5 dicembre: tre «scor-date» recuperate
di db, di Costanza Ciminelli e di Antonio Fantozzi (*)
Scor-data: 5 dicembre 1839
Custer e la tromba dell’Apocalypse
Scor-data: dal 5 dicembre 1955
Montgomery Bus Boycott, 381 giorni per vincere
Scor-data: 5 dicembre 1484
Più potere agli inquisitori
(*) Come sa chi frequenta codesta “bottega” ogni giorno – per due anni, cioè dall’11 gennaio 2013 all’11 gennaio 2015 – la piccola redazione ha offerto (salvo un paio di volte per contrattempi quasi catastrofici) una «scor-data» che in alcune occasioni raddoppiava o triplicava: appariva dopo la mezzanotte, postata con 24 ore di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; ma qualche volta i temi erano più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi.
Tanti i temi. Molte le firme (non abbastanza probabilmente per un simile impegno quotidiano). Assai diversi gli stili e le scelte; a volte post brevi e magari solo una citazione, una foto, un disegno… Ovviamente non sempre siamo stati soddisfatti a pieno del nostro lavoro. Se non si vuole copiare Wikipedia – e noi lo abbiamo evitato 99 volte su 100 – c’è un lavoro (duro pur se piacevole) da fare e talora ci sono mancate le competenze, le fantasie o le ore necessarie.
Abbiamo deciso – dall’11 gennaio 2015 che coincide con altri cambiamenti del blog, ora “bottega” – di prenderci un anno “sabbatico”, insomma un poco di riposo, per le «scor-date». Se però qualche “stakanovista” (fra noi o all’esterno) sentirà il bisogno di proporre una nuova «scor-data» ovviamente troverà posto in blog; la redazione però non le programmerà.
Nell’anno di intervallo magari cercheremo di realizzare il primo libro (sia e-book che cartaceo?) delle nostre «scor-date», un progetto al quale abbiamo lavorato fra parecchie difficoltà che per ora non siamo riusciti a superare. Ma su questa impresa vi aggiorneremo.
Però…
(c’è quasi sempre un però)
… visto il “buco” e viste le proteste (la più bella: «e io che faccio a mezzanotte e dintorni?» simpaticamente firmata Thelonius Monk) abbiamo deciso di offrire comunque un piccolo servizio, cioè di linkare le due – o più – «scor-date» del giorno, già apparse in blog.
Speriamo siano di gradimento a chi passa di qui: buone letture o riletture
La redazione (in ordine alfabetico): Alessandro, Alexik, Andrea, Barbara, Clelia, Daniela, Daniele, David, Donata, Energu, Fabio 1 e Fabio 2, Fabrizio, Francesco, Franco, Gianluca, Giorgio, Giulia, Ignazio, Karim, Luca, Marco, Mariuccia, Massimo, Mauro Antonio, Pabuda, Remo, “Rom Vunner”, Santa, Valentina e ora anche Riccardo e Pietro.
ADDIO A THERESA, LA DONNA DEI SEI DI SHARPEVILLE
(Gianni Sartori)
Una brutta notizia: Theresa Machabane Ramashamole, la donna dei Sei di Sharpeville, non è più con noi. Ancora ragazza, aveva partecipato alla manifestazioni di Soweto (rimanendo ferita) contro l’insegnamento obbligatorio dell’afrikaans, la lingua dei coloni e colonialisti boeri. Il primo studente ammazzato dalla polizia si chiamava Hector Peterson e la foto di lui moribondo in braccio al fratello che cerca di portarlo in salvo è ancora un simbolo. Era il 1976 e a quel tempo Theresa si era trasferita da una zia per poter studiare. Indirettamente aveva partecipato anche alla manifestazione di Sharpeville contro i pass, quella del 21 marzo 1960, tragicamente passata alla storia. Vi prese parte sua madre, incinta di lei di cinque mesi. Ufficialmente i morti (“colpiti alla schiena, mentre scappavano”) furono una settantina “ma tutti sanno che in realtà furono molti di più -raccontava.“Mia madre -proseguiva- era riuscita a fuggire anche se con il pancione correva più piano degli altri”. Teresa era nata quattro mesi dopo, già segnata dal destino.
Una vita la sua destinata a conoscere sia la resistenza all’apartheid che il carcere e la tortura (botte, scariche elettriche…). E che stava per concludersi con una condanna a morte per impiccagione emessa il 15 marzo 1988. Insieme ad altri cinque compagni era stata arrestata nel settembre 1984 per una manifestazione contro il rincaro degli affitti nel corso della quale un nero collaborazionista, il console Dlamini, era stato ucciso. Contro di loro nessuna prova, ma servivano dei capri espiatori. All’epoca in Sudafrica i neri venivano ammazzati per molto meno.
