FUKUOKA. In Giappone non c’è una data per «Oppenheimer», in realtà non c’è proprio un posto per il film che vogliono vedere in tanti, ma senza sapere come o quando. Senza essere sicuri che sia davvero il caso di mettercisi davanti. È complicato, perché l’unica data che riguarda il tema è il 6 agosto e si prende lo spazio intero, occupa qualsiasi sentimento nazionale riguardo alla bomba che non doveva essere e che invece ha devastato generazioni.
Bisogna almeno aspettare che passi la ricorrenza, giorno della distruzione di Hiroshima che si ripete il 9 agosto con lo stesso strazio per Nagasaki. Un anniversario carico di silenzio come i 78 che l’hanno preceduto, occupato da rispetto e domande che non possono toccare un prodotto di intrattenimento culturale, per giunta promosso insieme con Barbie.
Corto circuiti dove non è neppure considerabile la minima scintilla. «Oppenheimer» ha iniziato a vagare per Hiroshima e dintorni come un fantasma, un evento destinato ad arrivare, prima o poi, e soggetto di discussioni che non hanno mai una fine. Come minimo, per mettersi di fronte a un punto di vista americano su una realtà così tanto giapponese serve essere preparati.
Al cinema, in qualsiasi cinema, c’è «The Boy and the Heron», ultimo lavoro di Miyazaki che si apre con un ragazzino in fuga per le strade di Tokyo nel 1944, mentre le sirene si alzano sulla città terrorizzata. Tesoro uscito dal celebrato studio Ghibli, lo stesso che ha messo in cartone animato «Si alza il vento», la storia del giovane che avrebbe creato i caccia usati per il fuoco a Pearl Harbor. La Seconda guerra mondiale non perseguita soltanto noi.
Nelle librerie si vede la riedizione di «Hiroshima nōto», Note da Hiroshima, del premio Nobel Ōe Kenzaburō, morto proprio quest’anno. Lui è stato uno dei primi a dare una visione globale del disastro in lingua madre, a fornire dati esportati, parole tradotte per raccontare i danni a lunghissimo termine. Quelli che altrove, per decenni, hanno finto di non vedere. In queste pagine si parla di ragazzi nati morti, così menomati da non poter sopravvivere alla bomba che li ha preceduti. Si disegna un mondo finito, abitato dagli hibakusha, vocabolo usato per definire i sopravvissuti.
Secondo il ministero della salute, oggi sono intorno ai 110.000 e hanno una media di 85 anni. Secondo chiunque, in Giappone, nulla può essere fatto senza il loro consenso, almeno nulla che li riguardi e «Oppenheimer» è affare loro. Così sì aspetta, anche perché il blockbuster statunitense si presenta giusto a ridosso della ripresa di un piano energetico nucleare a pieno regime dopo lo stop seguito al dramma di Fukushima e il 6 agosto si porta già dietro questo fastidio.
In Giappone non sono abituati a manifestare dissenso, dire no è culturalmente complesso, ciò non significa accettare a prescindere, piuttosto trovare modi alternativi per negare il favore, l’approvazione. Nel 2015 l’emittente Nhk ha promosso un sondaggio in cui il 40 per cento degli spettatori si è detto convinto che l’attacco americano era l’unico modo possibile per chiudere il conflitto e che, pur consapevoli della devastazione, nemmeno gli Usa si immaginavano l’orrore che ne sarebbe seguito.
Il risultato destabilizzante, in qualche modo, promuoveva la necessità di un futuro in cui l’alleanza tra Giappone e Stati Uniti potesse continuare senza «tabù», così l’ex premier Shinzo Abe chiamava il buco nero dei rapporti diplomatici legato alla bomba. Cercava di chiuderlo, anche nei discorsi ufficiali, soprattutto in termini di difesa rispetto all’instabilità della Corea del Nord e all’isolamento della Cina. Però il fatto che Abe sia stato assassinato non ha certo spinto la politica a completare le sue aspettative. L’attuale primo ministro Fumio Kishida ha parenti che vengono da Hiroshima, ha voluto ospitare l’ultimo G7 proprio lì, dove ha parlato di «denuclearizzazione», parola che non trova pace e che fatica a reggere persino un film.
Oppenheimer è il trattato definitivo sul concetto di ambiguità morale
Oppenheimer, il grande ritorno di Christopher Nolan, l’ultimo, vero, grande narratore autoriale capace di offrire un intrattenimento popolare è un film incredibile, viscerale, potentissimo.
Può essere definito anche il suo miglior film dai tempi di the Prestige, per come affronta tematiche molteplici in modo coerente e affascinante, ma soprattutto sa regalare un viaggio emotivo unico, mentre ci illumina su uno dei momenti cardine della storia dell’umanità.
Non un banale biopic ma un film universale
Oppenheimer non è banalmente il film sulla genesi dell’atomica, non è neppure un biopic in senso stretto, classico, ma un film che azzera la concezione di genere perché li comprende un po’ tutti. Il regista ha parlato di una forte connessione all’horror, in diversi momenti lo è, così come un thriller, un dramma giudiziario, una commedia, un melò, uno scif-fi. Ma ciò che ci ha donato Christopher Nolan in questo film, dove regnano sovrani il dialogo, i primissimi piani, diviso tra il bianco e nero della modernità maccartista e il passato pieno di illusioni, è soprattutto il più completo ed esaustivo racconto cinematografico sul concetto di ambiguità morale.
