«7 minuti»: al cinema ritorna la classe operaia

di Domenico Stimolo  

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Torna sugli schermi la “mitica” classe operaia. Relegata ormai nelle rappresentazioni culturali e nello spettacolo all’archeologia sociale. Eppure sono donne e uomini ancora ben presenti nelle variegate e complesse strutture lavorative del Paese. Operai e impiegati: questi ultimi in gran parte considerati di “basso rango”, senza identità specifica. Milioni di “unità” che quotidianamente, ormai quasi del tutto silenti, “sciamano” da casa al posto di lavoro. Dalle fabbriche ai cantieri edili, dagli ipermercati ai “non luoghi” della logistica e delle campagne, dai call center agli anonimi uffici. La paga media – come ben noto – in Italia è tra le più basse in assoluto a livello europeo, giusto per la sopravvivenza, senza sciali e spassi. Mentre impazzano le pubblicità del lusso. E i disoccupati stanno a guardare.

Nel film di Michele Placido emergono con forza alcune specifiche e prorompenti questioni, tutte all’ordine del giorno. Al centro ci sono le donne, in quanto lavoratrici e portatrici di peculiarità quotidiane. Il contesto è un comparto industriale che nelle filiere nazionali nel corso degli ultimi vent’anni è stato grandemente ristrutturato. Smantellato o riassettato nelle strutture proprietarie: gran parte dei segmenti produttivi sono stati dirottati in decine di Paesi sparsi per il mondo, detti a basso costo cioè per uno sfruttamento più libero delle lavoratrici e dei lavoratori. Una fabbrica tessile di consistenti dimensioni, con trecento addette. Il soldo della retribuzione, sempre più ridimensionato – “vile” poiché il lavoro è considerato merce – è fondamentale per la magra esistenza dell’assoluta stragrande maggioranza degli umani. L’angoscia esplode quando si perde il posto di lavoro, per lo più nelle forme precarie e temporalmente delimitate.

Il film, per la quasi totalità del tempo, si svolge al chiuso. E’ lo stanzone in uso del Consiglio di Fabbrica: molto bello il riutilizzo di un termine glorioso, ormai in disuso nelle dizioni nazionali. Le undici donne componenti del Cdf ( alcune, immigrate di lungo corso, rappresentano la nuova Italia) devono decidere: le altre lavoratrici aspettano fuori, sulla strada circostante la fabbrica… L’occupazione potrebbe essere imminente?

Ci sono state agitazioni sindacali alla notizia di cessione. Il sito produttivo è stato venduto dagli storici proprietari a una azienda multinazionale francese. Tutte le incognite sono in angoscioso agguato. Già negli anni precedenti le lavoratrici hanno affrontato tribolazioni. C’è ansia, sofferenza, speranza. Una clausola nell’accordo pretesa dai nuovi padroni suscita grande perplessità e vivacissime discussioni nel Consiglio di Fabbrica. Si scontrano in maniera drammatica i “vissuti” e i ragionamenti delle rappresentanti sindacali che devono decidere e votare il contenuto dell’accordo, prima di esporlo alle trecento lavoratrici. A l centro della riflessione il punto di vista di una loro rappresentante, la più anziana ed esperta, scelta dal Cdf per sentire direttamente le decisioni dei vecchi e dei nuovi padroni.

Il nodo del contendere è rappresentato dai 7 minuti in meno della pausa pranzo. Nello scorrere del tempo i 45’ iniziali si sono già ridotti ai 15’ vigenti, che dovrebbero quindi diventare 8 minuti. Sette minuti. Che sia uno stratagemma per sondare il polso, per imporre poi i temutissimi tagli e licenziamenti? Su questo dubbio, che si insinua in maniera lancinante, si apre un confronto serrato. I vecchi e i nuovi proprietari aspettano. Le lavoratrici, all’esterno, festeggiano la “voce” propagata che riguarda il mantenimento occupazionale. Il confronto, iniziato in maniera pacata, mentre girano le lancette delle ore, in un crescente assillante, diventa angoscioso, lacerante, drammatico e commovente. L’acutezza dei ragionamenti è patrimonio di tutti. Guarda un po’ anche gli operai sono in condizione di riflettere in maniera adeguata. Dignità e diritti restano in “prima fila”, proprio in una fase storica finalizzata a cancellarli.

La tensione è altissima. Lo scontro – proprio perché riguarda il potenziale destino occupazionale di trecento lavoratrici – tra le diverse opinioni assume anche caratteri furibondi. E’ la realtà, nuda e cruda, che impetuosamente irrompe. Come sempre accaduto nel corso della storia nel mondo del lavoro e del sociale: le decisioni sofferte che hanno attanagliato lavoratrici e lavoratori, organizzazioni sindacali e movimento operaio, in decine di migliaia di vertenze. Con linguaggio vero, senza ritrosie, tutti gli umori vengono allo scoperto, come impone l’intensità dell’avvenimento. Non la solita finzione insulsa che da lungo tempo viene propinata nella informazione e nella rappresentazione del mondo del lavoro.

La conclusione è più confacente scoprirla in sala.

Un lavoro eccellente da parte del regista, Michele Placido, che ha ripreso un’opera teatrale di Stefano Massini incentrata su una importante vertenza sindacale che si è sviluppata in Francia alcuni anni addietro. Interpretazione egregia da parte di tutte le attrici: Ambra Angiolini, Cristiana Capotondi, Anne Consigny, Fiorella Mannoia, Maria Nazionale, Ottavia Piccolo, Violante Placido, Clèmence Poèsy, Sabine Timoteo.

PS

Una considerazione sorge pressante. In un riassetto globale della composizione proprietaria che riguarda una fabbrica di consistente dimensioni, nella definizione dell’intesa che interessa in particolare le condizioni contrattuali, nell’esperienza consolidata in Italia il Cdf agisce sempre in stretto raccordo con i sindacati, Nel film invece sono assenti. Come mai? Solo il regista può dare una risposta. Prevedibilmente è solo uno “stratagemma” per dare un ruolo esclusivo alle lavoratrici rappresentanti sindacali.

 

Redazione
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