momento è del tutto impensabile, inconcepibile: come sviluppare di nuovo le relazioni verso e con la Russia”.
“Prendere sul serio le sue parole, non liquidarle a priori come se fossero un bluff ma confrontarcisi seriamente non è affatto un segnale di debolezza, ma di saggezza politica. Una saggezza che aiuta a mantenere un margine di manovra o a svilupparne di nuovi”.
la Merkel quindi critica tra le righe, ma neppure poi tanto, le condotte di Washington e della Nato, incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso minaccioso del 21 settembre:
un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo, incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono.
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Andrij Melnyk, l’ambasciatore dell’Ucraina in Germania, ha tweettato:
Difficile da credere: l’ex cancelliera, che ha reso possibile l’aggressione di Mosca contro gli ucraini con i suoi anni di intimità da Putin, filosofeggia spudoratamente su “come si possono sviluppare nuovamente relazioni con noi con la Russia”.
questi sono gli irresponsabili guerrafondai di quel paese, che è pur sempre aggredito, ma sembra molto contento di esserlo; quelli che rifiutano ogni ipotesi di mediazione fondata sull’autodeterminazione e che preferiscono il rischio mortale dell’atomica sul loro territorio.
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evidentemente a inizio della guerra era forse ancora possibile pensare che l’Ucraina assumesse una struttura federale, riconoscendo una piena autonomia alla sua minoranza russa e garantendo la propria neutralità militare, che non le avrebbe impedito di associarsi all’Unione Europea, almeno dal punto di vita economico.
ma oggi, dopo un referendum certamente contestabile nella forma, ma non nella sostanza, e l’incorporazione formale del Donbass nella Russia, anche questa mediazione è diventata impossibile.
d’altra parte il sabotaggio forse irreparabile dei gasdotti russi verso la Germania, sembra quasi la risposta al discorso della Merkel da parte di qualcuno che non può neppure essere nominato.
spero che lo stato tedesco tenga la Merkel sotto stretta protezione, per evitarle il rischio di finire come Moro.
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fonte: Barbara Spinelli, Meloni deve scegliere o Draghi o Merkel, Il Fatto Quotidiano, qui – e altro.
Il progetto strategico della Nato – Manolo Monereo
…la NATO ha un gergo specifico che deve essere compreso. Termini come resilienza, approccio a 360 gradi, concorrente strategico o rivale sistemico hanno un contenuto polisemico che spesso nasconde o neutralizza significati più precisi. La resilienza degli Stati denota adattamento e volontà di trasformazione, una resistenza innovativa ai cambiamenti drastici della situazione economica, tecnologica o politico-militare. L’approccio a 360 gradi è un criterio più intuitivo che concettuale. Si tratta di avere una visione globale delle minacce, delle sfide e degli eventi e, fondamentalmente, una risposta altrettanto mondiale, tenendo presente che ai tradizionali elementi strategici di base (terra, mare e aria) si aggiungono lo spazio e il mondo cibernetico.
C’è un punto che mi preme sottolineare. Alla fine della prefazione si legge: “La nostra visione è chiara: vogliamo vivere in un mondo in cui la sovranità, l’integrità territoriale, i diritti umani e il diritto internazionale siano rispettati e in cui ogni Paese possa scegliere la propria strada, libero da aggressioni, coercizioni o sovversioni. Lavoriamo con tutti coloro che condividono questi obiettivi. Stiamo insieme come alleati, per difendere la nostra libertà e contribuire a un mondo più pacifico”. Leggendo attentamente, è molto sorprendente che questo possa essere detto da un’organizzazione come la NATO, non solo per le sue azioni durante la Guerra Fredda nel promuovere colpi di Stato, cambi di regime politico o semplicemente nel divenire il centro delle fogne degli Stati, ma anche per la sua sistematica violazione del diritto internazionale con il bombardamento di un Paese europeo sovrano come la Serbia o la sua partecipazione in Afghanistan, Libia, Iraq. Stiamo parlando solo della NATO, non degli Stati Uniti, il che renderebbe questa parte troppo lunga. Come disse una volta Margaret Albright, con le Nazioni Unite quando è possibile o, in caso contrario, da soli. Robert Kagan lo va ripetendo da anni: gli Stati Uniti hanno l’obbligo e il dovere di intervenire militarmente per difendere i propri interessi, i propri valori e le proprie norme nel mondo. Lo ha sempre fatto e continuerà a farlo. Se l’ONU è favorevole, tanto meglio; in caso contrario, l’amministrazione statunitense si assumerà i propri obblighi. Punto.
È chiaro che questa dichiarazione ha molto a che fare con la NATO e il suo futuro. L’offerta permanente di ampliamento (“porte aperte”, paragrafi 41 e 44) all’Est (Ucraina, Georgia, Moldavia) dimostra la coerenza delle politiche volte a mettere sotto pressione e ad assediare ulteriormente la Russia. La NATO difenderà questo diritto all’autogoverno, alla sovranità popolare e all’indipendenza nazionale non solo in Europa ma ovunque? Sarà questo il suo criterio? La cosa più curiosa è che il 4 febbraio 2022 Xi Jinping e Vladimir Putin hanno firmato un documento programmatico unico nel suo genere in cui hanno ribadito la volontà di costruire un mondo multipolare su queste basi, opponendosi a un ordine esistente che sancisce l’egemonia statunitense, che trasforma i suoi interessi economici e commerciali in regole e che interviene militarmente senza rispettare i criteri dei diritti internazionali e della Carta delle Nazioni Unite. In ogni caso, latino-americani, africani e asiatici saranno sorpresi dalla dichiarazione della NATO e si aspetteranno che nei rispettivi continenti gli Stati Uniti rispettino l’autogoverno delle popolazioni e il loro diritto di decidere il tipo di regime politico e sociale, compresi Cuba e Venezuela.
Continuiamo con il gergo. Il corollario di un approccio a 360 gradi è quello di trasformare la NATO in un attore politico militare globale senza confini geografici definiti. Il documento etichetta la Russia come un concorrente strategico e la qualifica, come già detto, come una minaccia. È evidente che il nemico della NATO è la Russia e che le sue politiche mirano, direttamente o indirettamente, a isolarla e assediarla con un muro di contenimento sempre più ampio e sempre più vicino a Mosca. La grande novità è la Cina, definita anche come concorrente strategico speciale o sistemico. La NATO introduce una classificazione basata su tre termini: partner, concorrente strategico e rivale o concorrente sistemico. Non è facile da spiegare. Concorrente è colui che è in grado di sfidare, in un modo o nell’altro, l’egemonia statunitense. È un avversario. Qualificare la Cina come un concorrente sistemico – distinto dalla Russia – è legato al tipo di potenza economica, tecnologica e politico-militare che è in grado non solo di sfidare, ma anche di costruire un’alternativa agli Stati Uniti.
L’amministrazione statunitense si sta preparando per un conflitto a lungo termine volto a sconfiggere la Cina…
Doppi standard. La Germania approva l’accordo sulle armi l’Arabia Saudita
Ecco un chiaro esempio doppia morale dell’Occidente. Sanzioni e blocchi dell’acquisto di gas dalla Russia per la guerra in Ucraina, però si possono comprare idrocarburi e vendere persino armi, come all’Arabia Saudita che da sette anni sta devastando lo Yemen con centinaia di migliaia di vittime tra morti, feriti e sfollati.
I media tedeschi hanno riferito, ieri, che Berlino ha approvato una serie di nuovi accordi di esportazione di armi con l’Arabia Saudita, a dispetto del divieto del 2018 per la brutale guerra di Riad nello Yemen.
In una lettera al Bundestag, il ministro dell’Economia del Paese, Robert Habeck, ha affermato che gli accordi sono stati approvati dal cancelliere tedesco Olaf Scholz poco prima della sua recente visita in Arabia Saudita.
Le licenze di esportazione tedesche rientrano in un programma di esportazione congiunto con Spagna, Italia e Regno Unito, specifica la lettera di Habeck, e consentiranno a Riad di acquistare attrezzature e munizioni per aerei da guerra Eurofighter e Tornado per un importo di circa 35 milioni di dollari.
La Germania, le cui esportazioni di armi in Arabia Saudita sono state di circa 1,22 miliardi di dollari nel 2012, ha vietato l’esportazione di armi nel regno nel 2018 come parte di un divieto più ampio contro i paesi coinvolti nella guerra contro lo Yemen, nonostante alcune eccezioni.
Tuttavia, l’anno successivo è stato imposto un divieto totale dopo l’omicidio dell’editorialista Jamal Khashoggi all’interno dell’ambasciata saudita a Istanbul.
Questo divieto inizialmente rientrava nella politica tedesca di non esportare armi in zone di guerra attive, una politica che è cambiata a causa delle pressioni della NATO su Berlino per inviare armi in Ucraina.