Questo tema domina tutti i 180 minuti di un’odissea in cui Cillian Murphy, dimostra ancora una volta di essere se non il miglior attore della sua generazione, di certo quello più abile nel rendere trasparente ogni emozione, pur alle prese con un uomo fatto di incomunicabilità, solitudine e sileni. Robert Oppenheimer, mostro per alcuni, eroe per altri, mente eccezionale e cardine del progetto Manhattan, è un uomo in pena, ricolmo di difetti tanto quanto di quel genio, che in certi momenti maneggia con lo stesso noncuranza con cui farebbe il bambino con la pistola del padre. Il fatto più incredibile, è che ne è perfettamente conscio, è un mix di speranza e cinica coscienza dei suoi e altrui limiti.
Oppenheimer spazia dagli anni ‘30 alla vergogna della persecuzione negli anni ’50, in quell’America che era ossessionata dal comunismo, dall’incubo nucleare e dalla supremazia da ottenere mediante il fungo atomico.
Invece i sovietici ci sono arrivati all’atomica, contro ogni aspettativa, contro il supposto vantaggio tecnologico, ma di chi è la colpa? Chi è il traditore che li ha messi al corrente del lavoro svolto al Los Alamos? Come è possibile fidarsi di quello strano scienziato, con un passato di simpatizzante comunista? Domande, dubbi, che inseguono il creatore della bomba, che scopre con orrore di aver sopravvalutato la società, la politica, persino gli scienziati che vedeva sopra tutto e tutti.
Oppenheimer si muove completamente all’interno della mente del suo protagonista, questo riguarda anche la lunghissima parte ambientata nel deserto, il suo deserto, quello che lui conosceva così bene, sorta di scatola dentro cui Dio ha deciso che sta succedendo l’inimmaginabile. Lì il moderno prometeo libera una forza, un futuro, di cui ignora il volto ma intuisce instabilità, pericoli, incognite ma pare incapace di fermarsi.
Solo per il nazismo con cui è in gara? No, è l’Ulisse di Omero che incurante visita luoghi e mostri, che va verso l’orizzonte anche assomiglia alla fine del mondo. Il mito, torna più e più volte nella sua accezione semiotica e simbolica in questo film. Fuoco, terra, cielo, sono i supporti primari della trama di Nolan ,luce e tenebra non ci lasciano mai, sono dentro gli occhi di Robert, quelli di sua moglie, il futuro di cui atterrito si rende conto di non aver capito niente. Oppenheimer si guarda da un buco di una serratura, vede il suo lento diventare morte, distruttore di mondi. Nessuno pare veramente capirlo, né il Generale Sorge di un bravissimo Matt Damon, né i suoi vari colleghi, neppure la moglie, una struggente e feroce Emily Blunt. Forse solamente la Jean Tatlock di Florence Pugh può farlo, lei che è Eros e Thanatos assieme, è portatrice di quella verità che Omero già legava alla disgrazia.
Nolan ci dona il film definitivo della nostra epoca
Ambiguità morale si diceva poc’anzi e Oppenheimer ne è ricolmo dall’inizio alla fine, interessa la vita privata così come la natura stessa della fisica, della scienza, non più qualcosa di universalmente utile all’uomo, ma di schierato, di parziale.
Robert che tradisce amici e mogli, che è comunista ma poi decide di smettere di esserlo, che abbraccia l’utilità della bomba su civili inermi come estrema ratio per cancellare tutte le guerre, per salvare vite.
L’ambiguità riguarda la stessa natura della scienza, non solo dell’atomo. Crede nella bomba come mezzo di pacificazione, mette al servizio di questo la sua e altrui conoscenza in fieri, basata su quella fisica che in nazisti indicavano come scienza dei giudei, ed è un’Odissea del possibile e del fallace magnifica. Scoperta significa rivalutazione, creazione di un nuovo credo che deve essere anche morale, non solo scientifico.
Nasce non solo la bomba a Los Alamos, ma un nuovo modo di concepire la vita umana, l’umanità su questa terra, il suo rapporto con il divino.
La verità? Nessuno è colpevole, nessuno è innocente, perché ogni sistema di potere che qui ci viene messo di fronte, ha un alibi assolutamente plausibile, una spiegazione logica per cui Hiroshima è avvenuta. Ma lui, Robert Oppenheimer, non è sicuro, anzi ciò che Cillian Murphy riesce a rendere in modo perfetto è la falsa certezza di cui sia arma, mentre invece è letteralmente ossessionato da dubbi che mette in soffitta. Oppenheimer non ci dà una risposta definitiva su quel giorno di agosto del 1945, e lo fa con una onestà disarmante una coerenza d’insieme che poi si palesa paradossalmente nel personaggio più ambiguo, più torbido: Lewis Strauss, il grande nemico di Oppenheimer, colui il quale anticipa i “guru” diventati tali per conoscenza degli altri, bugie, mania di protagonismo scevra dalla conoscenza reale.
