La Politica dei numeretti

La Politica dei numeretti
Ovverossia: delusione Grillo, disastro 5 stelle,

di Mauro Antonio Miglieruolo

Un doveroso consiglio che è anche una esortazione. Non ne do’ in genere, ma sul tema mi sento obbligato a farlo dall’importanza politica che il tema (e non sembra) sottintende: mai dare retta, credere nell’utilità, nella piena contezza di coloro che subordinano i risultati politici al possesso di determinati requisiti numerari.

Cioè l’essere in possesso o meno di opportune maggioranze (relative o addirittura assolute). In parlamento o nel paese. Maggioranze ottenute spesso e volentieri mediante trucchi elettorali (alias, leggi truffa), alle quali da destra e da “sinistra” ci si aggrappa con mal calcolato e smisurato cinismo (buon ultimo, il Signor Grillo). Costoro o non sono in buona fede oppure non hanno cognizione di ciò che vuol dire attività politica (oppure ancora, le due cose insieme).

Mi sento spinto a scriverci un paio di paginette sopra perché noto un fantasma aggirarsi per le esauste contrade italiane. Non un fantasma qualsiasi, invenzione libresca o leggenda popolare. Un fantasma vero, autentico. Quello della politica dei numeretti (o numeroni, se così vi piace). L’idea tutta berlusconiana (non inventata da lui, ma da Lui trasformata in iperbole autoassolutoria: quella di non aver avuto da solo il 51% dei voti: con molto meno i democristiani hanno fatto molto di più: molti più danni) sulla necessità di godere della maggioranza assoluta, nonché di poteri assoluti (superpoteri quasi dittatoriali) per poter governare.
Niente alleanza, gli fa eco il buon vecchio Grillo, in procinto di mutare in grillo parlante, in questo modo alle prossime elezioni avremo la “maggioranza”. Il che sottintende che con “solo” il 25% ben poco si può ottenere (e ben poco in effetti si ottiene se ci si limita, come fa il Movimento 5 stelle, a alzare la voce, inveire, affanculare e bombardare chiunque osi alzare il ditino per obiettare; se non assume l’iniziativa di organizzare le masse per lottare, valorizzando in questo modo un altrimenti poco utile 25%).
Argomento questo della maggioranza (quando non si tratti di modificare il sistema politico economico) sintomatico di un primitivismo politico e un disorientamento alle soglie del nullismo, che annuncia un possibile fallimento epocale.
Quel che questi signori prestati alla politica e i tanti altri improvvisatisi “rappresentanti del popolo” ignorano è che la politica solo in via subordinata è questione di numeri, essendo anzitutto questione di strategia, di idee, di fantasia e coraggiosa iniziativa. Essendo anzitutto questione dei ceti sociali che si rappresenta (o ci si propone di rappresentare); il che comporta non parlare “a nome di”, ma di assumere le iniziative opportune per difendere gli intereressi materiali di quegli stessi ceti.
Il PCI del dopoguerra, organizzazione piena di limiti e contraddizioni, proprio perché aveva ben chiaro in mente chi e come rappresentare (la classe operaia, braccianti, contadini e lavoratori dipendenti in genere, oltre alla piccola borghesia) con un misero 17% (oggi sarebbe giudicato tale) è riuscito a difendere la democrazia italiana dai ritorni autoritari della Democrazia Cristiana, alleata con i neo fascisti (governo Tambroni). Ma quel PCI era erede di un tessuto di valori e militanti che poi, tra la fine degli anni Sessanta e tutti i Settanta, sono riusciti a condizionare pesantemente le scelte dei vari governi democristiani e degli ambigui alleati socialisti, in modo tale da costruire l’ossatura di quello Stato Sociale italiano che fin quasi al declino del secolo ha difeso le condizioni materiali di esistenza delle masse; nonché la dignità stessa dei cittadini in quanto soggetti di diritti.
Messo in soffitta determinati valori e determinate pratiche politiche, il PCI (poi DS e ora PD) pur raddoppiando la propria forza elettorale, pur partecipando all’attività di governo, non soltanto non ha più saputo e potuto espandere il ruolo dei lavoratori, ma non è più stato in grado di difenderne le conquiste.
Cosicché allora c’è da chiedersi come possa una volta al governo il Movimento 5 stelle, anche se in possesso di numeri ancora più corposi, svolgere un ruolo analogo senza aver fatto propria (come non ha fatto propria) la rappresentatività piena degli interessi dei ceti popolari; un movimento che nel suo insieme affida un ruolo risolutivo alla pur importante – ma non decisiva – richiesta di onestà personale dei rappresentanti e nell’uso accorto del denaro dei contribuenti; un movimento (allora) non consapevole che per introdurre radicali novità nel paese senza provocare gravi contraccolpi occorre molto più che una buona rappresentanza parlamentare. Occorre la presenza consistente di organismi di massa di sostegno, di un programma di trasformazione economico sociale molto avanzato e condiviso dalla larghe masse, condizione essenziale per neutralizzare, minimo, i tentativi di sabotaggio della burocrazia statale, dei media e degli organi di repressione. Non basta emanare leggi, bisogna avere la capacità di farle rispettare. Capacità che non può certo essere affidata ai carabinieri, alla finanza o alla polizia di stato.
Non sono dunque i numeri (non da soli o non principalmente) a determinare la funzione politica di una determinata proposta di governo della società, ma la credibilità acquisita, la decisione e la coerenza con cui vengono perseguiti gli obiettivi dei quali ci si fornisce. Lo è il grado di indipendenza dalla volontà del Capitale che la proposta complessiva riesce a stabilire; e nello stesso tempo il grado di adesione agli interessi immediati e storici della classa antagonista al Capitale, cioè la Classe Operaia. Allora, e solo allora, quando si è ben decisi, quando si è fuori dal quadro di compatibilità con le esigenze di accumulazione del capitale, non solo è possibile agli operai migliorare le loro condizioni di esistenza, ma è dato all’intera società di beneficiarne (impiegati, studenti, pensionati, artigiani, commercianti, tecnici, professionisti, intellettuali in genere, piccoli imprenditori).

Nota: se gli obiettivi della borghesia siano o meno compatibili con il programma dei lavoratori, se l’assetto sociale è in grado di soddisfarne le esigenze non è compito dei partiti dei lavoratori preoccuparsene o dimostrarlo, è compito specifico di quella stessa borghesia che rivendica il ruolo di comando pur non essendo più ormai in grado di assicurare la continuità degli attuali livelli di sussistenza.

Lavorare per ottenere la “maggioranza” allora è giusto a patto che l’obiettivo sia parte (in subordine) di una più larga strategia, intesa appunto a unificare il popolo in quanto maggioranza; la quale partendo dall’essere tale numericamente, cioè un semplice, volatile legame di opinione che prende corpo in un mero, transitorio atto elettorale; supera questo limite costituendosi come maggioranza politica, come unità di tutto il popolo contro il capitale. Se i numeri sono importanti, più importante è organizzare le masse perché da se stesse si liberino, da se stesse attuino i propri disegni e li impongano all’avversario. Chi invece ne parla senza promuovere questa possibilità, o comunque occuparsi prioritariamente del come migliorarne (oggi, non domani, non dopo questa o quella elezione e indipendentemente da qualsiasi elezione) le condizioni di esistenza, sta solo vendendo fumo.
Vendendo fumo a se stesso, oltre che agli italiani di buon volontà, se in buona fede (Grillo). Vendendo fumo a tutti, se per innata vocazione a manipolare e ingannare propria ai pregiudicati.
Diffidate da costoro.
Anche se simpatici, fuggiteli con orrore.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *