25 marzo 1911: la tragedia della Triangle

Lo sfruttamento uccide in un colpo solo 146 persone, 38 le lavoratrici italiane

di Domenico Stimolo (*)

Domenico-strageLavoratrici

Nel corso degli ultimi 100 anni, e più, tantissimi sono gli immani disastri che si sono verificati nei luoghi di lavoro. E ancora in questa nostra fase storica continuano incessanti. In gran parte, quelli grandi e apocalittici, avvengono in luoghi lontani, che vengono denominati appartenenti al “terzo o quarto mondo”, dove fra l’altro sono state decentrate le attività produttive dette sporche nell’asettico linguaggio divulgato e “conservano” intatte tutte le condizioni di sfruttamento primordiale di lavoro che negli anni passati caratterizzavano anche tutto il pezzo di mondo denominato occidentale.

Gli organi di informazione nostrani dedicano poche righe alle tragedie che si consumano nelle fabbriche… mentre sopravanzano in maniera assordante, amplificate a dismisura, le notizie del gossip politico-economico, di becero avanspettacolo o di avvilente continua pubblicità spesso mascherata da evento.

La gran parte dei nostrani “riceventi” di notizie disconosce la mappa geografica-sociale di Gaia, cioè del pianeta Terra, e la distribuzione dei lavori dettata dai beceri interessi che comandano e guidano la globalizzazione. Il cittadino “medio” sente o legge in maniera distratta le – quasi invisibili – notizie di sventura provenienti dai luoghi di lavoro e poi passa alle ultime novità sull’omicidio indigeno. Eppure, anche di recente in Italia i disastri nei luoghi di lavoro sono tanti, con tutte le tragiche conseguenze in vite umane, sanitarie e ambientali. I resti velenosi delle “antiche” attività industriali seminano ancora morte in moltissime (italiche) aree territoriali, fra i lavoratori e i residenti nelle aree circostanti. Però, non fanno più “moda”. Le notizie provenienti dal mondo del lavoro sono considerate roba antica. Ogni tanta trapela la nota sull’ultimo processo in corso che riguarda le decine di morti, frutto in tal loco dai veleni somministrati nel contesto dell’attività produttiva. Però è come se risuonasse l’eco e i cittadini si distraggono, affaccendati nell’udienza di ben altre note; ridotti alla stregua di silenti strumenti robotizzati.

Il 25 marzo ricorre un anniversario di grande valenza internazionale che per molti anni ha costituito uno dei pilastri fondamentali di memoria del movimento mondiale dei lavoratori, nel cordoglio, nella riflessione e nella lotta.

Una tragedia immensa – una delle più gravi verificatosi nei siti industriali degli Stati Uniti – assurta a riferimento principale da parte delle organizzazioni sindacali e a simbolo del riscatto sociale dai lavoratori di tutti i continenti. Fu contraddistinta da alcune condizioni particolari: la dinamica del drammatico evento, lo sfruttamento salariale e le infime condizioni lavorative che risaltavano nel sito produttivo, la giovanissima età delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti, la peculiarità determinata dalla condizione di emigranti che caratterizzava la quasi totalità dei coinvolti.

In sintesi.

Luogo: New York

Azienda: Triangle Waist Company 

Tipologia di produzione: camicette per donna alla moda, chiamate shirtwaist.

Data: 25 marzo 1911, sabato; ora 4:40 del pomeriggio.

Natura del disastro: incendio.

Morti: 123 donne e 23 uomini

Feriti: un gran numero, mai del tutto accertato.

Area: piani 8, 9 e 10 del palazzo denominato “Asch Building”.

Chi lavorava: circa 700 persone, principalmente donne (600 circa) in gran parte di giovanissima età; immigrate, nella gran parte provenienti dall’Italia (molte dal sud) e da Paesi dell’est europeo.

