«7171» di Enrico Pili: fra carcere e cornucopie

Scarafaggi e mosconi che intonano dolenti blues. Sbirri che parlano latino ma dispongono di pistole galattiche e di manette-colla da far invidia all’Uomo Ragno. Nelle pause pubblicitarie la donna nuda è sdraiata sulla berlina ma George Clooney preferisce farsi masturbare dalla vettura. E in questo romanzo-cornucopia di un sardo verace l’Isola non poteva mancare: appare e scompare fra maschere antiche, indipendentisti e un bandito che sembra un Grazianeddu più feroce ma anche più simpatico e imprevedibile rispetto al vecchio Mesina.

Al suo quinto libro (5 e mezzo, contando un lungo racconto) il sestese – cioè di Sestu, nell’hinterland cagliaritano – Enrico Pili colpisce in pieno il bersaglio con un romanzo del tutto insolito nel panorama – ingessato a dir poco – della nostra editoria.

Pubblicato da Carta d’imbarco di Scuola sarda editrice, «7171, l’attesa del giudizio» (432 pagine per 15 euri) mescola un duro, motivato «j’accuse» con toni da Groucho Marx e inserti visionari che …neanche il Dumbo del film disneyano quando si ubriaca. La sua originalità è qui: c’è una trama solidissima eppure le pagine divagano, impazziscono, giocano con altri mondi. Il narratore e i protagonisti usano le parole e le frasi come se fossero appena nate e dunque variandone, mescolando, reinventando significati e contesti. Parole sotto luce nuova, invitandoci a cercare un altro modo/mondo possibile per esprimerci perché il linguaggio crea immensi spazi interni ed esterni mentre chi possiede un vocabolario ristretto finisce col chiudere in gabbia se stesso e gli altri, le altre.

Da un lato «7171» propone una storia tragica di galera e intrighi politici che si ispira alla vicenda vera di Luigi Scricciolo. A togliere ogni dubbio che di lui si tratti, sulla quarta di copertina invece del ritratto di Pili spiccano faccia e annesso sigaro di quello che qui viene ribattezzato Alessandro Rigolo. Questa aderenza al reale, l’impegno del libro per restituire a un innocente il suo «perduto onore» spiega anche il patrocinio della Provincia di Cagliari al romanzo e la promozione di convegno che, fra qualche mese, ricorderà “Luigino”. Il numero nel titolo rimanda ai giorni che l’ex sindacalista della Uil restò prima in galera e poi in attesa di giudizio, per essere prosciolto appunto dopo 7171 giorni; ma il protagonista dell’incubo li conteggia in ore, milioni di minuti (10.326.240) o se preferite 619.574.400 secondi.

I meno giovani ricorderanno che Rigolo, cioè Scricciolo, negli anni 80 fu accusato di quasi tutto: essere delle Brigate Rosse nonchè una spia bulgara e complice di Alì Agca nell’attentato a Wojtyla. «E per aver bruciato il Colosseo, no?» commenta con amarezza nel libro uno dei (pochi) amici dell’uccellino – lo Scricciolo – ingabbiato. Non posso tacere una questione personale: ero un buon amico di “Luigino” (che è morto all’improvviso nel marzo 2009) e questo spiega perché Pili mi inserisca nei “ringraziamenti”: il mio Scricciolo è estremamente vicino sia a quello verosimile che a quello irreale che vengono evocati  – sempre con grande affetto – nelle pagine di «7171».

In una parte del romanzo dunque domina la concreta galera: camminare avanti e indietro nella cella; pensare al “disonore”, masturbarsi; passare 160 ore in silenzio; contare i minuti e persino i secondi; far lo sciopero della fame; avere visioni; pensare al suicidio e poi tentarlo maldestramente; chiedersi se – nell’attesa di un Giudizio (maiuscolo per ironia) che non arriva – sia meglio curare il fisico o ripassare il Dante che da piccolo si conosceva a memoria (come da buona tradizione popolare); infine capire se trasformandosi in un vegetale, in una pianta si possa ancora essere citati in giudizio o perseguiti dalle attuali leggi. Ed ecco il colpo di scena: Rigolo «pianta di melo» non è – «al contrario dei feti o di certi mentecatti integralisti » – una persona. L’assurdo giuridico trionfa: Scricciolo non è più lui, va liberato e finalmente può difendersi. Così si chiude la prima parte («Anche se il ramo trema») del romanzo che riguarda il periodo 1982-84 e si apre la seconda («Che mi importa di Faust e dell’inferno?) che dal 1984 ci porta al 2002 e al totale proscioglimento… senza giudizio.

