1999: vivere a Bologna
di Gianluca Ricciato (*)
Credo che questo sia il primo racconto che ho scritto nella mia vita, dico credo perché quella era un’epoca confusionaria e scrivevo tante cose disordinate, ma la sensazione è che la serata qui vissuta sia stata la prima ad ispirarmi una scrittura con un’intenzione narrativa. Nonostante oggi lo editerei da capo a piedi staccandolo dalla pura autobiografia, è giusto che rimanga tale e quale lo scrisse quel ragazzetto nella foto a fine post. Inutile che nego adesso l’occasione dell’attualità che me lo ha fatto tirare fuori, ma con le pagliacciate del regime tecnocratico odierno ha poco a che fare. Sono però felice che anche con il doppio degli anni che ho oggi rispetto ad allora, siano rimaste immutate le mie idee libertarie che mi hanno sempre allontanato dai burattini del potere, a prescindere dal loro posizionamento nella farsa del sistema. Che poi, in un sistema tecnocratico, è sempre un posizionamento di destra. Così come lo è qualunque limitazione della libertà delle persone, oggi come ieri, è sempre quello il problema. Le scuse per farlo cambiano in base alle epoche.
1999
La veneziana brown della mia camera è chiusa per difendermi dai 40 gradi che attanagliano me e una città semideserta, chiusa al traffico nel suo ombelico come informava poco fa il tg3 regionale, ancora rincoglionita da un terremoto notturno che aveva in sé qualcosa di finale, ma anche di iniziale.
Com’ero rincoglionito io ieri sera prima di addormentarmi, quando cercavo vanamente qualche pensiero, qualche appiglio spaziotemporale che non riguardasse le otto ore di terremoto sonoro che avevo appena trascorso. Una ricerca inutile, qualche ricordo importante, qualche legame con il mondo circostante e la mia vita bolognese, qualche varco tra le ombre luminose inserite nella mia mente dai decibel elettrochimici, dall’alcool, dalle sirene, da migliaia di volti e di gambe nude, dal sudore, dall’hascisch.
Ma ecco che nel collasso mattutino inizia a schiarirsi qualcosa, almeno inizio a capire che mi trovo nel letto di Giovanni già partito per la terra natìa, che in camera c’è Natale nel suo letto anch’egli in fase dormiveglia collassata, in salotto Miky e Valeria ignari di tutto, in cucina Angelo e la sua colazione.
E le icone frammentate nella mia testa iniziano a riordinarsi grazie all’informazione mediatica quotidiana, che parla di un rave a Bologna nella serata di ieri, partito dal Livello 57 nel pomeriggio, concentratosi in Piazza Maggiore fino alle 3, trascinatosi verso la fine attraverso un’attonita quanto blindata Via Indipendenza.
A parte l’evidente paradosso nato in noi menti bacate dalla politica, che si possa svolgere un rave nell’anima di una città con un sindaco di destra, dopo 57 anni di sindaci di sinistra, ieri sera mi veniva spontaneo snobbare l’informazione che mi dava telefonicamente Anita riguardo all’esistenza di questo rave. Nonostante ciò, ci siamo dati appuntamento verso le undici nella solita Piazza Feltrinelli. Ancora toccato emotivamente per la storica vittoria dell’Italia di basket all’europeo di Francia ’99, mi sono vestito e sono uscito di casa con la Vespa, sollecitando il sonno alienato di Peter.
Arrivato a metà di via Indipendenza, i ligi vigili bolognesi invitano me e il resto del traffico a svoltare per gli storici cunicoli del centro impedendo il solito arrivo trionfale sul culo del Nettuno. Ma in qualche modo arrivo sotto le Due Torri dove trovo, a parte Anita e Cecilia, una schiera armata e blindata di forze dell’ordine a presidio delle vie topiche della città.
“C’è il rave in Piazza Maggiore” dicono le ragazze
“Ma allora è vero” rispondo io. Perplessità. Nell’attesa della balotta al completo allora pensiamo con un po’ di incoscienza di comprare il fumo, e imbocchiamo via Zamboni dove incontro il pusher, socialmente posto all’imbocco, che mi fa la storia con vicendevole sollecitudine a venti metri di distanza da una gazzella parcheggiata sotto la Garisenda e il rispettivo carabiniere nascosto da una colonna.
