Desiderius Papp, o della proto-Fantascienza – 2
di Mauro Antonio Miglieruolo
(da post delle ore 7, ivi)
Marte:
1
Nel cuore della città c’è più silenzio che in un piccolo villaggio terrestre. Nessun veicolo strepita, con le sue ruote, sul suolo di pietra. Lo straniero si sente avvolto da una strana quiete anche nelle piazze più animate, dove si vedono solo passanti ma non carri. Perché le arterie più frequentate della grande città di Marte passano sotto il suolo; colà, in spaziosi tunnel, corrono con grandissima velocità migliaia di carrozze elettriche, immerse in un mare di abbagliante luce artificiale. L’elettricità di¬spensa in ogni luogo forza e luce. Perfino dai più cospicui impianti industriali il vapore è da lungo tempo bandito. Sebbene, nella sottile atmosfera di Marte, l’acqua bolla a soli 43 centigradi, da molti anni s’è rinunziato ad impiegarla nelle locomotive ed in altre macchine. La corrente elettrica ha assunto interamente la funzione del vapor acqueo.
Colà non fumano comignoli di fabbriche, nessun vapore appesta la chiara aria delle grandi città. A dispetto della febbrile operosità con cui nella città di Marte rombano senza posa le macchine, l’aria rimane d’un’ideale limpidità, e nemmeno il più potente telescopio terrestre può scorgere la minima nuvoletta di vapore nel cielo della grande città marziana.
L’onnipotente energia elettrica viene guidata, senza fili, ai luoghi dove se ne ha bisogno. Perciò, sul pianeta vi sono solo poche centrali generatrici di forza. Deve trovarsi, nella città di Ascreo, uno di questi magazzini di energia, che manda senza fili la forza, a migliaia di chilometri di distanza, ad altre città meno popolose, e fornisce di energia le stesse macchine polari che presso i campi di ghiaccio pompano l’acqua nei canali, nelle vene del corpo planetario.
Lasciamo ora la città ed appressiamoci alle piantagioni che in vasta cintura attorniano il mare di alte case. Quella calma, quel silenzio che ci avvolsero perfino nelle più animate piazze della città, sono qui ancor più profondi. Invano il nostro sguardo cerca animali, camminanti o striscianti o volanti, come quelli che popolano i monti e le valli e perfino i deserti della Terra. Da lungo tempo, simili animali non esistono più in Marte; furono estirpati o morirono, e non ne rimase altro che qualche meschino e insignificante residuo. Perirono nell’aspra lotta per l’esistenza, vittime della scarsità d’acqua del loro mondo. Perché l’esistenza di animali è inseparabile dalla copiosa presenza di vegetali. I carnivori non fanno altro che nutrirsi di altri animali, che dal canto loro si nutrono di vegetali. Gli animali erano senza pietà condannati a morte in un pianeta dove l’alimento vegetale è così scarso che gli stessi signori di quel mondo, i Marziani, debbono consumarlo con severa parsimonia.
Quando cominciò in Marte la grande moria delle foreste e delle piante in generale, e il nutrimento divenne sempre più parco, dovettero svolgersi scene indescrivibili fra gli animali condannati alla morte. S’iniziò la funesta lotta per la vita, la disperata battaglia per il cibo, nel decorso della quale gli animali stimolati dalla fame si divoravano a vicenda. I pochi miserabili resti furono distrutti dagli abitanti di Marte per la necessità di proteggere le loro piantagioni. In una grande sala del Museo della città di Ascreo si trova il cadavere impagliato dell’ultimo animale che, in tempi remotissimi, il Marziano aveva addomesticato e aggiogato ad un suo veicolo — accanto all’ultima arrugginita locomotiva a vapore che migliaia d’anni fa solcò sbuffando le campagne di Marte.
2
Abbiamo già da qualche tempo varcata la zona delle piantagioni. A grande lontananza splende rossiccia la superficie di uno sterminato deserto. Innumerevoli sono le sfumature di questa meravigliosa steppa rossiccia, sulla quale spira un’aura gelida. Comincia qui il regno della morte che minaccia di soffocare tutto quel mondo? Nel mezzo delle steppe ferrigne, umili piante, simili alle alghe terrestri, conducono la loro modesta esistenza. Ma non contengono clorofilla, sibbene un’altra materia colorante, l’enigmatico « rosso delle foglie » che permette di vincere la siccità e il freddo.