Gli accordi di esportazione di armi arrivano in un momento in cui la Germania si sta affrettando a rafforzare le relazioni con i paesi esportatori di energia, poiché il paese deve affrontare una grave catastrofe economica dopo aver perso l’accesso al carburante russo
Scholz è partito la scorsa settimana per un tour negli stati del Golfo, iniziato in Arabia Saudita il 24 settembre, nel tentativo di diversificare l’approvvigionamento energetico della Germania.
Questa missione è diventata sempre più urgente dopo il sabotaggio che ha preso di mira gli oleodotti Nord Stream del Cremlino questa settimana.
La perdita di carburante russo ha spinto diverse industrie tedesche sull’orlo del collasso e ha anche costretto Berlino a nazionalizzare uno dei principali fornitori di energia della nazione per salvarlo dalla bancarotta.
La guerra del gas è l’antefatto del conflitto ucraìno – Alberto Negri
Alta tensione. Usa e Russia si accusano di avere fatto saltare le pipeline NordStream 1 e 2 C’è un’unica certezza: il cordone ombelicale che legava Mosca all’Europa sul gas ora è un relitto
Sotto l’acqua ribollente di metano nel Baltico c’è uno dei motivi dell’escalation della guerra mossa da Putin all’Ucraina e ora al punto di non ritorno. Gli Usa e la Russia si accusano, più o meno a vicenda.
L’accusa reciproca è di avere fatto saltare le due pipeline del Nord Stream 1 e 2 che collegano la Russia alla Germania. In realtà i due gasdotti (dei quali il secondo non è mai entrato in funzione) erano già da tempo al centro del conflitto.
C’è un’unica certezza. Sia a Est che a Ovest sanno che niente sarà più come prima: ovvero il cordone ombelicale che legava la Russia all’Europa sul gas è spezzato e ora galleggia in alto mare, forse destinato ad affondare per sempre nella ruggine del tempo, tra i flutti, come un relitto.
UN ADDIO ANNUNCIATO. Il 7 febbraio scorso, poco più di due settimane prima dell’invasione dell’Ucraina, il presidente Biden aveva affermato, in presenza del cancelliere Olaf Scholz in visita nella capitale Usa, che la politica energetica tedesca non veniva più decisa a Berlino ma a Washington: «Se la Russia – disse – dovesse invadere, cioè se carri armati e truppe attraverseranno di nuovo il confine dell’Ucraina, il Nord Stream 2 non esisterebbe più. Vi metteremo fine». Immaginate come avrebbe reagito la Casa Bianca se la Germania avesse minacciato di “mettere fine a una grande pipeline americana in caso di invasione dell’Iraq».
Il caso Nord Stream 2 è emblematico di come confliggevano gli interessi americani ed europei. Non si trattava soltanto di una questione economica ma strategica. Voluto fortemente dalla ex cancelliera Angela Merkel, il Nord Stream era la vera leva politica ed economica che tratteneva Putin da azioni dissennate come la guerra in Ucraina (c’era ancota l’accordo di Minsk 2). Molti non lo avevano capito perché attribuivano al gas russo una valenza soltanto economica: aveva invece un enorme valore politico per tenere agganciata Mosca all’Europa.
IL NORD STREAM 2 era stato completato il 6 settembre 2021 per trasportare il gas naturale dai giacimenti russi alla costa tedesca, si estende per 1230 km sotto il Mar Baltico ed è il più lungo gasdotto del mondo. Era stato ideato per potenziare il gas già fornito dalla Russia all’Europa raddoppiando il tracciato del Nord Stream 1 che corre parallelo al nuovo progetto. L’infrastruttura costata 11 miliardi di dollari è di proprietà della russa Gazprom. La società possiede anche il 51% del gasdotto originale Nord Stream.
PERCHÉ PER MOSCA aveva un valore strategico? Prima della costruzione dei due gasdotti Nord Stream, il gas russo passava via terra, attraverso i territori di Ucraina e Bielorussia. Una volta in funzione il Nord Stream 2 avrebbe consentito a Mosca di trasportare verso la Germania ulteriori 55 miliardi in metri cubi di gas naturale all’anno.
Il progetto Nord Stream nasce nel 1997, quando la situazione geopolitica di quel periodo già prevedeva che il gasdotto non attraversasse né i paesi baltici né Polonia, Bielorussia e Ucraina. Nazioni escluse da eventuali diritti di transito e che non avrebbero potuto intervenire sul percorso per sospendere la fornitura di gas all’Europa e mettere sotto pressione negoziale la Russia. La posa della prima conduttura Nord Stream venne completata il 4 maggio 2011 e il 6 settembre dello stesso anno entrava in funzione, inaugurato l’8 novembre dello stesso anno dall’allora presidente russo Medvedev, dal primo ministro francese Fillon e dalla cancelliera Angela Merkel. Viene poi costruita una seconda linea del gasdotto Nord Stream che entra in funzione nell’ottobre 2012. E poco dopo si comincia a passare a un ulteriore potenziamento: nasce così il progetto di Nord Stream 2.
USCITA DI SCENA Angela Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero. La guardiana di Putin e del gas non c’era più e gli americani hanno capito che il presidente russo era diventato più pericoloso ma anche più vulnerabile. Per due mesi gli Usa hanno avverto dell’invasione dell’Ucraina perché sapevano che contestando, come hanno fatto, il Nord Stream 2 si apriva una falla. I gasdotti avevano legato Mosca all’Unione all’europea, la dipendenza dava a Putin un senso di sicurezza, lo strumento per condizionare gli europei e renderli più docili e interessati alle sorti della Russia.
QUANDO MOSCA ha capito che con Scholz il Nord Stream 2 non sarebbe stato al sicuro ha cominciato le minacce all’Ucraina, che in precedenza russi e tedeschi avevano pagato perché non protestasse troppo per la realizzazione del gasdotto, assai temuto dalla Polonia in quanto visto come uno strumento di espansione dell’influenza Putin. Gli americani per altro avevano già messo alle corde anche Merkel, obbligandola ad acquistare quantitativi di gas liquido americano di cui Berlino, allora, non aveva alcun bisogno. E che ora il segretario di stato Usa Blinken ci offre «per passare l’inverno» e che saremo costretti a pagare caro, posto che i produttori americani ne abbiano abbastanza da venderci.
L’Unione europea ha commesso due errori. Il primo ridurre frettolosamente la dipendenza dal gas russo (45%) senza avere soluzioni alternative. L’Algeria di gas, da venderci, oltre a quello che già scorre nel Transmed, ne ha poco, meno ancora la Libia destabilizzata, cui ci lega il Greenstream di Gela. Il secondo errore è stato mettere in crisi economie e governi, per cui sarà più difficile assegnare eventuali risorse all’Ucraina. Come si capisce bene in questa guerra, partita anche dal gas, a perderci saremo in molti.
E a Sigonella che aria tira? – Antonio Mazzeo
Saranno potenziate nella base siciliana di Sigonella le antenne e le apparecchiature che assicurano al Pentagono la trasmissione degli ordini di guerra nucleare. Nei giorni scorsi il Dipartimento dell’Aeronautica militare USA ha firmato un contratto del valore di 177 milioni di dollari circa con la società Collins Aerospace, controllata dal colosso militare industriale Raytheon Technologies, per migliorare l’efficienza e garantire la manutenzione del sistema di comunicazione strategico ad alta frequenza High Frequency Global Communications System (HFGCS). “Le attività del contractor interesseranno le apparecchiature radio di terra, le infrastrutture di rete e i sottosistemi di antenne associati che supportano le comunicazioni militari dei centri di comando e controllo strategici”, spiega l’US Air Force.
I lavori di miglioramento della rete HFGCS saranno completati entro il 30 agosto 2028 e interesseranno le 14 installazioni militari che ne fanno parte in territorio USA e all’estero: la base aerea di Andrews, Maryland; RAF Croughton, Inghilterra; Diego Garcia nell’Oceano Indiano; la Joint Base Elmendorf-Richardson, Alaska; Barrigada e Finegayan, Guam; Lualualei e Wahiawa, isole Hawaii; Lajes, Portogallo; Offutt, Nebraska; Isabella e Salinas, Porto Rico; Yokota, Giappone; la stazione aeronavale (NAS) di Sigonella, Sicilia. In quest’ultima base la stazione terrestre del Global HF System è in funzione perlomeno dal maggio 2001.
L’High Frequency Global Communication System è il sistema di stazioni terrestri per le telecomunicazioni in alta frequenza dell’Aeronautica militare e di altri utenti “autorizzati” del Dipartimento della difesa; assicura inoltre al Comando aereo strategico USA il controllo su tutti i velivoli e le navi da guerra che operano in ogni angolo del pianeta. “L’HFGCS supporta tutta una serie di missioni che includono pure le comunicazioni vocali e dei dati da/per il Presidente degli Stati Uniti e gli altri leader militari e di governo quando essi si trovano in volo”, spiegano i manuali militari. Tutti i siti di ricezione e trasmissione dell’HFGCS sono controllati a distanza dalle basi aeree strategiche di “Andrews” (alle porte di Washington) e “Grand Forks” nel Nord Dakota.