Inaspettatamente l’esecuzione venne sospesa la sera prima della data stabilita (18 marzo 1988), quando erano già stati “pesati e misurati ed era stata provata la corda attorno al collo”. Nuove prove erano emerse, grazie all’impegno instancabile del loro avvocato Prakash Diar e la pena venne commutata in venti anni.
Alla fine, quando l’apartheid era ormai diventato improponibile di fronte all’opinione pubblica mondiale (o forse non garantiva più i sostanziosi profitti delle multinazionali) vennero liberati. Alla spicciolata, senza clamore. Duma e Oupa il 10 luglio 1991; Reid e Theresa il 13 dicembre sempre del 1991;Ja Ja e Fransis il 26 settembre del 1992.
Le sofferenze patite in carcere avevano minato la salute di Theresa in maniera irreparabile. Tra l’altro a causa delle torture subite non aveva potuto avere figli. Ricordava che prima di svenire completamente, le sembrava di sognare un bambino. E quella fu “l’ultima volta che sognai un bambino”.
Dopo la liberazione trovò lavoro come segretaria presso la sede dell’African National Congress di Vereeniging
Anche la sua morte è stata in qualche modo uno strascico dell’apartheid. Così come quella di un altro dei sei, Duma Khumalo, torturato durante la detenzione e morto nel 2006 mentre teneva un conferenza a Cape Town. Con l’associazione Khulumani aveva contribuito moltissimo nel dare aiuto e sostegno alle tante persone travolte e distrutte dall’apartheid.
Ora dei Sei di Sharpeville, passati loro malgrado alla Storia, solo due rimangono in vita: Reginald Ja Ja Sefatsa e Reid Malebo Mokoena, entrambi tornati alle loro vite di proletari, vite in parte naufragate anche a livello personale a causa della lunga detenzione.
Oupa Moses Diniso era morto in un incidente nel 2005 mentre Fransis Don, il calciatore, era già deceduto per un infarto poco tempo dopo essere uscito di prigione. Tutti dicono che Kabelo, il nipotino che non ha potuto conoscere, gli somiglia moltissimo.
Con la morte di Theresa, tornano fatalmente alla memoria i nomi delle innumerevoli vittime del regime dell’apartheid. Alcuni sono comunque passati alla Storia: Steve Biko (militante della SASO, morto sotto tortura), Victoria Mxenge (avvocato dell’UDF, uccisa da una squadra della morte), Joe Gquabi (oppositore, assassinato dai servizi segreti), Ruth First e Janette Curtis (entrambe uccise con un pacco-bomba dei servizi segreti di Pretoria), Benjamin Moloise (poeta, impiccato), Neil Aggett e Andreis Radtsela (sindacalisti, morti sotto tortura), Dulcie Septembre (esponete dell’ANC, uccisa in Francia dai servizi segreti). Ma per un gran numero di assassinati il rischio è di essere definitivamente dimenticati. Chi si ricorda ancora di Saoul Mkhize, Samson Maseako, Taflhedo Korotsoane, Elias Lengoasa, Sonny Boy Mokoena, Mvulane, Bhekie…?
Per ognuno, una piccola storia di sofferenze e umiliazioni ancora da raccontare.
Un commiato affettuoso anche per le tante persone conosciute all’epoca del maggiore impegno per “strappare le radici dell’ingiustizia” (come nella grande manifestazione all’Arena di Verona) e che nel frattempo ci hanno lasciato: Benny Nato, Beyers Naudé, Alberto Tridente, Edgardo Pellegrini, Luciano Ceretta… Un esempio per chi li ha conosciuti e per chi non ha avuto questo onore.
A Theresa Machabane Ramashamole e a tutte le vittime dell’apartheid vada la nostra gratitudine. Così come quella odierna dei Curdi, anche la loro è stata una lotta per l’umanità.
Gianni Sartori
“…DOPO LE SEI SOLO IL VENTO E IL SILENZIO CIRCOLAVANO PER LE STRADE…”
UN RICORDO DELL’AMICA FEBE CAVAZZUTTI ROSSI
(Gianni Sartori)
Nella notte del 2 febbraio 2016 se ne è andata Febe Cavazzutti Rossi. Pastora valdese, ha vissuto gran parte della sua vita a Padova. Una presenza costante nella chiesa metodista di questa città, come organista e predicatrice, e una testimonianza immensa di fede, serenità e forza d’animo.