Orari: ben oltre le 60 ore settimanali, con gli straordinari sottopagati. L’orario giornaliero molte volte non uniforme, variabile tra 10 e 14 ore. Nel turno si iniziava a lavorare alle 7 del mattino, fino alle 20. Si effettuavano anche turni notturni.

Condizioni di lavoro: asservimento continuo, con ritmi caratterizzati da costante velocizzazione nelle manovre umane e dalle cadenze delle macchine; incessante e violento controllo dei sorveglianti; illuminazione artificiale ininterrotta; locali sovraffollati; pausa pranzo di mezz’ora; non esistevano spogliatoi, cappotti e cappelli venivano appesi su ganci infissi alle pareti; scarsissima pulizia degli ambiti lavorativi caratterizzati da costante nocività; presenza di molti materiali infiammabili; non esistevano strutture adibite a medicare nei frequenti casi di infortuni.

Salario: bassi, mediamente 6 dollari alla settimana (al disotto del livello medio dell’epoca) con la pratica del cottimo. Molte/i erano assunte tramite l’azione di veri e propri “caporali” che prendevano una quota del salario.

Come morirono: soffocamento, bruciature mortali, lesioni gravissime dovute al “salto” sulla strada.

Durante le ore pomeridiane il luogo di lavoro ubicato nell’area centrale di New York nella zona di Washington Place (Manhattan) – dall’ottavo al decimo piano dell’edificio – improvvisamente avvampò.

Le fiamme, le cui origini non furono mai individuate, rapidamente si estesero in tutti i locali della fabbrica. Le lavoratrici e i lavoratori che operavano “gomito a gomito” in stanze non adeguate, presi dal terrore tentarono di scappare. Una fuga vana. Non esistevano adeguate e sufficienti via di scampo. Di agibile c’era solo una scala antincendio. L’ascensore immediatamente fu invaso dalle fiamme.

L’aspetto determinante della tragedia fu che l’uscita verso il tetto veniva tenuta costantemente chiusa da parte dei proprietari dello stabilimento, in maniera premeditata per “evitare” (nella loro turpe visione) uscite furtive di lavoratrici con camicette asportate o per pause “incontrollate”. Nei fatti erano moderne schiave.

L’infame espediente dell’uscita bloccata rubò le vite di chi lì lavorava. Molte/i arsero come torce umane. I loro resti, senza più fattezze, furono difficilmente riconoscibili. Tanti altre/i per il terrore si buttarono a decine/centinaia dalle finestre che erano state anche sfondate. Data l’enorme altezza i corpi, irrimediabilmente distrutti, restarono sull’asfalto stradale straziati.

Parecchie lavoratrici ridotte a miseri resti non furono identificate. Nel successivo processo giudiziario i proprietari della fabbrica furono assolti.

Le vittime più giovani avevano 14 anni, entrambe italiane.

Ed ecco i nomi che sappiamo: il ricordo, di una per una, a centocinque anni di distanza, restituendo alla nostra memoria i nomi, l’età. Ricordando che il loro diritto a vivere fu tolto da padroni assassini.

