1945, fuga dall’inferno
di Božidar Stanišić (*)
Jasenovac (Foto Luka Zanoni)
Nella giornata della memoria, il racconto di un ebreo bosniaco sopravvissuto al campo di concentramento ustascia di Jasenovac, la Auschwitz dei Balcani.
Nell’autunno del 1985, nella sua casa di via Njegoševa, a Belgrado, ascoltai la testimonianza di Ado Kabiljo (1915-2002), amico di vecchia data di mio padre. Ado era uno dei dieci ebrei di Visoko sopravvissuti allo sterminio nel periodo del governo dello Stato Indipendente Croato, Ndh.
La sua testimonianza fu pubblicata sul quotidiano «Oslobodjenje» di Sarajevo. Ricordo che quasi tacevo mentre lui parlava – la prima volta per un giornale – della sua vita in quella fabbrica della morte.
Di volta in volta si stringevano e allentavano le rughe della sua fronte alta e, come se volessero disfare un gomitolo, l’uno attorno l’altro, i pollici delle sue mani giravano in continuazione. Ado non disse subito che era l’unico sopravvissuto della sua numerosa famiglia. Nessuno di loro – la moglie Sumbula, il figlioletto Eliša, la madre Laura, le sorelle Erna e Sara, i fratelli Elijas, Moric e Salomon, un cognato, una nuora, una nipote – nessuno, tranne lui, era riuscito a sopravvivere.
Il primo nome che pronunciò fu quello di suo padre, Elišan Kabiljo.
«La sua bakalnica [bottega di alimentari e articoli casalinghi] a Visoko, che allora aveva 6-7 mila abitanti, era piccola, ma lui era orgoglioso del suo lavoro con cui riusciva a mantenere la famiglia. Era un uomo stimato anche dai musulmani, dai serbi e dai croati. Fra le due guerre la comunità ebraica contava 120, 130 ebrei, in maggioranza sefarditi, tutti piccoli artigiani: lattonieri, calzolai, sarti, barbieri, pellicciai… Gli askenaziti in Bosnia erano arrivati più tardi, “con l’Austria”, come si diceva. Erano medici, farmacisti, avvocati. Mia madre era di origine askenazita e, con mio padre, quando non voleva che noi bambini sapessimo certe cose, parlava in tedesco. La nostra comunità viveva bene a Visoko, senza problemi. Ne abbiamo avuti solo per la fatica di portare avanti la bottega dopo la morte di nostro padre, nel 1934. Anche in Bosnia arrivavano notizie sui problemi che gli ebrei avevano in Germania, poi in Austria, ma eravamo increduli: forse loro avevano fatto qualcosa di sbagliato nei confronti dello Stato?».
«Come soldato del disfatto esercito jugoslavo, nell’aprile del 1941 mi trovai imprigionato dai tedeschi a Doboj. Per fortuna, alcuni serbi e musulmani mi raccomandarono di presentarmi alle autorità tedesche come musulmano, e così feci. Mi lasciarono tornare a Visoko dove, nella nostra bottega, trovai un povjerenik (amministratore), nominato dagli ustascia. Ogni mattina, con la striscia gialla obbligatoria, dovevamo presentarci alle autorità locali, poi andare al lavoro. Io, che avevo studiato a Sarajevo per fare il commerciante, pulivo le vie dal quartiere Kraljevac a Sebilj, l’antico centro di Visoko. Come in altre città, anche là ogni ustascia poteva uccidere, depredare o maltrattare ogni ebreo. Dal momento che però a Visoko non ce n’erano molti, è accaduto che nessuno di noi venisse ucciso. Come mi sentivo? Miseramente. Ciascuno di noi teneva pronto uno zaino, si aspettava il peggio. E il peggio è arrivato in agosto, per 10 ebrei e 30 serbi. Furono deportati a Gospić. Fra loro c’era il mio fratello maggiore, Elijas».
«Nel mese di ottobre tutta la parte maschile della mia famiglia si trovò nel contingente di ebrei maschi maggiorenni da deportare. Ci ammassarono in vagoni per il bestiame, il treno partì verso nord. Pensavamo che la destinazione fosse la Germania. Le nostre speranze, spente, si riaccesero per le voci di un attacco dei partigiani alla stazione di Nemila, vicino a Zenica. Ma non accadde nulla. La prima fermata fu Slavonski Brod, poi proseguimmo verso Zagabria. Ma il treno si fermò nella pianura. Gli ustascia ci buttarono fuori. Incominciò il primo giorno dell’inferno.
Hitler e Pavelić
Eravamo giovani e, nonostante il fango e la pioggia, riuscimmo a correre per il Lonjsko polje (Campo di Lonja), come ordinarono i nostri persecutori. Ma i vecchi, gli ammalati, i più deboli furono uccisi con le mazze. Arrivammo a un lager in mezzo ai campi. Allora erano solo tre baracche. All’entrata c’era scritto: Red, Rad, Stega (Ordine, Lavoro, Disciplina). Ci ammassarono dentro le baracche, credo 200 in ciascuna. Dentro? Insopportabile. Allora i serbi erano la maggioranza di noi prigionieri. I croati oppositori al regime finivano nelle celle di rigore. I rom, questo lo seppi solo più tardi, venivano ammazzati subito. Con la mazza, il mezzo preferito dei nostri persecutori. Così risparmiavano munizioni.