Febe era nata nel 1931 a Vicenza (dove in seguito tornerà come insegnante di inglese) e aveva trascorso parte degli anni giovanili a Firenze. In questa città suo padre, il pastore metodista Gaspare Cavazzutti (già collaboratore di Henry James Piggot) si distinse per aver salvato molti cittadini di religione ebraica negli anni delle persecuzioni nazi-fasciste.
Di quel periodo buio Febe ricordava con particolare amarezza la tragica fine di due ragazze sue amiche, nipoti di un cugino di Einstein, destinate a essere trucidate, insieme alla zia, per mano dei soldati tedeschi. Un tragico evento (raccontato nel film “Il cielo cade”) che determinò la morte anche dello zio, suicidatosi per disperazione.
In anni più recenti la lezione paterna si tradusse in un attivo sostegno alle lotta dei Neri del Sudafrica sottoposti al tallone di un nuovo nazismo, quello dell’apartheid. Nonostante (a causa di un incidente stradale per una gomma scoppiata in autostrada tra Vicenza e Padova), dovesse muoversi con una carrozzella, Febe era partita per il Sudafrica partecipando a molte iniziative, al punto che il regime la espulse dal Paese.
Chiunque abbia partecipato alle campagne degli anni Ottanta contro il regime razzista di Pretoria la ricorda sicuramente. La rivedo all’Arena di Verona in occasione dell’incontro del 30 maggio 1987 “Sudafrica e noi: strappare le radici dell’ingiustizia”. Di quel giorno ricordo anche tanti altri amici presenti in Arena per ribadire un secco NO a Botha, alle fabbriche di armi (molte italiane) che rifornivano il regime di Pretoria (inevitabile pensare a quanto avviene oggi con la Turchia che anche con le armi di Finmeccanica sta massacrando i curdi), alle banche (ancora quelle italiane) che lo finanziavano.
Alcuni di loro purtroppo nel frattempo ci hanno lasciato, come Benny Nato (all’epoca rappresentante dell’African National Congress in Italia), Beyers Naudé (Segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese e, in quanto boero, chiamato “il grande traditore” dai suoi connazionali bianchi), Davide Maria Turoldo…
Tra quelli ancora sulla breccia, Alessandro Zanotelli (ex direttore di Nigrizia), il vicentino Mario Costalunga (entrambi tra i fondatori dei Costruttori di Pace), il reverendo T. F. Farisani (Vescovo vicario delle Chiese Evangeliche Luterane del Sudafrica e vittima della tortura), il comboniano Efrem Tresoldi che in seguito si trasferì proprio in Sudafrica…
Talvolta le inviavo qualche mio articolo che “riveduto e corretto” (e ridimensionato) dalla sua acuta intelligenza, veniva ospitato da “Riforma”, il settimanale in lingua italiana delle Chiese evangeliche, battiste e valdesi. Gli ultimi due, un ricordo di Theresa Machabane Ramashamole, morta nel novembre 2015 (l’unica donna dei Sei di Sharpeville, un gruppo di militanti neri condannati a morte per impiccagione e salvati all’ultimo minuto, di cui mi ero occupato negli anni Ottanta e che in anni più recenti avevo anche conosciuto) e un articolo sulla Resistenza dei curdi a Kobane. Tra l’altro devo dire che ci eravamo ritrovati in sintonia nel considerare la lotta dei curdi come analoga a quella dei movimenti antiapartheid del passato. In particolare si mostrava molto interessata e solidale con le donne curde e con il loro protagonismo.
Nel 2004 l’avevo intervistata prendendo spunto da un suo articolo su “Riforma” (“Dieci anni di democrazia in Sudafrica”) dove, con la consueta chiarezza, analizzava il voto del 14 aprile 2004.
Febe era convinta che nel 1994 il Sudafrica avesse realizzato “ l’evento più straordinario della sua lunga e sofferta storia”: le elezioni a suffragio universale “aprendo a quei suoi abitanti che fino ad allora non erano che lo scarto umano privo di diritti”. Nel suo articolo sottolineava come tutto si fosse svolto ordinatamente con un’affluenza del 95% su un totale di 20 milioni e 674.926 elettori. Tre giorni dopo Pansy Tlakula (Chief Electoral Officer) poteva già dare i risultati: “Con umiltà sto davanti per dichiarare con orgoglio che abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissi. Abbiamo avuto una campagna elettorale forte, in cui i partiti non hanno sfoggiato i meriti della vittoria sull’apartheid, ma hanno affrontato i problemi del nostro paese. La nostra gente ha esercitato la pazienza e un profondo rispetto per questo atto di libertà”.