“La missione principale dell’High Frequency Global Communication System supporta i lanci spaziali, le operazioni e le comunicazioni a lungo raggio delle unità navali, dei pattugliatori marittimi e delle forze terrestri”, aggiunge l’US Air Force. “Inoltre opera da centro di comando e controllo primario dei velivoli da trasporto dell’Air Mobility Command e degli aerei cisterna per il rifornimento in volo. Gli altri enti che utilizzano il sistema sono l’Agenzia di comunicazioni della Casa Bianca, l’US Navy High Command Network e le agenzie governative USA”.
Fondamentale il ruolo del sistema HFGCS nelle trasmissioni dei piani e degli ordini di guerra, specie di quella nucleare. “Il sistema globale ad alta frequenza supporta le richieste operative quotidiane della Casa Bianca, dello staff dei Capi di stato Maggiore delle forze armate, dell’US Strategic Command, del Nuclear Command, Control & Communications (NC3) e di tutte le forze aeree militari combattenti”, spiega ancora l’US Air Force. “La rete HFGCS è a servizio delle operazioni di emergenza all’estero, assicurando trasmissioni terrestre e aeree sicure, robuste e fisicamente diverse, fornendo inoltre servizi di informazione tra località operative fisse e ridislocate”…
Putin, la guerra e noi – Sergio Mauri
…E l’Occidente, perché è così interessato a sostenere l’Ucraina? Per questioni economiche (dall’agricoltura alle materie prime, fino all’allargamento del mercato), geopolitiche (rubare spazio ai contendenti), demografiche (per frenare il crollo demografico cui sta andando incontro l’Europa). La guerra, tuttavia, è interessante per stabilire delle gerarchie all’interno del blocco occidentale, con l’Europa indebolita e quindi al carro degli Stati Uniti.
Tuttavia, e qui inizia la parte che a molti piacerà di meno, io non vivo in Russia, non sono cittadino di quel paese, non ho nemmeno le competenze per giudicare cosa succeda veramente in Russia, al di là della manipolazione informativa occidentale. La guerra in Cecenia è ben lungi dall’essere stata chiarita (dove furono coinvolti 400000 soldati russi, non 100000 come in Ucraina, ma tra poco se ne aggiungeranno 300000), quasi nulla sappiamo del ruolo avuto dall’Arabia Saudita; abbiamo prove tangibili riguardo il coinvolgimento di organi dello Stato russo nell’uccisione di giornalisti scomodi per Putin o di coloro che volano dalle finestre (anche se tutti noi abbiamo dei legittimi sospetti). Se ne avete scrivetemene all’indirizzo e-mail. Peraltro, noi che viviamo in un paese come l’Italia ne sappiamo qualcosa di misteri, attentati, strane morti, anche non legate al mondo della politica. Vero? Eppure nessuno ci toglie l’epiteto di “grande democrazia”. Inoltre, non ho le competenze al contrario di molti di voi che attaccano Putin o lo sostengono a spada tratta e senza dubbio alcuno. Come ho detto due frasi fa, non sono russo e devo piuttosto preoccuparmi di ciò che succede a casa mia, se le scelte della mia classe dirigente siano o meno opportune, anche sul piano internazionale e se vada, in caso di degrado sistematico della situazione politica italiana, auspicato un ricambio generale della classe dirigente. Qui, non a Mosca, per quanto mi compete.
Voglio essere ancora più chiaro: se le scelte della mia classe dirigente, sia sul piano interno sia su quello internazionale, portano a una sempre maggiore precarietà, miseria, mancanza di lavoro e imbarbarimento della vita sociale, beh, allora c’è un problema e va denunciato chiaramente. Anche perché, torno a dirlo per i più sordi, non risolvo questi problemi facendo la guerra a Putin. Secondo voi, vincendo noi in Ucraina e umiliando Putin (che giammai si farà umiliare) che cosa ci guadagna il cittadino italiano? Ruberemo il gas russo e lo regaleremo agli italiani? Ruberemo il tesoro di Putin e lo daremo ai nostri poveri? Non credo proprio. Se vince l’occidente e quindi la sua classe dominante, quest’ultima si sentirà più forte e imporrà i suoi diktat all’interno con più risolutezza che mai. I diktat li stiamo già assaporando tutti, sono di tipo economico, ma anche etico, con un sempre più scoperto obbligo a dare ragione al manovratore. Chiunque questi sia.
Che cosa propongo, allora? Propongo che bisogna trattare, senza alcun indugio, con Putin “il mostro, il fascista, il sovietico del KGB, il comunista”, e rendere operativi gli accordi di Minsk II o una loro riedizione che chiameremo in un altro modo. Ma riconoscere l’esistenza e l’alterità delle due ucraine è un passaggio obbligato che non si può nascondere sotto il tappeto, come se nulla fosse.
Note dalla carovana #StopTheWarNow in Ucraina – Gigi Eusebi
Report live da postazione online offerta da un fotografo sui treni che in 15/16 ore salvo imprevisti ci porteranno a Kyiv (Kiev). A chi “reclamava” racconti va precisato che le giornate sono piene di cose da fare ed eventi, che oltre il 30% della nostra carovana è composto da “comunicatori” di ogni genere, di professione o free lance. Su decine di siti, testate online e cartacee escono a getto continuo aggiornamenti, interviste, video, articoli che raccontano il nostro viaggio (dal Manifesto alla Radio Vaticana, la Rai, i tg regionali, passando per gli uffici stampa delle due organizzazioni di coordinamento, Un ponte per e Movimento Nonviolento).
A favore di chi, tra chi legge queste note, non appartiene alla schiera delle conoscenze personali e ripubblica quanto scrivo, oltre a raccomandare cautela per la sicurezza nostra e soprattutto degli interlocutori locali, diventa “affollato” essere originali senza rilanciare quanto già viene…sfornato in tempo reale, come in una pizzeria con forno a legna.
Per dire, una nota testata, riferimento di quello che è rimasto della sinistra, è uscita con un pezzo su cose che dobbiamo ancora fare, come se gli eventi fossero già accaduti!
Provando a sintetizzare gli obiettivi, questa quarta missione di Stopthewar ha un taglio diverso dalle precedenti. Poche (e selezionate) persone, meno “quantità” di aiuti umanitari e, si spera, “qualità” politica nel cercare dopo quasi otto mesi, di porre basi durature per il sostegno a chi si batte da entrambe le parti per la pace, pagandone dure conseguenze in patria. Battersi per una soluzione difensiva ma non guerreggiata del conflitto.
Rispetto al mio primo passaggio di sei mesi fa a inizio conflitto finora si è percepita una netta differenza, almeno in questa zona dell’Ucraina. Nessun allarme sonoro per imbucarsi al volo nei bunker anti bombe, anche se di sera e notte scatta un rigido coprifuoco. Negozi aperti, gente vociante per le strade, pochi militari per le strade, desiderio di “normalità”, almeno negli “oblast” (regioni) che se lo possono permettere. Come a Chernivski, città dell’ovest di 260.000 abitanti (sugli oltre 40 milioni di tutto il paese), dove attualmente risultano rifugiate nei modi più diversi tra le 30.000 e le 50.000 persone.
Il centro di gestione e smistamento di questa situazione è (anche) l’università, nota in tutta Europa anche per essere patrimonio dell’Unesco (vedi foto). Abbiamo incontrato ed effettuato incontri durante tutta la giornata con oltre cento ragazzi, studenti di varie discipline socio-politiche, ai quali è stata proposta la cooperazione possibile nel filone dell’obiezione e della nonviolenza e la possibilità di scambi e formazione post viaggio con realtà estere. Nonostante un’organizzazione locale ancora precaria è sembrato utile e importante seminare proposte per una diversa soluzione del/dei conflitti, unica reale uscita praticabile che non prolunghi in eterno morti, disastri umani, economici, ambientali, rischi di “soluzione finale”.
“Imagining peace during conflict”, è stato il titolo dei seminario
Il secondo filone che tentiamo di realizzare in questa carovana è l’appoggio concreto sotto forma di aiuti umanitari (vestiti, medicine, tende, sacchi a pelo, supporti tecnologici come power bank, etc) ai gruppi pacifisti locali e a splendide persone conosciute all’università, come Serhyi (responsabile delle relazioni con gruppi internazionali). Abbiamo consegnato…brevi manu un po’ di tutto scaricando i mezzi con cui siamo arrivati. Gran parte degli aiuti andranno agli sfollati ora soggiornanti a Chernivski. Ciò che avanza, tra cui aiuti economici, verranno condivisi a Kyiv con i gruppi di obiettori e nonviolenti. Uno di loro, Ruslan, giornalista, doveva essere processato domani per non essersi arruolato, ma pare la cosa sia stata rimandata. Manterremo lo stesso nei prossimi giorni, una simbolica forma di manifestazione pubblica, nelle “maydan” (piazze) della capitale.
SE LE NAVI NON SI FERMANO, LE GUERRE NON SI FERMANO – Carlo Tombola
Anche oggi una nave piena di armi è passata per il porto di Genova.
La nave «Bahri Abha» ha fatto scalo al molo GMT carica di bombe e armamenti pesanti fabbricati negli Stati Uniti e destinati alla Guardia nazionale saudita.
Nei garage vi sono molte file di blindati LAV 700, armored personal carrier 8×8. I sauditi ne hanno acquistati per 13 miliardi di $, garantendo lavoro per quattordici anni alla fabbrica canadese di London, Ontario, del gruppo General Dynamic. Sulla «Abha» sono riconoscibili sia versioni anti-tank che configurazioni FSV (fire support vehicle), mediamente il costo medio di ciascun LAV saudita è 9,3 milioni di $.
Quattro elicotteri UH-60 Balck Hawk nel garage della «Bahri Abha», 28 settembre 2022.
Sut trave di coda degli apparecchi, si legge la scritta Saudi Arabian National Guard.
Sono presenti inoltre almeno quattro elicotteri UH-60 Black Hawk modello ‘M’, ben rizzati e sotto teli protettivi. Non sappiamo se fanno parte del lotto di 17 UH-60M acquistati nel 2018 per 11,4 milioni di $ ciascuno, oppure se sono tra i 25 Black Hawk della Guardia nazionale sottoposti a modifiche, contratto da 100 milioni di $ con Sikorsky che darà lavoro fino a tutto il 2024 alla fabbrica di Statford, Connecticut.
Sul ponte della nave, come al solito, sono sistemati container con esplosivi, alcuni probabilmente diretti verso il porto di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, scalo recentemente aggiunto alle abituali rotte delle “navi della morte” di Bahri.
Con molti artifici legali e politici si tenta di farci percepire questi passaggi come “normali” e di routine, e quindi di non darne notizia all’opinione pubblica affinché possano scivolare nell’ombra.
Invece ognuno di questi passaggi ha una grande rilevanza, e fa bene il Collettivo portuale genovese a ribadirlo ogni volta, a ogni passaggio. Ci ricorda che il nostro paese vuole contribuire a una guerra lontana, che apparentemente non ci riguarda, in Yemen (dov’è lo Yemen? che capitale, quali città ha? quanti milioni di abitanti? che lingua parlano? di cosa vivono?). Eppure il nostro paese partecipa a questa guerra attivamente, per decisione delle autorità dello Stato e di un governo sostenuto da rappresentanti politici eletti, vuole anch’esso vendere armi a paesi – come il regno saudita e gli emirati del Golfo – governati da sovrani assoluti e retti con leggi barbariche, in cui si prevede la pena di morte (anche mediante crocifissione) per “reati” come l’omosessualità, la stregoneria, l’apostasia, e in cui si pratica l’omicidio politico per far tacere i dissidenti. A riprova di questa pertinace volontà italiana, si vedano gli imponenti schieramenti di forze dell’ordine, che ad ogni passaggio presidiano il porto di Genova per “sventare” ogni possibile protesta antimilitarista e nonviolenta.
Sottolineiamo qui il fatto che il passaggio delle “navi della morte” Bahri non crea lavoro nel nostro paese per nessuna azienda esportatrice di armamenti o di apparati per la difesa. Quelle navi oggi trasportano esclusivamente sistemi militari e munizioni fabbricati negli Stati Uniti e in Canada, e raramente munizioni caricate nel porto spagnolo di Sagunto.
Collaborando attivamente alle guerre in corso – dallo Yemen alla Palestina, dalla Libia all’Ucraina – il nostro paese non “difende” valori, non “protegge” popolazioni civili, non “sostiene” oppositori. Molto più prosaicamente, favorisce gli interessi economici di aziende gigantesche protette da governi potentissimi, a cui nulla si può rifiutare, anzi di cui si implora l’amicizia anche quando si capisce che minano la nostra economia e distruggono l’ambiente in cui viviamo.
Naturalmente qualcuno prospera a danno di molti. Infatti – come riferiamo nella nostra pagina Facebook – l’Agenzia marittima Delta, che gestisce i passaggi delle navi Bahri da Genova, ha chiuso il bilancio dell’esercizio 2021 con un utile netto del 32,1%, un risultato straordinario anche rispetto all’ottimo 2020 (26,8%), e ha distribuito un dividendo di 2,5 milioni di €, cifra che sfiora quella dello stesso fatturato 2021.
Questo è niente rispetto alle industrie della difesa USA. Nel maggio 2019 – quando i portuali genovesi diedero l’esempio fermando una nave saudita – le azioni della Lockheed Martin (proprietaria di Sikorsky Aircraft) valevano 338 $ alla Borsa di New York, quelle di General Dynamics (che produce i LAV 700) 130 $, mentre quelle di National Shipping Company of Saudi Arabia (poi divenuta Bahri) quotate alla Borsa di Riyadh valevano 20 ryal . Oggi rispettivamente valgono 404 $, 219 $ e 27 ryal, cioè con aumenti rispettivi del 19,5, 68,5 e 35%.
Negli ultimi tre trimestri General Dynamic ha accumulato utili netti superiori a 3 miliardi di $ al trimestre (8,4-8,6% del fatturato), Lockheed Martin ha oscillato tra 4,7 e 6,3 miliardi di $ (7,3-9,5%).
L’ossimoro della vittoria nucleare – Pasquale Pugliese
Che ne dice di una bella partita a scacchi?
[Joshua, Wargames. Giochi di guerra, 1983]
Dall’alto dei 101 anni Edgar Morin ha reso sempre più essenziali e incisive le sue riflessioni, come quelle raccolte nell’ultimo libro tradotto anche in italiano poche settimane fa dal titolo eloquente Svegliamoci! (Mimesis, 2022), nel quale riassume i molteplici risvegli dal sonnambulismo necessari per la resistenza contro le “gigantesche forze della barbarie”, tra le quali quelle della minaccia atomica:
Dopo le ecatombi di Hiroshima e Nagasaki, la minaccia si è ingrandita e amplificata: nove nazioni, alcune delle quali tra loro ostili, si sono dotate di armi nucleari e nel complesso dispongono di un arsenale nucleare di più di tredicimila bombe. Altrettante spade di Damocle che pendono sopra otto miliardi di teste. Da quel momento il progresso scientifico ha rivelato la sua terrificante ambiguità. La scienza più avanzata è diventata produttrice di morte per ogni civiltà. La razionalità scientifica ha mostrato il suo volto irrazionale. Il progresso della potenza umana è sfociato nell’impotenza umana di controllare la propria forza. Ma tutto questo è come anestetizzato dal sonnambulismo generale della nostra vita quotidiana.
Hiroshima e Nagasaki rappresentano uno spartiacque definitivo nella storia dell’umanità, dopo il quale – come hanno già ampiamente spiegato, tra gli altri, Bertrand Russell e Albert Einsten nel loro celebre Manifesto del 1955 e Günther Anders in gran parte della sua produzione filosofica (qui le Tesi sull’età atomica) – non è più possibile alcuna retorica della “vittoria” associata alle guerre, perché ormai la guerra stessa è nemica dell’umanità. Nonostante la toponomastica delle nostre città sia ancora tristemente ridondante di piazze e vie dedicate a quella “Vittoria” che fa riferimento alla “inutile strage” (come fu definita da papa Benedetto XV) della prima guerra mondiale, contribuendo a colonizzare militarmente l’immaginario, mitico e magico, dell’illusione che i conflitti si possano “risolvere” ancora con le guerre – secondo l’obsoleto paradigma si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra) – oggi più che mai invece sappiamo che “l’unica mossa vincente è non giocare”. È quanto dice il calcolatore elettronico Joshua, nel film cult Wargames. Giochi di guerrra del regista John Badham, di fronte all’imminente “guerra termonucleare totale”: non giocare più quello “strano gioco” della guerra in cui non ci possono essere vincitori e cambiare gioco (facendo probabilmente riferimento alla Teoria dei giochi di John von Neumann, Oskar Morgerstern e John Nash). Come del resto afferma tra i Principi fondamentali – solennemente e responsabilmente – la ormai ripetutamente ripudiata Costituzione della Repubblica italiana. Poiché con l’avvento delle armi nucleari nelle guerre non possono più esserci vincitori, la vittoria è un ossimoro apocalittico: l’esito non può che essere la “mutua distruzione assicurata”. Mad si diceva un tempo, l’acronimo significa “folle” in lingua inglese.