Colà, nessun aeroplano solca l’aria: sebbene la pesantezza dei corpi sia tre volte minore che sulla Terra, l’aria sottile di Marte non può portare velivoli. Quando si vogliono superare grandi distanze, per esempio fra le città di Ascreo e di Olimpia, si percorrono in pochi minuti, mediante razzi spinti dalla forza chimica dei gas di scappamento e volanti in altissimi strati dell’aria.
Sul rosso astro non vi sono barriere separanti le une dalle altre le grandi città e opponenti ostacoli artificiali allo scambio dei beni. In epoche remotissime, quando sulla Terra l’uomo di Neandertal imparava a fabbricare il fuoco e conduceva disperate lotte contro i suoi simili e gli animali abitanti il suo mondo, caddero in Marte i confini tra paese e paese. La grande lotta per l’esistenza, nel mezzo di una Natura ostile, adunò e fuse insieme tutte le forze, creando gli « Stati Uniti del pianeta Marte ». La rete di canali è prova eloquente di questa federazione dei popoli Marziani. Questa rete non è limitata in nessun punto, non si interrompe a nessun confine, abbraccia l’intiero globo di Marte.
Solo un intiero mondo, animato da una sola volontà, può procedere ad un’opera così grande. Esso realizzò un’unione di popoli che fu imposta dalla necessità e diretta dalla ragione.
LA VITA NELLA FORESTA DI VENERE
Lo sguardo che trapassa la corazza nuvolosa di Venere, scorge una foresta vergine di enorme estensione. Un intero continente forma un unico bosco, un folto di gigantesca vastità. Pare quasi impossibile penetrare in quel groviglio di alberi, cespugli e piante rampicanti. Questa molteplice vita emana nell’aria un profumo inebriante, che opprime il petto dell’ospite terrestre. Felci si slanciano fino all’altezza di 50 metri; il loro fogliame è così fitto che non lascia passare raggio di Sole. Simili a colossali serpenti, ai loro robusti tronchi si attorcigliano liane grosse come una coscia. Con un verde tappeto, rigogliose piante striscianti coprono il suolo. Là dove il fogliame delle felci lascia trapelare un filo di luce, il Sole si specchia in milioni di goccioline d’acqua che dalla grondante atmosfera si sono posate sulle enormi foglie di alberi non terrestri. I1 gambo, gros¬so come un pollice, a fatica regge al peso di queste foglie larghe un metro e più, che hanno l’aspetto del cuoio.
Tutt’attorno al liscio tronco fiorisce una vegetazione dai fantastici colori: centinaia di forme di piante simili a licopodi. Il leggero vento carezza titanici equiseti di dimensioni ultraterrestri; essi emergono spettrali dal suolo paludoso. I tronchi degli alberi portano bizzarri fregi, come se la mano di un artista li avesse incisi nella corteccia: quadrati, cerchi, triangoli e cuori, varietà ingrandite dei fregi che adornano la scorza degli alberi a squame crescenti sulla Terra.
Dove c’è una lacuna nel verde tappeto vegetale, dove i raggi del Sole possono arrivare senza impedimenti al suolo pantanoso, si eleva, alto metri, un grazioso fiore, dai meravigliosi colori, un fiore esotico, che è un estraneo, un intruso nella foresta primordiale, un vegetale che l’epoca terrestre del carbon fossile non conobbe, ma che in questo pianeta più di noi vicino al Sole potè svilupparsi. Il gambo di questa pianta di Venere è grosso come un pollice, e grosso come una zucca è il fiore ondeggiante al vento.
Attorno ai fusti di alberi ancora giovani si avviticchiano gambi di foglie carnose, formando per la tenera corteccia una verde corazza vivente. Quan¬do non soffia il vento o non imperversa l’uragano, una profonda silenziosa calma domina in quel pa¬radiso vegetale. Nessun ronzio di alati insetti si ac¬compagna al monotono sussurro delle chiome degli equiseti; si direbbe che questi colossali alberi, veri re di quel mondo, e le mille varietà di piante fossero gli unici abitatori della terraferma, e che questa non fosse sede di nessun essere vivente.