In questa elezioni l’ANC, il partito di Nelson Mandela, aveva guadagnato il 69% dei voti, con grande distacco dal secondo partito il Democratic Alliance (DA, 13%) e febe ricordava che il presidente del DA, Joe Serename, aveva lavorato lungamente con il South African Council of Churches negli anni bui del razzismo istituzionalizzato, pagando anche un prezzo altissimo a livello personale: l’assassinio di un fratello e di altri familiari da parte delle squadre della morte segregazioniste. Disastrosi invece erano stati i risultati del National Party (“che -spiegava Febe – ha praticato l’apartheid con la frusta in una mano e la Bibbia nell’altra”) ridotto soltanto all’1,7%.
UNA DONNA CONTRO L’APARTHEID
Riporto qui la mia intervista di allora (2004), per onorare questa persona che per tutta la vita si è impegnata al fianco degli oppressi. Un’occasione per “ripassare” la Storia recente (e non dimenticare cos’era l’apartheid) e soprattutto un modo per ricordare Febe , sapendo che l’ingiustizia, lo sfruttamento e l’oppressione non scompaiano magicamente con la fine di un regime, ma si riproducono sotto altre spoglie. Per cui, va detto, occorre sempre vigilare. Così come Febe insegnava a chi ha avuto l’onore di conoscerla.
D. Dell’Arena ’87 ricordo in particolare l’intervento del reverendo Farisani (anche perché lo concluse a pugno chiuso, niente male per un prete). Si muoveva ancora con difficoltà a causa delle torture subite. Farisani, uno Zulu, disse di aver fatto parte dell’Inkatha Freedom Party (Ifp), ma di essersene allontanato quando si era reso conto che il leader, Bhutelezi (noto anche in Italia in quanto invitato a Rimini da Comunione e Liberazione), faceva il gioco dei razzisti di Pretoria alimentando la violenza tra i Neri. E’ accaduto qualcosa del genere anche durante l’ultima campoagna elettorale (del 2004 nda)?
Febe: In effetti è stata questa l’unica nota stonata e paurosa. Il Kwa Zulu Natal è la roccaforte di Inkatha Freedom Party di Buthelezi che per alcuni anni ha osteggiato il processo di liberazione, uccidendo e devastando, in una guerriglia fratricida e con la confessa connivenza del governo sudafricano di allora. La saggezza di Nelson Mandela, che aveva dato riconoscimento politico all’Ipf mettendo Buthelezi a capo del ministero degli Interni, aveva poi prodotto la pacificazione. Si comprende tuttavia come in queste elezioni del 2004 l’Ifp abbia rivisto nell’Anc un nemico e abbia fatto nuovamente ricorso a violenze e intimidazioni, soprattutto a Pietermaritzburg. I locali della nostra Chiesa metodista si trovano al centro della città e per tre giorni il pastore, Sol Jacob*, ha dovuto chiedere ogni attività per evitare il peggio.
Va anche ricordato che nel Natal, contemporaneamente alle elezioni nazionali, si sono svolte quelle regionali. Per la prima volta l’Anc ha superato l’Ifp col 46, 93% contro il 36,82%. Per dare a Buthelezi la maggioranza non è servito nemmeno l’apporto di Da (Democratic Alliance), forse grazie ai 50mila bianchi di Pietemaritzburg che hanno votato per l’Anc, spaventati dalla volontà dell’Ifp di trasferire la capitale a Ulundi, nel cuore della terra Zulu.
D. Lei, mi diceva, considera importante che la maggior parte dei presidenti di seggio in queste elezioni siano state donne. E per quanto riguarda i ministeri?
Febe: I ministri del nuovo governo sono stati nominati e hanno prestato giuramento il 28 aprile 2004. Tra di loro c’è una buona presenza femminile; oggi le donne ministro sono 10 su 21 in dicasteri chiave come Esteri, Interni, Giustizia, Istruzione, Salute, Agricoltura, Risorse idriche, Risorse minerarie (oro e diamanti), Pubblica amministrazione, Opere pubbliche.
D. A distanza di qualche anno sembra quasi impossibile che un regime come quello dell’apartheid sudafricano abbia potuto durare così a lungo in pieno ventesimo secolo. Capita talvolta di sentirsi chiedere: “Ma i Bianchi del Sudafrica cosa pensavano? Come vedevano i Neri? Come giudicavano le scelte, la legislazione del loro governo?”.