Ardito Annina, 25 anni emigrata a 15 anni

Bassino Rosa, 31 a 22 anni

Benanti Vincenza, 22 a 17 anni

Billota Vincenza, 16 a 13 anni

Brunetti Laura, 17 a 1 anno

Cammarata Josephine , 17 a 15 anni

Caputo Francesca, 17 a 13 anni

Carlisi Josephin, 31 emigrata a 21 anni

Caruso Albina, 20 nata negli Usa da genitori italiani

Ciminello Anna, 36 emigrata a 20 anni

Cirrito Rosina, 18 a 12 anni

Colletti Anna, 30 a 23 anni

Cordiano Michelina, 25 a 19 anni

Del Castillo Jose, 21 a 13 anni

Floresta Maria, 26 a 10 anni

Franco Jenne, 16 nata negli Usa da genitori italiani

Giannattasio Caterina, 22 emigrata a 14 anni

Grasso Rosa, 16 a 11 anni

L’Abbate Anna, 16 a 10 anni

Lauletti Maria Giuseppa, 33 a 21 anni

Leone Kate, 14 nata negli Usa da genitori italiani

Leone Bettina, 18 emigrata a 9 anni

Maile Frances, 21 a 16 anni

Maltese Caterina, 39 a 35 anni

Maltese Lucia, 20 a 16 anni

Maltese Rosaria, 14 a 10 anni

Manaria Maria, 27 a 21 anni

Midolo Gaetana, 16 a 14 anni

Nicolosi Michelina, 21 a 17 anni

Panno Provvidenza, 43 a 37 anni

Pasqualicchio Antonietta, 16 a 15 anni

Pinella Vincenza, 30 a 25 anni

Prato Emilia, 21 nata negli Usa da genitori italiani

Prestifilippo Concetta, 23 emigrata a 23 anni

Salemi Santina, 24 a 15 anni

Saracino Serafina, 25 a 23 anni

Saracino Teresina, 20 a 18 anni

Stellino Jennie, 16 a 12 anni

Terranova Clotilde, 22 a 19 anni

Tortorella Isabella, 17 a 10 anni

Uzzo Caterina, 22 a 20 anni

Viviano Bessey, 15 a 1 anno

I nominativi delle vittime, l’età e il periodo di permanenza negli Stati Uniti sono tratti dal sito http://trianglefire.ilr.cornell.edu/victimsWitnesses/victimsList.html

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Nell’anno della tragedia di Manhattan – il 1911 – il mondo del lavoro dipendente statunitense nella sua globale composizione era contrassegnato da condizioni estremamente difficili per le lavoratrici e i lavoratori. Sfruttamento diffuso, paghe basse, discriminazioni costanti, violento razzismo, insicurezza rappresentavano le caratteristiche portanti di tutte le attività produttive; in una fase storica che aveva avviato già da anni uno strutturale processo di trasformazione.

Nel 1910 il comparto manifatturiero industriale, con il 28,5% degli addetti, aveva già assunto quasi lo stesso peso del settore agricolo che nel corso di quattro decenni era passato dal 53 al 31%. Un processo di metamorfosi che sarebbe stato ancora più massiccio negli anni a seguire. Già nel 1913 i siti statunitensi producevano una quantità di acciaio superiore alla quantità totale prodotta dai quattro principali Paesi europei.

La struttura capitalistica del Paese in maniera sempre più intensa aveva già assunto enormi dimensioni monopoliste. Già nei primissimi anni del 1900 meno del 5% delle concentrazioni nei comparti industriali rappresentava quasi il 60% della produzione complessiva.

I dislivelli sociali e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza nazionale avevano raggiunto differenziali giganteschi.

Una componente lavorativa determinante fu dovuta agli immigrati che in maniera imponente trovarono occupazione in tutti i settori economici, specialmente nei comparti manifatturieri e nell’edilizia, per lo più con mansioni esclusivamente manuali, non specialistiche. La dinamica, già dal 1880, fu incessante. Al 1920 erano arrivati 23 milioni di persone. La parte preponderante veniva dall’Europa. Erano rappresentate tutte le nazionalità del “vecchio continente” ma i flussi migratori più numerosi provenivano dalle aree sud e orientali dell’Europa. Imponente il flusso degli italiani: più di due milioninei 20 anni trascorsi dal 1887 – si sobbarcarono la traversata atlantica nei bastimenti con condizioni di viaggio disastrose. Una parte grande proveniva dalle regioni meridionali. Fuggivano da zone prevalentemente contadine, da condizioni di vita devastanti caratterizzate dalla quotidiana miseria e fame.