Risolte anche le abituali pubbliche relazioni nel luogo d’incontro, ci incamminiamo e il rave di Piazza Maggiore irrompe sulle nostre viste e soprattutto nelle nostre orecchie con una tale alternativa complessità che ci avvolge ma ancora non ci coinvolge, così optiamo per le scalinate di San Petronio e lì rollo la prima canna davanti a una schiera di poliziotti immobili e celatamente divertiti. L’atmosfera tra noi risente ancora di un certo grado di perplessità, ma quando arrivano Natale e Peter arriva anche l’alcool sotto forma di lattine calde di Heineken, distribuite da ognuno dei venti o più carri/consolles che sconvolgono con i loro suoni il territorio circostante.
Il turbine è iniziato, e prima di esserne risucchiati totalmente discutiamo ancora, ma con anima diversa, di vacanze imminenti, gastronomia pugliese, campeggi in pineta e feste da spiaggia che questa atmosfera in qualche modo ci richiama. La trance si sta impossessando di noi senza che ce ne accorgiamo. Le parole si perdono tra le scosse ritmate e sempre diverse della megapista improvvisata, e anche noi ci perdiamo nella varie minipiste tra danze, incontri e discorsi volanti, fino ad arrivare casualmente di fronte a un carro che offre a prezzi popolari pezzi di torta contro la fame chimica.
L’orologio di Piazza Maggiore indica forse le tre, ma non è sicuro, e il gruppo inizia a ridursi di numero a causa degli ultimi impegni studenteschi. Rimaniamo perciò vagabondi solo in tre e ci imbattiamo nella minipista reggae, la più polleggiata di tutte, che accompagna la nostra canna più giamaicana della serata.
Ma è un momento di stasi, seduti sugli scalini davanti alla chiesa, e l’occhio mi cade su una ragazzina carinissima che ricambia per un po’ e dopo convince i suoi amici a prendere del fumo anche loro. Così, per evitare che dalla stasi passi a dimenarmi sul pavimento come morso da ragno velenoso, decidiamo di allontanarci dal casino. Da Via Rizzoli la musica si sente ancora forte, ma quando entriamo nello Spizzico la tecno lascia il posto magicamente a una versione live di Vita spericolata, che evoca il concerto di Vasco al Dall’Ara di qualche giorno prima e ci sta tutta col momento che stiamo vivendo.
Parliamo poco tra di noi, al contrario della solita logorrea che prende soprattutto Natale e Peter, i miei due compagni rimasti. Sento il bisogno di un attimo di riflessione, oppure ho voglia solo di silenzio come contraddizione stridente a cui rendere conto, e propongo la fuga. Attraversata una Piazza Santo Stefano più presidiata che mai, scaliamo allora senza farci troppo caso il pendìo verso San Giovanni in Monte, luogo di silenzio per eccellenza ma anche di contraddizioni architettoniche, dove ad una chiesa del Cinquecento si affianca un ex carcere, ora dipartimento di Storia, e si oppone una costruzione in stile rigorosamente fascista, con balconata lunga al primo piano, il tutto in un’atmosfera molto medievale.
Attraverso il Medioevo delle stradine e dei portici ritorniamo nella piazza centrale, quella del rave, dove i macchinari della pulizia urbana stanno già eliminando le scorie della festa e tutto sembrerebbe finito, se non fosse che la musica è ancora presente e ancora forte, e si sta allontanando attraverso Via Indipendenza.
A questo punto è d’obbligo seguirla, o meglio risalirla, perché solo ora lo spettacolo appare in tutta la sua forza scenica, uno scia kilometrica multicolor e ballerina, un corteo interminabile di guerrieri danzanti e di dj che sbattono i loro decibel inspiegabilmente contro le finestre della Bologna per bene sotto gli occhi increduli di centinaia di poliziotti lucidi, in una notte d’estate che sembra non finire mai e in cui tutto sembra possibile, ogni logica rovesciata. Folle. Come in un film di Fellini.
Ai bordi del corteo, sorridente, riconosco George Lapassade, il sociologo francese venuto spesso in Salento a studiare la trance, l’ossessione, i ritmi ancestrali della mia terra d’origine. E questa strana visione dà un senso nuovo, appassionante e stravagante, alle sensazioni che stanno attraversando i miei timpani in questo momento.
Chissà se siamo solo un sogno o se esistiamo davvero.
Se esiste un popolo del ’99 ancestrale e futurista pronto al nuovo viaggio. Se sarà libero o resterà ancorato alle sue ossessioni. Se riuscirà a ritrovare quello che ha perso e a inventare quello che ha dimenticato.
I sensi.
Il ritmo.
La libertà.
Domenica 4 luglio 1999
(*) Dal blog dell’autore