Febe: I Bianchi sostanzialmente sembravano non interessarsene, non sapevano e non vedevano niente. Forse perché in fondo avevano paura, paura per il semplice fatto di avere i Neri vicino a loro. Era una situazione difficile anche solo da immaginare, il contatto non c’era. Quando si girava per Città del Capo o Johannesburg o Durban, appariva evidente che la massa dei lavoratori era nera (i commessi dei negozi per esempio, ma anche nelle banche); sembrava stessero bene; sembravano “liberi”…Ma nessun Bianco ha mai chiesto ad un proprio dipendente: Dove abiti?”.
Per i Bianchi quelle leggi erano giuste; loro si sentivano intelligenti, loro preparavano un futuro dove anche i Neri sarebbero stati in grado di autogovernarsi. Vedi il grande inganno delle “homelands” dove nessun Bianco sarebbe mai entrato. Le leggi erano considerate giuste per i Bianchi e per i Neri. A volte le regole erano veramente assurde. Basti pensare che la “mamy” che accudiva i bambini nelle ville dei Bianchi, doveva per legge restare sulla soglia della stanza quando il bambino dormiva. Non doveva mai dormire o mangiare in casa, quindi doveva avere una stanza fuori. Sempre per legge in casa non doveva portare nessuno, nemmeno i figli. Il contratto doveva essere di un anno più tre settimane (non pagate) di vacanze. Quindi queste donne a servizio non vedevano i loro figli per un anno e intanto nei loro luoghi di origine le nonne badavano anche a venti o trenta bambini.
D. Ma, mi chiedo, possibile che a una madre bianca non venisse mai in mente che anche quella donna a servizio era una madre, che anche lei aveva dei sentimenti?
Febe: Penso che all’origine ci fosse una sorta di apura atavica. Un’altra legge molto significativa per capire quel peiodo è quella che imponeva a tutti i Bianchi di avere il porto d’armi e di esercitarsi con sagome di forma umana. Naturalmente anche questo generava altra paura.
D. Tornando alla sua descrizione della massa di lavoratori neri presenti nelle città durante il giorno…Cosa succedeva ad una certa ora?
Febe: Alla sera, tra le cinque e le sei, questa massa di gente doveva sfollare, essere fuori. Dopo le sei solo il vento e il silenzio circolavano per le strade…
D. E i Bianchi…?
Febe: I Bianchi restavano chiusi dentro per la paura anche se ormai i Neri se ne erano già andati. SI credeva, o si voleva far credere, che questo modo di vivere fosse una cosa buona, utile per tutti.
D. Quindi il Nero in un certo senso era un invisibile…?
Febe: In pratica non lo vedevano. Eppure le township (Alexandra, Soweto…) facevano parte della municipalità. Le township dove abitavano i lavoratori neri erano in generale ad una trentina di chilometri dalle città e quasi senza collegamenti, ma alle otto dovevano essere presenti sul posto di lavoro. Un dipendente dopo tre giorni di ritardo veniva licenziato e dopo altri tre giorni senza lavoro doveva andarsene anche dalla città.
D. Lei ha visto di persona come vivevano i Neri in questa sorta di ghetti. Ce ne può parlare?
Febe: Ricordo in particolare un insediamento presso Città del Capo, a circa trenta chilometri dalla città, dove un gran numero di persone viveva in tende dell’esercito dell’ultima guerra mondiale. Eppure nei Neri del Sudafrica, anche quando vivevano in queste misere condizioni, ho sempre trovato una enorme dignità e una grandissima pulizia. Durante quella visita ci eravamo fermati davanti a una tendina dove erano nate due bambine. Quando la mamma è uscita ho visto che le bambine erano con la cuffietta inamidata: E fuori, bada bene, c’era il fango, la melma…Chiesi dove avesse mai trovato l’acqua necessaria e mi rispose che a circa dieci chilometri c’era un cimitero dei Bianchi dove l’acqua pulita non mancava mai. Naturalmente i Bianchi che visitavano il cimitero non si accorgevano di niente, forse nemmeno sospettavano della presenza di quell’insediamento.