Eppure – come avvertono, inascoltate, le organizzazioni per la pace fin dall’inizio di questa nuova fase di guerra in Ucraina, avviata con l’invasione russa dello scorso febbraio – l’escalation nucleare, sempre incombente in questa guerra che vede fronteggiarsi sul territorio ucraino le due massime potenze nucleari, si sta spaventosamente materializzando in questi giorni con dichiarazioni sempre più minacciose, da entrambe le parti in conflitto. Dalla (di lì a poco) nuova premier britannica Liz Truss che il 22 agosto, alla precisa domanda sull’eventualità di doversi trovare a impartire l’“ordine di scatenare armi nucleari [che] significherebbe l’annientamento globale”, ha risposto “sono pronta a farlo”, a Joe Biden che il 17 settembre metteva le mani avanti dicendo che ad un eventuale uso russo dell’arma atomica la risposta Usa “sarebbe consequenziale”, allo stesso Vladimir Putin che il 21 settembre (Giornata internazionale della pace…) ha minacciato l’uso di “tutti i mezzi militari a disposizione per difendere il Paese e il popolo russi”. I metaforici cento secondi che ci “distanziavano” (si fa per dire) dalla mezzanotte nucleare lo scorso gennaio, secondo le previsioni del Bollettino degli scienziati atomici, stanno adesso scorrendo velocemente nell’”Orologio dell’apocalisse”. E nessuno, nascondendosi dietro l’illusione che siamo difronte a dei bluff, può continuare a rincorrere follemente l’ossimoro della vittoria, alimentando l’escalation bellica, anziché percorrere la via ostinata e lungimirante della mediazione a oltranza tra le parti per costruire la pace…
Se non fossi un essere umano – Alessandro Ghebreigziabiher
Se non fossi un essere umano.
Non un alieno, anche se spesso mi ci sento, o mi ci hanno fatto sentire gli altri, ma solo una diversa vita sulla terra.
Se non fossi un essere umano, ma al contempo in grado di riflettere sulle azioni della nostra specie, ovvero le malefatte ai danni di tutte le altre creature terrestri, in questi giorni mi ritroverei a osservare con terrore la fuoriuscita di metano dalla coppia di gasdotti Nord Stream. Il primo e il secondo, in una sorta di uno due con cui un pugile idiota insiste nel sfracellarsi la faccia da solo.
Se non appartenessi alla nostra specie, la prima cosa che troverei assurda è la diatriba tra gli umani intorno a chi sia il colpevole di ciò che è accaduto.
Nondimeno, verrei a sapere che Anders Puck Nielsen, ricercatore del Center for Maritime Operations presso il Royal Danish Defense College, così come il consigliere presidenziale ucraino Mykhaylo Podolyak, ritengono che a guadagnarci sia più di tutti la Russia.
Via di seguito, noterei che l’Agenzia di stampa Asia Times afferma che saranno gli Stati baltici, la Finlandia, l’Ucraina e gli Stati Uniti a trarne maggiori vantaggi. Mentre la repubblicana Fox News punta il dito senza sorprese sul Presidente democratico Biden.
Anche l’ex ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski, membro di diversi think tank della NATO, accusa gli Stati Uniti del danneggiamento.
Al contrario, Mateusz Morawiecki, il primo ministro polacco, considera i russi come unici responsabili.
Non può che dissentire da quest’ultima affermazione Dmitry Polyanskiy, membro della delegazione russa all’ONU, il quale rigira le accuse sugli USA.
Di parere opposto è chi sostiene che l’attentato terroristico sia una sorta di ricatto da parte di Putin e i suoi.
Concordano alcuni media europei, i quali sono inclini a credere che l’obiettivo della Russia sia quello di destabilizzare il vecchio continente.
Nello stesso tempo, ipoteticamente sarebbero proprio gli USA a poterne approfittare, diventando di fatto fornitori preferenziali di gas naturale proprio dei Paesi europei.
Per le medesime ragioni, appare altrettanto vantaggiosa la posizione del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti, anche se non hanno le stesse potenzialità degli Stati Uniti.
Ora, probabilmente, in quanto non umano mi sarei stufato molto prima di codeste rimbalzanti accuse reciproche.
Ciò che mi interesserebbe maggiormente è che le stime del gas disperso vanno da 150 milioni a 500 milioni di metri cubi. Che le perdite equivarrebbero a emissioni che oscillano tra 7,5 milioni a circa 14 milioni di tonnellate di CO2.
Resterei basito di fronte a chi tra gli umani osa addirittura minimizzare il disastro portando come argomento che durante l’anno di gas metano ne rilasciamo molto di più…
Presterei invece molta attenzione a chi ci avverte che in un arco di tempo di 20 anni, il metano ha più di 80 volte la potenza di riscaldamento del pianeta dell’anidride carbonica e circa 30 volte la sua potenza in 100 anni. Come lo scienziato David McCabe, della Clean Air Task Force, il quale ha dichiarato che non è ancora possibile valutare l’entità della perdita. Ciò è dovuto alle incertezze su fattori quali la temperatura del gas nel gasdotto, la velocità con cui perde e quanto gas verrebbe assorbito dai microbi nell’acqua prima di raggiungere la superficie. Ma poiché entrambi i gasdotti Nord Stream contenevano principalmente metano, il potenziale per un evento di emissione massiccio e altamente dannoso è molto preoccupante.
Non so voi, ma se non fossi un essere umano, già ero preoccupato prima, figuriamoci adesso. Anzi, sarei stanco di angosciami per colpa di questi bipedi imbecilli.
Diciamo che sarei piuttosto incazzato, ecco.
Lo so, è davvero brutto come finale, ma non riesco a concludere con niente che non suoni ipocrita o auto censurante, tranne che se non fossi un essere umano invierei una lettera nello spazio, una sorta di messaggio nella bottiglia in versione cosmica, implorando qualche meteorite di ripetere l’operazione chirurgica compiuta in passato con i dinosauri…
noguerra-nosanzioni-nonpaghiamo – disarmisti esigenti
Il collegamento tra il NON PAGHIAMO (sarebbe meglio dire: NON SIAMO IN GUERRA, NON PAGHIAMO) come autoriduzione delle bollette e l’obiettivo disarmista sta nel ruolo dominante della guerra nella crisi energetica ed economica; ne consegue l’obiettivo della revoca delle sanzioni energetiche come rifiuto della guerra economica che si affianca al confronto militare sul campo ucraino, ai combattimenti in fase di escalation (con una possibile deriva nucleare da non sottovalutare, oggi più probabile dopo le difficoltà militari dell’esercito russo e dopo l’annessione alla Russia delle 4 province ucraine).
Da nonviolenti (senza trattino) quali siamo il rifiuto si accompagna alla proposta costruttiva di usare la conversione energetica, nel rispetto degli accordi di Parigi, come ponte di dialogo e di pace.
Inviteremmo gli ecopacifisti a dismettere un atteggiamento che è probabilmente viziato da un pregiudizio sulla questione sanzioni (sarebbero uno strumento nonviolento solo perché non si spara!), per adottare invece la posizione dell’appello che vede come primi firmatari, oltre al sottoscritto, Antonia Sani – Luigi Mosca – Moni Ovadia – Alex Zanotelli – Angelica Romano – Patrizia Sterpetti – Luciano Benini – Antonino Drago – Federica Fratini – Antonella Nappi.
Appello che trovi al link:
https://www.petizioni.com/nonsiamoinguerra-nosanzioniApre in una nuova finestra
L’obiettivo più appropriato per una tale campagna è la revoca delle sanzioni perché sono proprio le aspettative di carenza dell’offerta causate dalla guerra il fattore principale e decisivo per la speculazione sui titoli derivati che contribuisce a determinare i prezzi. Il costo di estrazione è infatti immutato, mentre aumentano i costi di trasporto e di distribuzione, anche in seguito ai sabotaggi degli impianti e ai diversi incanalamenti dei flussi sempre dovuti alla guerra.
La famosa Borsa di Amsterdam ha una importanza secondaria sia sul piano qualitativo che sul piano quantitativo perché ad esempio, i ministri UE, che non si sono messi d’accordo sul “price cap” comune del gas (ognuno se ne va per conto proprio, in testa la Germania che ha deciso di stanziare aiuti per 200 miliardi e di attuarlo in proprio), però sganceranno le quotazioni di questa materia prima dal TTF (Title Transfer Facility), appunto di Amsterdam.
Il nostro titolare del MITE Cingolani ha annunciato – possiamo leggerlo su IL SOLE 24 ORE del 1 ottobre, che, per fissare il prezzo, si sta lavorando ad una media su grandi indicatori di riferimento in grado di riflettere meglio la realtà degli scambi energetici.