Ma là, nel groviglio delle gialle e verdi liane, ad un tratto si muove una massa rossoscura e si trascina a fatica sul suolo coperto di foglie: é una gigantesca salamandra. I deboli corti piedi quasi non riescono a portare il corpo, coperto di scaglie e lungo metri. Il cranio, piatto, in forma di mezzaluna, grosso come quello di un coccodrillo terrestre, porta tre occhi, piantati in orbite ossee, e sembra il muso di un diavolo. È probabile che le lucertole corazzate, a tre occhi, d’un remoto passato della Terra siano somigliate a questo sinistro, benché innocuo, abitante della foresta di Venere, e che il solo colossale «mastodonsaurus giganteus» abbia raggiunta una simile grossezza.
Fra gli alberi, due animali simili a scorpioni stanno in agguato di preda. Il loro peloso corpo é lungo un metro, la loro coda in forma di frusta porta all’estremità un’arma temuta, un pungiglione velenoso. I pochi insetti alati, che guizzano all’ombra delle felci e si aggirano a stormi sui vicini pantani, hanno corpi possenti, come, un giorno, i loro parenti terrestri, i titanofasmi dell’epoca del carbon fossile. Ma questo mondo animale é assai scarso di fronte alla ricchezza delle piante; nonostante le formidabili dimensioni che danno ai piccoli esseri della foresta di Venere la grossezza d’un uomo terrestre.
Di là dall’orlo della foresta, dove si stendono senza fine paludose solitudini che a poco a poco trapassano nella fangosa sabbia delle spiagge marine, dove un mite vento carezza boschi di giunchi, dove fra rami e tronchi putrefatti, resti di robusti alberi abbattuti dall’uragano, prosperano piante acquatiche d’ogni specie, si sviluppa in variopinte forme il regno animale del pianeta Venere. Qui, il perfetto silenzio della foresta vergine fa luogo ai molteplici suoni di grandi insetti. Nelle verdi piante dalle foglie a cuneo ronzano giganteschi grilli, svolazzano libellule dai vivaci colori e dalle diafane ali larghe come quelle d’un’aquila reale; grosse chiocciole trascinano le loro calcaree case. Il ritorto guscio, ornato di varie figure, d’un ammonite strisciante a fatica sul suolo bagnato, somiglia ad una torre vagante.
Con cupo fragore, come rombo di tuono lontano, 1e onde del mare si rompono contro le fangose rive. Bizzarri pescivermi, animali senza testa e senza cuore, affini all’«amphioxus» terrestre, per sottrarsi ai rapaci pesci da preda si seppelliscono nella sabbia. I pesci da preda guizzano sulla paludosa riva poggiando sulle loro dure pinne pettorali come se fossero piedi. Alcuni si slanciano con la rapidità d’una freccia sul pantano, agguantano un piccolo insetto o un pesceverme (gastrobranchus), poi con un solo balzo s’immergono in mare, loro vera sede. Strane creature che, come i batraci terrestri, possono vivere tanto nella terraferma quanto nell’acqua.
Spinti da fame insaziabile, nelle onde del mare pescicani lunghi 20 metri vanno a caccia di pesci e di conchiglie. Sono i più temuti predoni, gli assoluti padroni del mare di Venere, così come un giorno furono signori degli oceani della Terra. Perfino i colossali pesci corazzati fuggono dinanzi al furioso appetito degli squali e delle razze. Conchiglie grosse come i nostri vitelli, polipi fantastici, meduse gigantesche, coralli variopinti popolano in gran copia le acque dell’oceano di Venere, nei cui abissi, nelle tenebre eterne, vive una fauna di fiaba, creature analoghe ai pesci fornite di occhi telescopici, che con le loro lampadine organiche rischiarano le oscure profondità marine.
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La terza parte e quarta parte del presente articolo saranno pubblicate il 14 maggio.