A Crossroad (uno dei luoghi maggiormente interessati dagli scontri quasi quotidiani tra i Neri delle baraccopoli e la polizia sudafricana negli anni Ottanta) sono entrata la tempo della rivolta. Conservo due foto di chiese in lamiera e cartone, una cattolica e una battista e ricordo un pastore che aveva come minimo una comunità di centomila persone da seguire. In queste aree i Bianchi non avrebbero potuto entrare neanche volendo perché la polizia non lo avrebbe permesso. Oggi scoprono realtà per loro sconosciute di miseria e degrado, ma la povertà di oggi è il frutto degli anni dell’apartheid. Nel 1985, poco prima che mi dessero il bando (la proibizione di rientrare in Sudafrica per almeno cinque anni), andai da un mio amico che più tardi entrò a far parte del Pac (Pan African Congress) e gli chiesi: “Ci saranno centomila Bianchi dalla vostra parte?”. “No -mi rispose – nemmeno cinquantamila, forse cinquemila”.
D. Eppure l’apartheid, che sembrava destinato a durare in eterno dato lo strapotere economico e militare dei Bianchi, alla fine è caduto. Mi diceva che tra i Neri era chiara la consapevolezza della sua fine prossima e che questa consapevolezza derivava in parte dalla fede…
Febe: All’epoca ci si poneva spesso questa domanda: ma quanto durerà? Sembrava impossibile uscirne, soprattutto conoscendo la forza di questo sistema, ma tutti a quel tempo mi dicevano che sarebbero occorsi cinque anni. E cinque anni sono stati. Ricordo anche che nelle chiese si pregava e si era sicuri che il signore rispondeva, il Signore che tira giù dal trono i potenti. L’inno che ora è diventato inno nazionale del Sudafrica (“Dio benedica l’Africa”) noi lo cantavamo in chiesa. E Dio ci ha ascoltato.
Non considero una semplice coincidenza il fatto che Mandela sia metodista. Naturalmente si guarda bene dal pubblicizzarlo (per garantire la separazione tra Stato e Chiesa), ma quella è comunque la sua radice.
D. Ritiene che la componente religiosa fosse presente anche nel 1960, al momento della scelta di Mandela di prendere le armi contro il regime (dopo la strage di Sharpeville, quando la polizia massacrò una folla inerme di Neri che protestavano pacificamente)?
Febe: In quel momento Mandela si dovette separare da Luthuli (un predicatore metodista) che predicava la non violenza assoluta, ma lo fece di malincuore. Anche perché, va detto, l’ala armata (Umkhonto we Sizwe: ferro di lancia della nazione) si rese responsabile di azioni discutibili. In genere comunque erano fuori dalla Rsa, nello Zambia e in Namibia. Chi tentò effettivamente di portare la lotta armata dentro al Sudafrica fu il Pac, ma durò poco. Vorrei anche dire che in fondo quello di “prendere le armi” fu un ragionamento “da Bianchi”.
D. Aveva anche accennato al fatto che molti dei problemi attuali del Sudafrica (criminalità, violenza contro le donne…) sarebbero il frutto degli anni dell’apartheid…
Febe: Gli anni dell’apartheid sono stati anni terribili, soprattutto per i giovani. Si calcola che furono circa 85mila i bambini incarcerati e torturati. Venivano portati in tribunale come “sovversivi”. Ricordo due gemelline di tredici anni, arrestate anche loro insieme al padre perché durante una perquisizione avevano trovato in casa “Arcipelago Gulag”. Altri bambini vennero arrestati perché casualmente avevano i quaderni con gli stessi colori dell’Anc (verde, oro e nero)…E quando non li arrestavano li “ripassavano” con la frusta. Venivano sospettati per ragioni assurde, per esempio se a scuola dimostravano un eccessivo interesse per la Storia o se cantavano a squarciagola. Ugualmente se alle partite facevano il tifo per gli anglosassoni invece che per i Boeri. Una volta il figlio di Desmond Tutu venne arrestato mentre assisteva ad un processo soltanto perché gli era scappato da ridere. Io lo dicevo sempre: questa è una generazione distrutta. I genitori stessi erano disperati perchè vedevano che i loro figli degeneravano. Naturalmente c’era anche la violenza che proveniva da alcuni Neri, come Buthelezi e le sue bande ben organizzate.**
D. Cosa può dirci sui processi che hanno portato i carnefici a confrontarsi con le vittime, a guardarsi negli occhi, ad autodenunciarsi e a venire in qualche modo assolti (talvolta perdonati)?
Febe: In questi processi i due presidenti erano Desmond Tutu e Khoza Mgojo, pastore metodista (la Truth and Reconcilation Commission era suddivisa in tre Commissioni specifiche, e loro erano i presidenti di una di queste). Hanno avuto poco aiuto, ma hanno fatto un lavoro enorme. Tutu in particolare è un grandissimo organizzatore e in questo gli è stata di grande aiuto la moglie. La gente si iscriveva per parlare; per primi venivano le vittime e da questo nasceva il collegamento con i responsabili (i torturatori, le squadre della morte, i “vigilantes”…) che venivano convocati.
