Morire di precarietà (sulla professoressa suicida)
di Daniela Pia
Precaria ancora a 49 anni e l’ incertezza che ha accompagnato il cammino di insegnante si fa fatica di Sisifo. Buona scuola la chiamano, la moltiplicazione dei “forse” dei “chissà ” dei “magari mi chiamano ancora”. E invece NO. Ed ecco manifestarsi la quasi certezza che non ti chiameranno, che non ti riconfermeranno ad insegnare. Allora quel ruolo tanto agognato, per il quale hai speso tanta parte della tua vita di donna investendo in cultura, si trasforma in lacerazione, di anno in anno, e gli anni lasciano il segno.
Si sfà il futuro, diventa graduatoria: ultima, fra le ultime di un precariato che fa vergogna all’ Europa. Un precariato che hanno finto di sanare e che ha sbarrato il portone a tanti. Come è successo alla collega che si è suicidata oggi a San Vito: una professoressa, moglie e madre che ha messo la parola fine alla sua esistenza fra i rami di un albero nel giardino dei suoi genitori.
Lo tacciono questo burnout, lo ignorano. Paiono le tre scimmiette: non vedono, non sentono e non parlano al MIUR, di questa malattia silenziosa e strisciante che colpisce gli/le insegnanti e si fa male di vivere. La gestione di questo dolore sordo avviene quasi sempre in perfetta solitudine, anche con un senso di vergogna nel sentirsi inadeguate e spesso derise dagli studenti e anche da qualche collega figo. Ne ha parlato qualche anno fa lo studio Getsemani dell’equipe del professore Lodolo D’Oria, che in apertura del suo lavoro ne delinea il quadro:
“Nell’Orto degli Ulivi un Maestro in preda a tristezza e angoscia.
I suoi discepoli, diversi per provenienza e cultura, disorientati e stanchi.
La comunità ostile.
Le istituzioni contro.
Un lungo avvenire davanti.”
Una denuncia articolata, quanto rimasta inascoltata, lo si sperimenta nelle scuole di tutta Italia. Chi calpesta tutti i giorni il suolo degli edifici scolastici lo sa. Chi ha fatto la gavetta da precaria in giro per la sua ed altre regione, fra curve e tornanti e strade infami alla ricerca della scuola sperduta, lo sa. Lo sanno coloro che dovranno lasciare famiglia e trasferirsi nella penisola dove una roulette malsana li ha catapultati. E lo sa chi per anni ha atteso accanto al telefono, lo squillo che convocava all’ ennesima supplenza, che di supplentite si muore, lentamente, nel rinfacciarsi anche la scelta rivelatasi poi sciagurata, di un lavoro che si è succhiato le energie giovani per restituire la malinconia della mezza età ancora lì a cavalcare l’incertezza. Che ci hanno cambiato continuamente le carte in tavola e non bastano mai i titoli e si inventano nuovi canali di assunzione e nuove classi stipendiali e nuovi meriti . Questa nostra collega, una professoressa che ha scelto di intraprendere “l’altro viaggio” la sento tanto, infinitamente vicina, la avverto come una compagna di cammini faticosi, come una vittima di una politica della scuola che ha perso la direzione e il senso di una professione sempre più delegittimata. A questa collega di cui non conosco il nome, di cui capisco profondamente l’affanno e la perdita della speranza, voglio riservare il ricordo quotidiano in queste mattine, in viaggio da una scuola all’altra alla ricerca del senso di quella che pare si chiami Maturità.