Gli Stati Uniti non vogliono che l’intelligenza artificiale controlli le armi nucleari
Il Dipartimento di stato propone delle linee guida globali per lo sviluppo dell’Ai militare, ribadendo però che le decisioni sulle atomiche spettano all’uomo
A lui il fu “Iron Man” Robert Downey Jr., dona una suprema malvagità perché abitata dall’emozione umana, qualcosa che a molti tra quei protagonisti manca, presi come sono da numeri, teorie, tavole degli elementi e soprattutto sé stessi. Fatto ancora più importante, Oppenheimer ci ricorda la sostanziale differenza che vige tra progresso e avanzamento tecnologico. Non sono la stessa cosa, Nobel che inventa la dinamite per aiutare i minatori, contemporaneamente fa nascere un mezzo di morte, l’atomo che ci svela la realtà della natura, viene usato per creare gli arsenali nucleari, puro avanzamento tecnologico, il peccato scientifico più grande che esista. L’egoismo umano cancella il miglioramento collettivo per abbracciare una visione personalistica ed egoistica della società, la parzialità di visione tipicamente americana.
In quest’epoca fatta di Intelligenza Artificiale e bulimia tecnologica, in cui il nostro rapporto con la scienza e con noi stessi risulta sempre più complicato, Oppenheimer è l’opera cinematografica più rappresentativa del nostro tempo, del nostro mondo.
Segna anche un punto di svolta nella cinematografia di Nolan, qui molto meno criptico, molto meno complicato dal punto di vista narrativo rispetto al suo passato, a Tenet, Inception o Interstellar, da cui si allontana anche visivamente, abbracciando l’essenza di un racconto intimo incentrato sui personaggi come faceva agli inizi. Dov’è il bene? Dov’è il male? Davvero la causalità è l’unica spiegazione? Davvero esiste un limite così chiaro tra giusto e sbagliato? Dove sta il potere? Nelle tenebre o nella volontà, forza anche più forte della gravità, degli elettroni che vorticano o della religione? Esiste ancora un Dio? Sono le domande che vi farete anche voi alla fine di questo viaggio che riporta il cinema al centro della nostra vita, con buona pace di streaming e compagnia bella. Perché solo sul grande schermo si può capire l’essenza di una narrazione, che ci parla di quando per poco non abbiamo distrutto noi stessi. Anche per questo, Oppenheimer sarà ricordato come il grande film di quest’epoca assieme a Don’t Look Up.
Grazie per aver condiviso questi testi preziosi: nobile il ricordo di Enzo Apicella, amareggiata la nota di Vito Totire sull’arma definitiva per porre fine alle armi, approfondita e non scontata l’analisi che Vincenzo Miliucci ha fatto del film di Nolan.
Lo scrittore di fantascienza Robert J Sawyer, molto considerato qui in Bottega, ha in parte criticato “Oppenheimer” perché, secondo lui, certe inattendibilità storiche potevano essere evitate e altre cose del genere (https://www.fantascienza.com/29114/robert-j-sawyer-critica-l-oppenheimer-di-nolan).
Dal punto di vista dell’immaginario, invece, per me è inevitabile un confronto con l’ottavo episodio della terza stagione di Twin Peaks, dove David Lynch ricostruisce da par suo l’esplosione del Trinity Test, in una visione surrealistica e immaginifica (all’epoca della messa in onda ne hanno scritto qui, per esempio: https://www.seriangolo.it/2017/06/twin-peaks-3×08-the-return-part-8/).
Ho finito di vedere ora per la seconda volta Oppenheimer e mi ha lasciato ancora una volta senza fiato ma con costante un raspino in gola che non riesco a togliermi. Il buon Andrea ha citato Sawyer che anche su mastodon ha espresso le sue opinioni negative sul film, e io non posso che dargli ragione. Il film e’ composto da due parti distinte: la storia che ha portato il fisico a diventare il padre della bomba atomica (il peccato originale della scienza) e successivamente lo scontro con Strauss. L’analisi del personaggio Oppenheimer e’ da Nolan, o forse da un Nolan che mai avevo visto cosi’ al suo splendore.
Ma nonostante questo non mi ha convinto. Sembra che in fondo passi l’idea di un Oppenheimer complesso, assorto dalla fisica, ma alla fine assolto dalle sue responsabilità perché in fondo non e’ stato lui a buttare la bomba. E poi perché e’ stato perseguitato da Strauss. E poi perché quando dialoga con il presidente degli Stati Uniti, proponendo un accordo bilaterale sulle armi atomiche con la Russia [no non posso, sarebbe spoiler…]. Ho avuto insomma la stessa sensazione di quanto avevo guardato “The Imitation Game” sulla vita di Alan Turing: bellissimo, immaginifico, avvincente, ma poco accurato.
E’ un film da vedere più e più volte per apprezzarlo ed amarlo al completo e forse e’ uno dei film più belli che ho visto in questo ultimo periodo. Con un MA.