Questo non significa abolire la speculazione ma contenerla ed evitare un su e giù, una volatilità eccessiva.
Per abolire del tutto la speculazione sui titoli finanziari occorrerebbe partire dal concetto e dalla pratica dell’ENERGIA BENE COMUNE, quindi da un mercato energetico in cui gli operatori non fossero attori privati guidati dalla logica del profitto.
Beni comuni, sostanzialmente i 4 elementi: terra, acqua, aria, fuoco (= l’energia).
Da distinguere dai beni pubblici e da qualsiasi altro tipo di risorsa collettiva.
Le grandi imprese energetiche dovrebbero essere compagnie pubbliche con l’obiettivo prioritario di garantire un servizio ai cittadini.
Sappiamo benissimo che, per quanto riguarda l’Italia sicuramente, i principali operatori sono privati solo per modo di dire.
La privatizzazione è un gioco al mascheramento perché lo Stato italiano resta sostanzialmente il primo azionista e sono i governi in carica che nominano gli amministratori di tali società (ENI, ENEL, SNAM, TERNA…).
La privatizzazione formale rende più debole la pianificazione e il controllo pubblico delle politiche energetiche e permette che il management sia assimilato al settore privato per mentalità ed emolumenti (saltano i tetti legali agli stipendi, se sono un AD di una SPA posso legittimamente guadagnare molto di più e agire per massimizzare i miei guadagni personali).
Il potere politico si avvantaggia della situazione perché viene rafforzato il potere clientelare delle oligarchie e si creano giri politico-affaristici (in questo settore, come del resto in quello delle armi, fioccano le maxi-tangenti).
L’aumento dei prezzi registrato sotto la pandemia era per la diminuzione della domanda e strategia conseguente dell’offerta: un Bin Salman nell’OPEC sapeva che bisognava tagliare la produzione per fronteggiare i consumi inferiori della gente sottoposta ai vari lock-down.
La limitazione dell’offerta era, nel 2021, anche da parte della Russia, proprio mentre diversi Paesi in Asia, specialmente la Cina, ma anche l’India, stavano (e stanno) facendo incetta di gas senza badare a spese per sostenere la ripresa economica nella previsione della prossima fine della fase acuta della pandemia.
Ora c’è invece una speculazione che si innesta sulle previsioni di una riduzione dell’offerta, della scarsità del bene.
Mi pare che da una scarsità più che altro temuta ora si stia passando ad una carenza reale, anche questa causata dalla guerra.
Non bisogna, a questo proposito, sottovalutare l’impatto economico e soprattutto ambientale dei sabotaggi di Nord Stream 1 e 2.
Gli 80-100 milioni di metano finora emessi nell’atmosfera non sono una tantum, ma un grave contributo all’aggravamento dell’effetto serra, quindi un vulnus all’ecosistema globale di carattere permanente.
Un vulnus in cui tutti siamo ferocemente aggrediti dalla guerra, perché la nostra specie, parte dell’unico sistema vivente, non può sopravvivere pregiudicando la sua base naturale: il “Creato”, per i quali i cristiani devono sentire una particolare responsabilità di custodia, affidata dal Creatore stesso.
Si comprende l’esigenza dei lettori che si lavori il più possibile con numeri e tabelle ufficiali.
Cosa che mi riprometto di fare, preparando quanto prima un dossier che deve accompagnare NON SIAMO IN GUERRA – NON PAGHIAMO.
Aggiorneremo la mostra sull’energia che già abbiamo esposto in piazza il 26 settembre, Petrov Day, a Milano, in piazzale Stazione di Porta Genova.
Come anticipo per questo lavoro propongo per l’intanto una tabella di Confindustria da cui si evince che c’è una turbolenza dei prezzi anteguerra (settembre e gennaio 2021), ma sicuramente l’invasione di Putin segna un salto…
La crisi vista dal punto di vista della cittadinanza che subisce aumenti delle bollette comincia ad assumere toni drammatici e iniziano le manifestazioni di protesta. A Napoli e a Bologna dei comitati hanno inscenato dei falò simbolici.
C’è stata una manifestazione a Torino di 200 persone davanti alla sede Iren. Allo sportello sono stati riconsegnati i moduli di reclamo e di autosospensione dal pagamento delle bollette di teleriscaldamento. Da lunedì sono previste altre manifestazioni. L’’Usb ha annunciato sit-in tutto il paese in occasione della «giornata internazionale di lotta alla crisi e al carovita. ll sindacato depositerà alla procura di Roma una denuncia «contro tutte le condotte poste in essere
dalle società che commerciano gas, energia elettrica e prodotti petroliferi ai danni della collettività».
Ma la soluzione al problema specifico è a portata di mano e ce la dà la brutta, sporca e cattiva Ungheria: parliamo con Putin (lo può fare il nuovo governo Meloni) e semplicemente ribadiamo che si comprerà da GAZPROM la stessa quantità di gas allo stesso prezzo di prima…
Poi c’è l’eventuale aggiunta ecopacifista che faremmo se fossimo a capo di un governo rosso-verde formato da rappresentanti concreti (e non da pragmatici opportunisti come in Germania):
Siccome, contro la cultura del nemico, consideriamo l’energia “terreno di cooperazione tra i popoli”, ti proponiamo di continuare a venderci la medesima quantità di petrolio e gas allo stesso prezzo che facevi prima. Poiché siamo intenzionati a rispettare gli accordi di Parigi sul clima che tutto il mondo, compresa la tua Russia, ha firmato, è ovvio che, perseguendo l’obiettivo della decarbonizzazione, usciremo dai combustibili fossili e quindi ne consumeremo sempre di meno. I soldi che dovremmo risparmiare per questo minor consumo tendente allo zero li mettiamo in un fondo per aiutare voi ed insieme gli ucraini a decarbonizzare, come avete deciso nelle varie COP che discutono come attuare Parigi. Quello che ti proponiamo è, per l’intanto su questo aspetto, di lavorare insieme (insieme anche agli ucraini) per fare la pace con la Natura, il compito principale della intera Umanità oggi, per salvare l’ecosistema terrestre che sta bruciando. Il lavoro comune per la decarbonizzazione contribuirà allo sviluppo della pace tra gli uomini, di una comunità mondiale che pratichi la fratellanza/sorellanza: impariamo a percorrere il cammino della nonviolenza laddove le attività militari devono diventare tabù”.
(Dall’appello NON SIAMO IN GUERRA, NO SANZIONI)
Rischio stallo – Enrico Tomaselli
…In questi mesi, dovrebbe anche maturare la capacità produttiva dell’industria bellica americana ed europea, mettendola in grado di alimentare la fornace ucraina. Resta da vedere se – ed eventualmente in che misura – si cominceranno a fornire a Kyev armamenti strategici, come artiglieria a lungo raggio e carri armati moderni. Tenuto anche conto che ormai gli arsenali di materiale ex-sovietico si sono esauriti.
Se difficilmente vedremo cambiamenti sostanziali sul terreno nei prossimi mesi, col ritorno della bella stagione si fronteggeranno due eserciti potenziati rispetto alla situazione attuale. Ovviamente, in termini generali, non c’è possibilità per l’Ucraina di sopravanzare l’esercito russo, per quanto possa essere sostenuta dalla NATO. Il punto è piuttosto che la Russia si è, in un certo senso, bruciata i ponti alle spalle; a questo punto, infatti, la guerra non può concludersi senza la completa liberazione dei quattro oblast sud-orientali, essendo ormai fuori discussione che territori entrati formalmente a far parte della Federazione possano domani essere oggetto di trattativa. Il che rende assai possibile, per gli ucraini, mantenere aperta la questione. Basta infatti che siano in grado di lanciare offensive anche limitate, ma tali da impedire la stabilizzazione del fronte lungo la linea di confine, od anche solo di tenere sotto costante minaccia i territori liberati, colpendoli con artiglieria e missili come già fanno adesso.
Di là dalla propaganda, infatti, per la NATO – e quindi per gli ucraini – l’obiettivo principale è alimentare il conflitto, mantenerlo aperto e costringere la Russia ad impegnarvisi a lungo. Ipoteticamente, anche per vent’anni, com’è stato per la guerra USA in Afghanistan.
All’opposto, anche se sicuramente la Russia è in grado di reggere il conflitto per anni, durante i quali il logoramento militare della NATO (almeno come mezzi) sarà uguale o superiore a quello subito, è abbastanza evidente che suo interesse crescente è invece concludere la guerra nel più breve tempo possibile. E questo non può avvenire che soverchiando la capacità di resistenza ucraina, ed anticipando l’efficacia del sostegno fornitogli dalla NATO.