Ovviamente erano incontri laceranti, ma in qualche modo in grado di ricomporre rapporti umani.
D. E’ probabile che i mandanti di eccidi e torture non si siano neanche presentati…
Febe: Anche De Klerk, non parliamo poi di Botha (il primo parzialmente, il secondo totalmente) si sono rifiutati di dare testimonianza. Botha è stato particolarmente sprezzante nel rifiutarsi di comparire. Ma è importante sottolineare che non ci sono state vendette, faide, perché la cultura dei Neri sudafricani, degli anziani soprattutto, era questa; per me è stato l’ultimo atto di una testimonianza di grande civiltà, di una cultura tradizionale che rischia di scomparire. In qualche modo ha smentito coloro che consideravano la questione del Sudafrica prettamente politica, legata in qualche modo al rischio del “comunismo” (anche se il Partito comunista in Sudafrica era soprattutto un partito di Bianchi, comunque una corrente di pensiero politico minoritaria); si trattava di una menzogna pretestuosa destinata a giustificare e perpetuare l’apartheid. Io penso che i principi religiosi siano stati fondamentali, che la resistenza derivasse dalla profonda spiritualità degli africani, qualunque fosse la forma religiosa di appartenenza compresa la tradizione animista.
D. Ha avuto modo di conoscere personalmente persone depositarie di queste tradizioni che, presumo, saranno state in gran parte sradicate dall’opera di “evangelizzazione” degli europei?
Febe: Io non so cosa fosse esattamente la religione dei Neri prima della seconda metà dell’800, ma una volta, a duemila metri di altezza, siamo arrivati in un villaggio di circa duemila anime avvolto nella nebbia. Erano tutti animisti. C’erano anche quattro suore che avevano aperto una scuola. Ricordo una suora molto giovane, irlandese, che parlava sia Zulu che Afrikaneer. Un’altra era esperta in agricoltura, una medico e un’altra, ingegnere, costruiva i pozzi per l’acqua. Era una zona dedita all’allevamento del bestiame: alla mano d’opera nera era permesso solo di bere dalle stesse pozze del bestiame con conseguenze sanitarie immaginabili.
Io, che sono sempre un po’ sospettosa, ho cominciato a far domande: mi risposero che tra quella gente avevano imparato molto, anche in materia di fede.
Quando nasceva un bambino era normale chiamarlo con nomi il cui significato era “Grazie a Dio”, “Benedetto dal Signore”…
Nella loro scuola c’erano circa 600 allieve. Chiesi: “Voi insegnate a leggere, a scrivere…Catechizzate anche?”. Mi risposero che avevano smesso di farlo. Quando raccontavano una storia della Bibbia venivano ascoltate molto volentieri, anche perché alcune vecchie regole (per es. nel Levitico) erano identiche a quelle dell’antica religione animista praticata dagli abitanti del villaggio.
Io temo che anche il cristianesimo “esportato” con la nostra mentalità, abbia fatto dei danni in Africa. Penso per esempio al problema della contraccezione che veniva praticato in modo naturale, con l’uso delle erbe…
D. La divisione tra Bianchi e Neri si riproduceva anche all’interno delle diverse Chiese?
Febe: le due comunità, bianca e nera, non si incontravano.; nelle chiese dei Bianchi i Neri non c’erano. Quando Desmond Tutu divenne vescovo a Johannesburg in una Chiesa anglicana bianca, in chiesa non andava più nessuno. Lo ricordo bene perché andai a trovarlo ed era solo, disperso, in mezzo a tutti quei banchi ottocenteschi.
Va anche detto che forse nelle chiese protestanti, dove vige una maggiore libertà, le cose erano un po’ più facili. Tutte le decisioni vengono prese dalla base, non dall’alto e quindi nel Sinodo ci si incontrava; a tale proposito c’erano dei permessi speciali (già nei primi anni ’80 il presidente di turno della Chiesa Metodista era un africano nero).