Erano i soggetti ideali per diventare “ strumenti” del perfido moderno sfruttamento praticato in tutte le componenti produttive degli Usa, specie dove prevalevano le attività non qualificate: edilizia e carpenterie pesanti, settore tessile, costruzione di ferrovie, produzioni metallurgiche di basso livello. Le condizioni di accettabilità all’“ingresso” e di inserimento erano caratterizzate da “norme” diventate presto ben collaudate: bassi salari, occupazione precaria, enormi orari di lavoro, elevatissima intensità dei ritmi. L’entrata nel mondo del lavoro avveniva in maniera rilevante tramite “caporali”, veri e propri intermediari che svolgevano la funzione di subappaltare mano d’opera alle aziende. Questi – come avviene oggi nelle campagne italiane con i migranti – davano il salario, trattenendo le parti che riguardavano alloggio e vitto. In questo contesto parecchie donne italiane, molte giovinette, per contribuire alle difficili condizioni di inserimento nella struttura sociale, diventarono lavoratrici, rotelle del grande ingranaggio.

Molti rimasero intensamente delusi dalla mitizzata “America”. Infatti, proprio nella fase più intensa, il 50% dei due milioni di immigrati italiani giunti nel periodo 1887 -1907 dopo una permanenza più o meno breve tornò in Italia. Era molto difficoltoso sopportare le angherie delle condizioni di vita nei quali furono relegati.

In questo contesto il processo di unificazione degli interessi di classe e la sindacalizzazione non erano atti immediati e ”automatici”. A seguito dei ritmi intensissimi di sfruttamento, dei bassi salari, delle grandi quantità di infortuni che si verificavano nei luoghi di lavoro, già nell’ultima parte dell’800 si erano consolidate le prime organizzazioni sindacali nate negli anni precedenti – nella costruzione delle strutture operaie in primo piano si distinsero lavoratori che provenivano dall’Europa – e le lotte, intensissime, iniziarono via via sempre più ad estendersi, coinvolgendo masse sempre più grandi di lavoratori. Le prime di grande rilievo furono quelle iniziate nel 1877. Gli scioperi (considerati illegali fino al 1935) – a oltranza in tantissimi casi, in parecchi casi con durate lunghissime – divennero vere e proprie “battaglie di civiltà” davanti alle fabbriche, nelle miniere, nei servizi principali, con cruenti scontri, dato che la polizia e i vigilantes privati, talvolta anche l’esercito, intervenivano aspramente a sostegno padronale. In molti casi gruppi dell’esercito presidiavano costantemente le zone delle attività industriali. Agli inizi degli anni ’20 in particolare nei comparti della metallurgia pesante si lavorava ancora dodici ore giornaliere.

Il prioritario obiettivo padronale era scientificamente indirizzato a spezzare il fronte dei lavoratori, molto composito nelle nazionalità di provenienza, quindi potenzialmente “diversificato”. Diventò determinante l’ organizzazione dei picchetti dei lavoratori contro il crumiraggio organizzato dai proprietari; questi per spezzare la resistenza operaia ingaggiavano appositamente gruppi di persone provenienti anche da aree territoriali lontane. Gli “affamati” degli scioperi ad oltranza che lottavano per gli elementari diritti si scontravano con gli “affamati” disoccupati da lungo tempo che entravano in azione per spezzare la solidarietà. Ai “padroni del vapore” brillavano gli occhi di gioia.

Per concludere questo breve memorandum sulle condizioni della classe operaia negli Stati Uniti negli anni tra la fine dell’800 e la parte iniziale del 900, rifocalizzo l’attenzione al settore tessile – fondamentalmente costituito da donne, prevalentemente emigrate europee – e quindi al disastro del 25 marzo 1911. E’ importante aggiungere alcune ulteriori, rapide note. Due anni prima le lavoratrici delle fabbriche tessili contro le scellerate condizioni di lavoro avevano messo in opera una serie di scioperi iniziati l’8 marzo, con epicentro New York, che ebbero grandissima risonanza a livello nazionale, riportando alcuni primi importanti risultati.