Quanto più perdurerà questa riluttanza ad usare mezzi più decisi (colpire duramente le infrastrutture ucraine su tutto il territorio, ad esempio), tanto più rischia di dover impiegare mezzi maggiori e più potenti per ottenere il risultato. Insomma, sul breve-medio termine Mosca ha ancora tutte le possibilità di conseguire una vittoria, restando in un ambito non particolarmente a rischio; più i tempi si allungano, più una risoluzione richiederà invece una maggiore escalation. È questo fondamentalmente il nodo che deve essere sciolto a Mosca. A meno di non contemplare la sconfitta – anche solo parziale.
L’attacco ai gasdotti Nord Stream: il bersaglio è l’Europa – Gianandrea Gaiani
…Benché politica e media occidentali da sette mesi cerchino di convincerci che i russi “si bombardano da soli”, colpendo prima un loro campo di prigionia, poi una centrale nucleare sotto il loro controllo e ora i costosissimi gasdotti Nord Stream, è difficile comprendere che interesse avrebbero avuto a compiere questo raid subacqueo.
Certo mettere fuori uso i Nord Stream in modo così eclatante può contribuire a seminare il terrore per la crisi energetica in Europa e soprattutto a Berlino, dove sarebbe interessante conoscere le valutazioni dei servizi d’intelligence e della Marina circa quanto avvenuto sotto la superficie del Mar Baltico.
Tra le conseguenze di questo attacco ai gasdotti vi sarà con ogni probabilità un ulteriore indebolimento e frammentazione interna dell’Unione Europea, dove ogni solidarietà (se mai c’è stata) verrà meno e ogni nazione cercherà di sopravvivere all’inverno come meglio potrà, anche tagliando forniture di energia contrattualizzate ai vicini (come sta accadendo all’Italia).
Un’Europa impoverita e frantumata, totalmente prona agli Stati Uniti e alla mercé di Varsavia e Kiev che potranno ricattarci bloccando il residuo gas russo che transita nei gasdotti ucraini, non è negli interessi nostri e neppure di Mosca.
Uno scenario non improbabile poiché la distruzione dei gasdotti del Baltico, nelle attuali condizioni, condanna oggi la Germania e l’Europa alla recessione e al baratro (industriale, economico e sociale) togliendo di mezzo ogni ipotesi di tornare in tempi ragionevoli a rifornirci di gas russo a buon mercato.
Anche se nessuno, neppure la Germania che per le sue scelte economiche ha dovuto fare i conti con l’ostilità di tre amministrazioni statunitensi (Obama, Trump e Biden), sembra avere il coraggio di esternare dubbi o chiedere chiarimenti agli americani per le esplosioni nei gasdotti, è inevitabile che Washington con i suoi alleati britannici, ucraini e polacchi sia in cima alla lista dei sospettati.
Non solo perché le sue massime autorità avevano minacciato di neutralizzare quei gasdotti o perché navi ed elicotteri statunitensi incrociavano nei giorni scorsi proprio in quell’area del Mar Baltico, ma soprattutto perché impedire la saldatura tra la potenza industriale tedesca/europea e la potenza energetica russa è un obiettivo strategico delineato e perseguito da Washington da almeno dieci anni.
Il fatto che l’Europa sia con tutta evidenza il “bersaglio grosso” di questa guerra ma al tempo stesso nessuno osi inserire gli USA e alcuni alleati nella lista dei sospettati, la dice lunga circa la sovranità e l’autorevolezza che è in grado di esprimere anche di fronte a un disastro di questa portata.
Lo stesso immobilismo che l’Europa mostrò nel 2014 di fronte alle evidenti ingerenze statunitensi e di altri alleati nei fatti del Maidan da cui presero il via le vicende che hanno portato all’attuale conflitto.
All’epoca come abbiamo ricordato, la signora Nuland esortò a mandare l’Europa a “farsi fottere” e ora che siamo a un passo dall’essere davvero “fottuti” continuiamo a mostrarci proni e servili nei confronti di una potenza di cui dovremmo essere in teoria alleati.
Circa i gasdotti esplosi sarebbe forse il caso di chiedere qualche chiarimento anche a Varsavia dopo che Radek Sikorski, eurodeputato presidente della delegazione parlamentare Europa-USA ed ex ministro degli Esteri, ha scritto su Twitter “Grazie Stati Uniti” sull’immagine della fuga di gas sulla superficie del Mar Baltico.
“Ora 20 miliardi di dollari di ferraglia giacciono in fondo al mare, un altro costo per la Russia della sua decisione criminale di invadere l’Ucraina. Qualcuno ha fatto un’operazione di manutenzione speciale”.
Anche se poi ha cancellato il tweet, neppure il filo-americano Sikorski sembra quindi essere convinto che i russi abbiano fatto esplodere 21 miliardi di gas e gasdotti di loro proprietà.
Il sabotaggio Nord Stream e i veri spettri all’orizzonte dell’Europa – Davide Malacaria
“I dati di Flightradar24 hanno mostrato che alcuni elicotteri militari statunitensi hanno sorvolato per ore abitualmente e in diverse occasioni il sito dell’incidente degli oleodotti Nord Stream vicino all’isola di Bornholm all’inizio di settembre”. Così inizia un articolo pubblicato su al Jazeera sul sabotaggio dei gasdotti.
Elicotteri americani intorno all’isola di Bornholm
“All’inizio di questo mese – prosegue la nota – un elicottero Sikorsky MH-60R Seahawk della Marina degli Stati Uniti ha passato ore a girovagare sulla posizione dei gasdotti danneggiati nel Mar Baltico vicino a Bornholm, e per diversi giorni di seguito, in particolare il 1, 2 e 3 settembre”.
Flightradar24 ha mostrato anche il sorvolo della zona da parte di “un aereo non identificato”, ma “il codice ICAO a 24 bit dell’aereo compreso nella descrizione consente di stabilire il modello, che è il Sikorsky MH-60R Seahawk delle forze armate statunitensi”. L’aereo in questione è partito da Danzica.
Infine, “Il 10 e il 19 settembre elicotteri statunitensi hanno sorvolato altri gasdotti Nord Stream e altri sono rimasti sul luogo dell’incidente per ore sia nella notte tra il 22 e il 23 che in quella tra il 24 e il 25 settembre”. Ovviamente non potevano essere velivoli russi, dal momento che si tratta di uno spazio aereo Nato, strettamente sorvegliato.
Disinformazione e psicosi collettiva
Ma è inutile ribadire l’ovvio, cioè che il gasdotto non è stato sabotato da Mosca, ma da altri attori geopolitici facilmente identificabili (ne abbiamo scritto in note pregresse). Resta la colossale disinformazione sulla vicenda, in parte dovuta alla subordinazione agli inviolabili vincoli transatlantici, in parte alla macchina propagandistica Nato, che usa allo scopo giornali, giornalisti ed esperti vari.
Per comprendere come funziona tale meccanismo è struttivo leggere quanto scrive John laughland in un articolo dal titolo “Gli americani ce l’hanno fatta” sul sito del Ron Paul Institute: “Nel suo straordinario libro, La psicologia del totalitarismo, lo psicologo fiammingo Mathias Desmet spiega come la psicosi collettiva possa far perdere alle persone le facoltà critiche”.
“In proposito, cita un famoso esperimento in cui si può far dire a una persona che la linea di un diagramma ha la stessa lunghezza di un’altra, quando in realtà è più lunga, se sette o otto attori hanno finto di arrivare alla stessa conclusione prima di lui”.
Tali “argomentazioni si applicano all’attuale psicosi collettiva sulla Russia. Per anni e decenni, siamo stati alimentati da storie dell’orrore riguardanti la Russia, ovviamente aumentate di intensità dopo l’invasione dell’Ucraina. Ora siamo arrivati a un punto in cui intere sezioni dei media, e i rispettivi governi, affermano di credere a cose semplicemente impossibili. L’ultimo esempio è l’apparente [ma ormai acclarato ndr] sabotaggio dei gasdotti Nord Stream”…
Attentato al gasdotto: quando c’è un delitto la prima domanda dovrebbe essere cui prodest? – Angelo Baracca
Il chiarissimo articolo di Giorgio Ferrari del 29 settembre non ha certo bisogno di ulteriori supporti, a meno che non arrivino smentite convincenti o prove contrarie inoppugnabili, che per ora non si vedono.
In Italia abbiamo una lunghissima esperienza di attentati o delitti di complessa e incerta attribuzione, per i quale spesso le indagini si sono indirizzate verso responsabili fittizi, ci sono stati depistaggi che a volte hanno ritardato per anni di arrivare alla verità, o in certi casi lo hanno realmente impedito. Queste vicende dovrebbero averci insegnato che di solito la prima domanda da porsi per la ricerca di un responsabile – o di un mandante – dovrebbe essere: cui prodest?