Dall’altra parte nella vera tragedia di un Dreyfuss in piccolo (o per restare all’ Italia recente di un Tortora, di un Girolimoni) irrompe subito la fantascienza, visioni alla Bosch e alla Dalì, misticismi squinternati ma geniali e carichi di energia come nel film rock «Tommy» o in «Underground» (entrambi citati infatti); per strada incontriamo angeli azzurri, il «barone rampante» e altri personaggi di Italo Calvino, tassi e puzzole parlanti, inquisitori che escono dai romanzi di Valerio Evangelisti e moltissimo altro. Si incrociano personaggi realmente esistiti. Facilissimo riconoscere, pur se i nomi spesso risultano alterati o anagrammati, Walesa, Bettino Craxi, Dario Fo, Andreotti, Aldo Moro, un regista pallanuotista, la Rossanda, Mario Capanna, Toni Negri, il disgustoso Pio Laghi amico dei golpisti argentini, D’Alema, Weltroni, moltissimi dirigenti del sindacato. Sono loro eppure… quasi sempre si comportano in modo dissonante dal mondo che conosce (o crede di conoscere?) chi sta leggendo.

Era difficile frullare tutto questo insieme e farne uscire un sapore nuovo, piacevole: Pili ci è riuscito, cadendo in pochissimi peccati (qualche ripetizione, ogni tanto un tono comiziesco, un paio di voli che neanche Pindaro col jet) ma compiendo più miracoli lui che mezzo calendario di santi. Dal punto di vista letterario è prodigioso il controllo del linguaggio in ogni fase e persino attraverso i generi (giudiziario, curiale, dotto, volgare…) come il mescolare l’ironia e il dramma, il reale e il moltiplicarsi di mondi immaginari.

L’assurdo in cui Rigolo-Scricciolo sprofonda per anni – senza neppure incontrare i suoi accusatori e senza che nessuno (o quasi) lo aiuti – viene presentato da Pili come un livello di realtà nella quale ognuno potrebbe cadere. «La realtà-fantasia è un giudizio che non arriva mai». Eppure chi cerca verosimiglianza con l’Italia ne troverà a brandelli perché il realismo è solo una fra le 7 note di questo spartito. Qui sta la novità, anche rispetto al genere noir più allegorico, con la quale gioca il romanzo: avrebbe detto Philip Dick – giustamente omaggiato – che abbiamo trovato «la penultima verità» e forse Pili aggiungerebbe con un ghigno «ed eccovi il penultimo gioco». Vero o falso? titola un settimanale enigmistico: tutt’e due risponde il libro.

In uno dei sentieri laterali del romanzo, eccoci nel Supra Montes dove si decide di snidare il bandito con il napalm. Nel romanzo di Pili questo dramma si trasforma in una delle molte cornucopie: dalla grotta infatti con pecore e mufloni escono «un ippogrifo, qualche ornitorinco, lucciole pasoliniane e pordenoniane, elefanti che ovviamente si dondolavano su una ragnatela, draghi di Komodo, sette iguana di cui uno visibilmente gay, foche monache, okapi, panda e persino un notaio». C’e sempre purtroppo un notaio in questo universo così impreciso.

Si ride spesso ma senza dimenticare le pene di Rigolo-Scricciolo e il tremendo dubbio che lo accompagna per gran parte dei 7171 giorni: potrei collaborare, ammettere, persino abiurare ma in che modo? … Non ho nulla da offrire agli inquisitori, pardon ai boia, scusate volevo dire ai magistrati. Pure volessi vendermi non ho da offrire che me stesso. Neppure alla fine il protagonista capirà perché è successo proprio a lui.