Il 1909 è considerato un anno epico per le lotte delle lavoratrici tessili. Il 22 novembre iniziò a New York un nuovo sciopero, detto “la rivolta delle ventimila”, di lunghissima durata, contraddistinto da diversi violenti scontri con la polizia.

Nell’organizzazione delle lotte un intervento rilevante fu sviluppato dalla nuova organizzazione sindacale dalla 85° sezione della ILGWU (International Ladies Garment Workers Union) fondata dalla russa emigrata Clara Lemliech. Nel 1903 era nata una struttura sindacale molto importante nel settore tessile, la “Women’s Trade Union League”.

La lotta di emancipazione sociale e di riscatto nei luoghi di lavoro era ancor prima. A inizio 900 – già dal 1857 – il movimento delle tessili aveva alle spalle numerose e importanti iniziative di scioperi. Il centro basilare del movimento di rivendicazione delle lavoratrici fu New York. Scioperi vi furono nel 1859 e poi nel 1860 nel settore calzaturiero del New England.

La lotta non si spense mai, continuò sempre con crescente intensità attraversando vigorosamente i primi quattro decenni del secolo scorso.

(*) Qui in “bottega” cfr il post «Triangle» – di Luca Cumbo – sul film di Costanza Quatriglio e la Scor-data: 25 marzo 1911 di Alexik. Nel 2014 sulla strage l’editore Navarra ha pubblicato «Camicette bianche» di Ester Rizzo. (db)

COSA SONO LE “SCOR-DATE” – NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche motivo il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente tantissimi i temi, come potete vedere in “bottega” guardando un giorno… a casaccio. Assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Ovviamente non sempre siamo state/i soddisfatti a pieno del nostro lavoro. Se non si vuole scopiazzare Wikipedia – e noi lo abbiamo evitato 99 volte su 100 – c’è un lavoro (duro pur se piacevole) da fare e talora ci sono mancate le competenze, le fantasie o le ore necessarie. Si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allarga.

Avevamo pensato (nel nostro 2015 “sabbatico”) di fare un libro, cartaceo e/o e-book con una selezione delle «scor-date» già apparse in “blottega”. E’ rimasta una vaga idea ma chissà che prima o poi…

Il 12 gennaio 2016 si è concluso il nostro “servizio” di linkare le due – o più – «scor-date» del giorno, riproponendo quelle già apparse in blog/bottega nei 2 anni precedenti; e ogni tanto aggiungendone di nuove. Ddal 12 gennaio abbiamo interrotto, salvo rare eccezioni come oggi. C’erano 2 ipotesi per il futuro prossimo. Si poteva ripartire con nuove «scor-date» ogni giorno, dunque programmandole qui in redazione: insomma il volontariato (diciamo stakanovismo?) della nostra piccola redazione e/o di qualche esterna/o. Qui in “bottega” ci sarebbe piaciuto mooooooolto di più ripartire CHIAMANDOVI IN CAUSA, cioè ri-allargando la redazione. Come ripartenza c’eravamo dati il 21 marzo, una simbolica primavera… però il nostro “collettivo” non ha avuto gli auspicati rinforzi. Così vedrete le «scor-date» solamente ogni tanto, anziché ogni giorno come ci piacerebbe. Grazie a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza “ballerina” e sempre più mutevole nel tempo, per inevitabili altri impegni – è all’incirca questa: (in ordine alfabetico) Alessandro, “Alexik”, Andrea, Clelia, Daniela, Daniele, David, Donata, Energu, Fabio 1 e Fabio 2, Fabrizio, Francesco, Franco, Gianluca, Giorgio, Giulia, Ignazio, Karim, Luca, Marco, Mariuccia, Massimo, Mauro Antonio, “Pabuda”, Remo, Riccardo, “Rom Vunner”, Santa e Valentina. Ma spesso nelle «scor-date» ci hanno aiutato altre/i oppure abbiamo “rubato” (citando le fonti) qua e là.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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