Una volta Beyers Naudè mi disse. “La cosa che mi rattrista di più è che in questo modo i Bianchi perdono la fraternità dei Neri”. Ho compreso realmente cosa intendesse dire dopo aver partecipato ad un incontro in una chiesa frequantata solo da neri. In Sudafrica si canta sempre, alla cerimonia si arriva mezz’ora prima perché si canta e ppoi si canta anche alla fine. Ci si mette in fila e si esce ordinatamente sempre cantando. Quella volta mi avevano messo in mezzo e tutti, cantando, sono venuti a darmi la mano, in fila. Ad un certo punto venne avanti piano una vecchietta che zoppicava un po’ e intanto frugava. Mi ha preso le mani mettendoci un “rand” (circa mille lire) dicendo: “Questa è l’unica cosa che possiedo e la voglio dare a te che sei venuta fin qui a trovarci…”. Poi naturalmente l’ho dato al pastore.
D. Qualche volta sento dire che forse il prezzo pagato per abbattere l’apartheid è stato troppo alto e i risultati inferiori alle legittime aspettative. Cosa ne pensa?
Febe: Dico che, nonostante tutto, non c’è confronto con l’epoca dell’apartheid. Certo si pensava che le cose cambiassero più in fretta, ma credo comunque che ne valesse la pena. Pensiamo soltanto al problema delle famiglie divise, lacerate. Spesso gli uomini, per lavorare, dovevano viver ein condizioni indegne negli “ostelli”, lontano dalle famiglie, con contratti di due anni (e quattro settimane di ferie). Io ho potuto vederli solo dopo la fine dell’apartheid. Esistevano due livelli di controllo, la polizia esterna e quella interna. In alcuni casi uscivano solo attraverso dei tunnel per recarsi al lavoro, per esempio in miniera. Dormivano in sedici per stanza; i letti erano a castello, ma non erano sufficienti; il refettorio aveva la centro una lunga tavola in cemento, le sedie fissate al suolo. Questi lavoratori vivevano in condizioni orribili. L’unica cosa che negli “ostelli” circolava in quantità e a buon mercato era una pessima qualità di birra che distruggeva i reni. Dieci-dodici anni di questa vita e ne uscivano abbruttiti. Quando tornavano a casa avevano ormai dimenticato le loro tradizioni, o meglio: no, non le avevano dimenticate, ma non ne erano più i portatori.
Le donne nel frattempo li avevano sopravanzati ed erano loro ormai al centro della vita stessa; era come se loro non servissero più a niente. Le conseguenze oggi sono stupri e violenze sulle donne, come conseguenza di quegli anni.
Nelle township, arrivati a quindici anni i figli dovevano andarsene nella homeland alla quale erano assegnati a seconda della lingua imparata dalla madre. Era lo smembramento di un popolo. Naturalmente in qualche caso oggi si assiste anche alla perdita di posti di lavoro, come in molte miniere dove non c’era mai stata innovazione tecnologica, dato che la mano d’opera a basso costo era in grande quantità; oppure in alcune vaste estensioni di terra vicino alla Namibia. Qui, sulle grandi proprietà delle immense fattorie, la mano d’opera viveva senza diritti, ma avendo comunque la possibilità di viverci; le donne ei bambini che lavoravano e anche la mano d’opera esterna, venivano pagati in modo irrisorio; oggi questo non è più possibile e i proprietari bianchi hanno cacciato dai loro terreni la mano d’opera che non sono disposti a pagare secondo le nuove norme.
Certo, risalire la china è duro, ma ora almeno possono risalire. Basta guardare cos’è successo alle ultime elezioni (aprile 2004 nda). Una partecipazione del 90%; in soli tre giorni tutti i risultati erano disponibili. Non per niente la persona responsabile dell’organizzazione delle elezioni era una donna, Pansy Tlakula.
Gianni Sartori
*nota: il rev. Sol Jacob, pastore emerito della Chiesa metodista e docente di Etica al Federal theological seminary, è stato presidente dell’associazione delle chiese metodiste. Ha partecipato alla lotta di liberazione dall’apartheid, è stato incarcerato e posto in isolamento. Sfidando il regime, nel 1977, nella regione del kwaZulu ha fondato una scuola materna interrazziale e interreligiosa che attualmente ospita circa 150 bambini. Nel 2008 ha avviato un progetto di lotta all’Hiv-Aids che si prende cura in particolare degli orfani. Dirige una catena di assistenza alla povertà estrema, con distribuzione di cibo, corsi di formazione e cura dei bambini di strada. Ha operato in campo ecumenico nel South African Council of Churches e presso l’Onu per la Commissione rifugiati e migranti.
** nota. Soprannominato Quisling, Buthelezi (lo ricordo per giovani e smemorati) veniva invitato a Rimini da Comunione e Liberazione e fu anche un riferimento per l’area “tercerista” nostrana (chissà, forse gli ricordava gli Ascari…)