Nella nota iniziale (scritta in un corpo inaccessibile ai miopi) Pili chiarisce che «un’ampia parte di questo romanzo è frutto di pura fantasia, un’altra rappresenta la libera interpretazione che l’autore fornisce della vicenda di Luigino Scricciolo». Ovvio che chi è giovane o smemorato leggerà il romanzo quasi senza accorgersi che Prax ricorda un certo segretario socialista o che Korsikos somiglia a un ex presidente della repubblica (che, come certi americani, si può scrivere con la K per vicinanza ideologica al Ku Klux Klan). E godrà del romanzo pur se ogni tanto troverà curiosi richiami a quel Paese del Sud Europa a forma di stivale. Ma è pure ovvio che i meno giovani ogni tanto si faranno distrarre dalla trama (e forse non è un bene) per capire meglio le tesi e le simpatie anche politiche dell’autore rispetto all’Italia fra gli anni ’80 e questo deprimente inizio di nuovo (o forse taroccato) secolo. Il mio parere è che, giusto o sbagliato, il discorso più politico – sia palese che ammiccante – non è il pregio di questo libro. E lo direi forse (mi concedo da solo il beneficio del dubbio) pur se fossi in totale accordo con alcune tesi di Pili che invece non condivido: l’idea per esempio che Bettino Craxi sia stato la vittima di una grande congiura mi trova dall’altra parte della barricata. Ma il pregio del libro è di lasciare sempre (o quasi) a chi legge il piacere e la fatica di scegliersi uno degli «infiniti mondi» possibili nel quale collocare la sua Storia con la S maiuscola.

Infine qualche chicca.

Segnalo agli amanti delle stranezze matematiche il riferimento numerico all’insurrezione popolare in Birmania ma anche l’atroce stranezza delle 6 dita moncate. Ai cultori di religioni extravaganti invece suggerisco di adottare nei loro riti quanto suggerisce il libro: «versate una lacrima di mango nel tempio di Manitù» (impresa tosta visto che Manitù non ha templi). Agli studiosi di statistica e/o ai ministri brunettanti faccio notare che ci sono molti sbirri impegnati «in attività poco importanti»; secondo Istat-Pili addirittura 206.618. Ai politici, ai filosofi e se passa di qua anche a Newton sottopongo il quesito se davvero «l’emergenza è l’ordine delle cose». Invito gli amerikanofili (con la k sì) come gli anti-yankee a un minuto di riflessione sul fatto che «un attore di b-movie» sia diventato presidente degli Usa e il mondo sia solo un pochino peggiore di prima. Ai pignoli chiedo di verificare dove e quando Salvemini ha detto «se ti accusano di aver violentato la madonnina del Duomo, prima scappa e poi, quando sei all’estero, discolpati». Ai nemici di Tremonti suggerisco vigilanza per la famosa quartina di un poeta sardo: «Tancas serradas a muru, fattas a s’afferra afferra, si su chelu fit in terra l’haian serradu puru»: naturalmente la traduzione in italiano c’è (a pagina 397) ma io … voglio farvi comprare il libro e dunque non ve la do.

Chissà se in questa continua baraonda fra non verosimiglianza e realismo la bella citazione di Majakovski (a pag 355 ma è richiamata nel titolo della seconda parte) è volutamente travisata; in ogni caso l’originale mi sembrava più efficace proprio perché un chiodo è meno doloroso (e poetico) se piantato in una scarpa anziché nel cuore.

Non ci sono molti romanzi paragonabili a «7171», almeno che io conosca. Il principale riferimento – e correttamente l’autore fornisce qualche indizio – è «Mattatoio 5» di Kurt Vonnegut. Di fronte all’orrore dei bombardamenti di Dresda (che era stato vissuto in prima persona da Vonnegut) quel romanzo rimbalzava da un lato nella fantascienza e dall’altra faceva riemergere un orrore che ha dell’inverosimile, la crociata dei bambini: tre livelli narrativi, stilistici, di realtà-irrealtà. Pili non ha voluto imitare «Mattatoio 5» ma ha saputo tener conto di quella lezione: le battute di Totò e la profezia (o è una bufala?) sulle api di Einstein, gli «infiniti mondi» di Giordano Bruno, Peter Sellers e i canti a tenores, la Forza e Kafka …tutto si mescola e si tiene. I vocabolari spiegano che ossimoro significa l’accostamento fra parole di senso opposto. Come azzarda una felice battuta di Pili, l’articolo 1 della Costituzione proclama che «l’Italia è una  repubblica fondata sull’ossimoro».

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