Spesso, oltre a darci botte con i bastoni di ferro, facevano un gioco. Lo chiamavano “contare”. Tu stai in fila e senti, a esempio, “sesto” oppure “ottavo”. Un ustascia conta, si avvicina a te. E tu? Quel pezzo di ferro toccherà il tuo petto, il resto lo farà la mazza. Se non sei sesto, né ottavo, né quinto, incominci a ridurti, sembri un topo. Poi, i sopravvissuti al gioco andavano al lavoro forzato… Gli uni verso il fiume Sava, dove rafforzavano gli argini, gli altri – più fortunati – verso i boschi a tagliare alberi. Ho visto molti morire sugli argini, finiti dentro quella terra. Le autorità del lager, a quanto sapevamo, non tenevano liste né prove dell’esistenza dei prigionieri. Quanto era sopportabile tutto ciò? Alcuni, di notte, uscivano fuori dalle baracche sapendo che fine li aspettava. Preferivano la morte. Dopo un mese ci trasferirono al campo Jasenovac III, detto Ciglana (fabbrica di mattoni). Uno di miei fratelli venne mandato al Quarto, Kožara (conceria)».
Stara Gradiška – Campo V, gennaio 1942–agosto 1944
«Là, dove nel mese di gennaio trasferirono tutti i maschi che conoscevano un mestiere o erano capaci per i lavori utili, c’era un altro lager, più sopportabile di Jasenovac III. Il cibo era migliore, le stanze – non riscaldate – ma meno piene di gente. Certo, allora servivamo a qualcosa. Io facevo il guardiano dei porci. Ci riscaldava la speranza che almeno non erano state deportate le nostre donne e i bambini. Però, nel febbraio, sentimmo che nella Kula, un lager per donne e bambini che aveva una pessima fama, era arrivata la parte femminile della nostra famiglia con i bambini. Allora al lager arrivò anche il mio fratello più giovane, Salomon, soprannominato Monćo. Gli diedero il compito di cocchiere. Si sentivano voci su di un crematorio a Jasenovac e che da Kula ogni giorno venivano portati là donne e bambini con una marica (camioncino per i prigionieri).
Una mattina, Monćo e io sentimmo che era toccato ai nostri cari di finire nel crematorio. Piangemmo. Il giorno dopo – poiché a volte potevo entrare in Kula – incontrai mia madre. Mi disse che a quei criminali era mancato del carbone. Lei era cosciente di tutto. Fu il nostro ultimo incontro. Non vedemmo più nessuno di loro.
Nel 1943 uccisero uno dei miei fratelli per vendicarsi della fuga di tre prigionieri. Allora mi trasferirono a Jasenovac. Lavoravo sui battenti fluviali, serviva molta ghiaia, anche i tronchi. Era un periodo di continui arrivi dei treni di morte. Ho visto morire tante persone che non entravano neppure nei lager. Sempre più spesso arrivavano i giovani comunisti, di tutte le nazionalità. Non sapevo neppure quanto forte fosse la resistenza contro i nazisti e i collaborazionisti locali…».
«Alcune volte, con un gruppo di prigionieri, facevamo progetti per fuggire. Un giorno di agosto del 1944, pioveva a dirotto, uno degli ustascia chiese a me, ad Aco Pražić (uno di Batajnica, vicino a Belgrado) e a Uzeir, un musulmano di cui ricordo solo il nome, di portarlo in barca da Jablanac, un villaggio serbo deserto da tempo, a Orahovo, un villaggio sulla sponda bosniaca della Sava. Gli ustascia andavano spesso là, na rakiju, a bere la grappa. In un momento, strizzando gli occhi, Aco che remava e io, che stavo al timone, come se volessimo scambiarci i posti aggredimmo l’ustascia e gli ficcammo il cappello in bocca. Lo smorzammo e buttammo nel fiume in piena. E prima? Immaginare di uccidere un ustascia? A noi sembravano divinità! In un momento mi trovai con il suo fucile in mano e, perplesso, mi buttai insieme ai compagni nel fiume.
Non passammo inosservati, spararono contro di noi dall’altra sponda, ma non ci colpirono. Corremmo subito verso i pendii della montagna Prosara. Ci fermammo all’ultima casa di un villaggio davanti a cui un vecchio lavorava un piatto di legno. Da quella casa uscì una ragazza partigiana… Ci portò alla loro unità più vicina e ci interrogarono a lungo, pensando che fossimo provocatori. Loro erano increduli per la nostra fuga, anche noi lo eravamo… Restammo con loro, ci armarono con i mitra».
«I miei compagni? Buona gente, generosa, solidale! Aco cadde nella battaglia per Dvor na Uni, Uzeir in quella per Dubica. Solo io, di noi tre, vidi il giorno della libertà. Unico della mia intera famiglia di Visoko. Dopo la guerra restai nell’esercito fino alla pensione, con il grado di colonnello, e mi risposai. Quando nacque mio figlio, gli diedi il nome Eliša…
Quando tornai la prima volta a Visoko?».
Il vecchio colonnello tacque. Non ebbe voglia di parlare del Monumento, il Fiore di Bogdanović, né della distruzione totale del complesso del lager.
P.S.: Il mio articolo su Ado Kabiljo venne letto dai parenti del suo compagno caduto, Aco, del cui destino non sapevano nulla. Chiamarono Ado per ospitarlo a casa loro a Zemun.
(*) Ripreso da Osservatorio Balcani del 27 gennaio 2014.