Ritengo che sia significativo questo articolo, di Olivier Milman, pubblicato da The Guardian quattro giorni prima dell’attentato: “How the gas industry capitalized on the Ukraine war to change Biden policy“. Questa questione, a dire il vero, risuona fino dall’inizio dell’attacco di Putin all’Ucraina, pure con prove dirette, anche se è stata occultata dai media mainstream. Vista l’immediata successione di questo articolo con l’attentato, e l’autorevolezza della fonte, credo valga la pena soffermarsi sulle considerazioni che venivano fatte. Mi sembra significativo riportare integralmente i passi salienti dell’articolo, di per sé eloquenti.
<<I carri armati e i veicoli corazzati russi avevano appena iniziato ad arrivare in Ucraina prima che l’industria dei combustibili fossili negli Stati Uniti entrasse in azione. Una lettera è stata prontamente inviata alla Casa Bianca, sollecitando un’immediata escalation della produzione di gas e delle esportazioni verso l’Europa prima della prevista crisi energetica.
La lettera, datata 25 febbraio, appena un giorno dopo che le forze di Vladimir Putin avevano lanciato il loro assalto all’Ucraina, segnalava la “congiuntura pericolosa” del momento prima di passare a un elenco di richieste: più trivellazioni sui terreni pubblici statunitensi; la rapida approvazione dei proposti terminali di esportazione del gas; e pressioni sulla Federal Energy Regulatory Commission, un’agenzia indipendente, per dare il via libera ai gasdotti in attesa. …
Sei mesi dopo la lettera, l’invasione russa si è fermata e in alcuni punti si è ritirata, ma l’industria del gas statunitense ha raggiunto quasi tutti i suoi obiettivi iniziali. In poche settimane, l’amministrazione di Joe Biden ha adottato le principali richieste dell’industria del gas come politica. Hanno aperto la strada a nuovi gasdotti e strutture di esportazione, hanno istituito una nuova task force per aumentare le esportazioni di gas in Europa e approvato un finanziamento di 300 milioni di dollari per aiutare a costruire infrastrutture del gas nel continente.>>
Da più parti è stato osservato che con l’inizio della guerra in Ucraina tutti i programmi, veri o fittizi, di transizione green sono saltati, e quelli di greenwashing sono stati rediretti: non solo l’addio al gas è stato rimandato per ora sine die, ma si registra addirittura un ripresa del carbone. Le pressioni statunitensi perché l’Europa rinunci al gas russo e perché inasprisca le sanzioni a Mosca si ritorcono sull’Unione Europea, sulla quale si sta abbattendo una pesantissima recessione, nonché una vera carneficina sociale, che si peserà soprattutto – come stupirsi? – sugli strati più poveri delle popolazioni.
L’articolo del Guardian conferma la coincidenza di questa retromarcia con la lettera inviata alla Casa Bianca il 25 febbraio:
<<La retorica dell’amministrazione Biden, che si definiva profondamente impegnata nell’affrontare la crisi climatica1, era “cambiata sostanzialmente” in appena una settimana… La creazione da parte di Biden della task force per l’esportazione del gas è stata una “risposta diretta alla proposta avanzata da LNG Allies” [nome operativo della US LNG Association], si vantava il gruppo a marzo.
Ma l’abbraccio del gas naturale liquefatto – o GNL, gas che è stato raffreddato a -260F (-160°C), trasformandolo in un liquido che può essere spedito all’estero – come atto di sfida a Putin ha sgomento gli attivisti per il clima che avvertono che lo farà bloccare decenni di emissioni di riscaldamento del pianeta e spingere il mondo più vicino alla catastrofe climatica.>>
<<“L’aggressione della Russia in Ucraina, l’aumento dei prezzi dell’energia e gli impatti devastanti dei cambiamenti climatici dovrebbero essere il più grande stimolo ancora per porre fine alla dipendenza del mondo dai combustibili fossili”, ha affermato Zorka Milin [consulente senior di Global Witness]. “Invece, un’industria già ricca sta cercando di cogliere l’attimo e costringere il mondo a raddoppiare gli stessi errori che ci hanno portato a questa situazione.“>>
Indubbiamente gli attentati ai gasdotti sono un fatto nuovo, ma mi sembra difficile pensare che la Russia avesse qualche interesse a danneggiarli. Vero è che tante accuse ritorte verso la Russia in questi mesi sono suonate come inverosimili autolesionismi, come per i bombardamenti alla centrale nucleare di Zaporizhzhia per i quali la Russia si sarebbe paradossalmente … “sparata addosso” (rinvio a Giorgio Ferrari, 09.08.2022: https://www.pressenza.com/it/2022/08/la-guerra-sporca-che-si-combatte-intorno-a-zaporizhzhia/). Ma, appunto, una guida abbastanza solida per cercare il responsabile di un’azione rimane chiedersi in primo luogo cui prodest.
Qualche dato sul danno ambientale
Forse molti lettori non hanno le idee chiare sull’impatto ambientale: riporto alcune notizie reperite provvisoriamente in internet.
Intanto deve essere chiaro che dai gasdotti incidentati esce metano, un gas che contribuisce circa 20 volte più dell’anidride carbonica all’effetto serra.
Greenpeace valuta: “Secondo nostri calcoli preliminari, il potenziale impatto climatico della fuoriuscita di metano da #Nordstream 1+2 potrebbe essere di 30 milioni di t di CO2eq equivalnti in un periodo di 20 anni (GWP20). Pari alle emissioni annuali di 20 milioni di automobili nell’UE”
Secondo Giorgia Pantanida, su QualEnergia (“Dai gasdotti Nord Stream una delle peggiori perdite di metano di sempre“): “I due gasdotti Nord Stream coinvolti nell’esplosione non erano operativi, ma entrambi contenevano gas naturale pressurizzato, principalmente metano, un potente gas serra e una delle principali cause di riscaldamento globale. Secondo le prime stime approssimative degli studiosi che si sono espressi in queste ore, riportate da varie testate internazionali, come il Guardian, e basate sul volume di gas contenuto in uno dei gasdotti, a seguito dei rilasci potrebbero entrare in atmosfera dalle 100.000 alle 350.000 tonnellate di metano.”
Dal Fatto Quotidano di oggi (30 settembre): “Nelle due condutture si stima ci fossero 778 milioni di m3 di metano, circa 400.000 tonnellate: un gasdotto, anche fermo, deve comunque essere pieno e in pressione. Le quattro falle dovrebbero svuotare completamente le condutture entro domenica. A quel punto, a poche miglia marine dalla Danimarca, in cinque giorni sarà uscito tanto gas serra quanto il 32% delle emissioni annuali di tutto il Paese.”
* * *
Ma credo sia opportuna anche qualche riflessione generale sul Gas Naturale Liquefatto (GNL). Ovviamente si sprecano i panegirici di siti non privi di interessi sulle meraviglie del GNL: ma sentiamo qualche fonte indipendente.
Scriveva Fedinando Cotugno su Valori: “Gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti: come non fare la transizione ecologica. Il gas naturale liquefatto in arrivo dagli Stati Uniti ci affrancherà da quello russo, ma renderà irraggiungibili gli obiettivi climatici”. “Il Gnl ha un impatto ambientale e climatico peggiore di quello russo. Secondo il centro studi francese Carbone 4, comporta emissioni equivalenti di CO2 pari a due volte e mezzo quello che arriva via gasdotto. Per il gas liquefatto il processo che va dal giacimento alla centrale è d’altra parte estremamente lungo e articolato. E ad ogni passaggio vengono aggiunti gas ad effetto serra nell’atmosfera.
Scrivevano Christina Swanson e Amanda Levin in un rapporto del dicembre 2020 del Natural Resources Defense Council (“Sailing to Nowhere: Liquefied Natural Gas is not an Effectice Climate Strategy“,), sintetizzando dalle conclusioni: “L’esportazione all’estero di gas prodotto negli Stati Uniti non è una strategia efficace a lungo termine per combattere il cambiamento climatico, né per gli Stati Uniti, né per i Paesi importatori, né per il pianeta. … Il GNL prodotto negli Stati Uniti semplicemente non ha benefici per il clima. … Per l’Europa e il Giappone, le emissioni di gas serra prodotte dalla combustione di gas per l’elettricità sono dal 41% al 151% superiori agli obiettivi di emissione per la generazione di elettricità nel 2030, necessari per raggiungere gli obiettivi internazionali di sviluppo sostenibile e limitare il riscaldamento globale. … Le perdite di metano e i rilasci intenzionali riducono – e possono addirittura eliminare – i benefici climatici derivanti dall’uso del GNL esportato in sostituzione del carbone”.
Bene, questo è il gentile omaggio che gli USA hanno fatto all’Europa (e ovviamente alle compagnie del gas): e gli attentai ai gasdotto potrebbero essere un contentino.
- 1. The Guardian: https://www.theguardian.com/us-news/2022/aug/16/biden-signs-inflation-reduction-act-landmark-healthcare-climate-bill.