I palestinesi hanno solo la libertà di decorare la propria cella
intervista a Noura Erakat con gli articoli di Shahd Abusalama, Patrizia Cecconi e Alessandra Minconet
intervista a Noura Erakat
Pubblichiamo un’intervista trasmessa dalla CBSN a Noura Erakat, attivista a avvocato palestinese, nei giorni dell’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Ne scaturisce una lucida e dirompente analisi sullo squilibrio che ha caratterizzato i negoziati di pace tra Palestina e Israele fino ad oggi. (Traduzione di Luca Urbinati)
Gaza. Tre bambini fatti a pezzi da Israele – Patrizia Cecconi
La notizia che tra Israele e Gaza, con la mediazione dell’Egitto, fosse stato raggiunto il cessate il fuoco non ha quasi fatto in tempo ad essere stampata che un’azione mostruosa commessa da Israele potrebbe averla resa nulla.
La tregua firmata ieri dalla Jihad, decisione che ha creato qualche perplessità in quanto l’accordo è stato firmato da un movimento politico e non dai rappresentanti dell’autorità che governa Gaza, oggi forse si può considerare rotta. I rappresentanti della Jihad, infatti, avevano pubblicamente affermato che “il cessate il fuoco verrà rispettato finché Israele lo rispetterà” e Israele questa sera, prima ancora che arrivasse la notte non lo ha rispettato, uccidendo tre bambini.
Tre bambini di circa 12 anni che avevano tentato un’avventura folle. Una cosa di quelle che se fosse riuscita li avrebbe fatti sentire degli eroi partigiani degni di essere ricordati e onorati, il giorno in cui Gaza sarà finalmente libera, magari da un grande regista che avrebbe dedicato loro un film, un po’ come Tarkovskji con il pluripremiato “L’infanzia di Ivan”. Il paragone non è azzardato perché una serie di circostanze sono simili. Ivan era un bambino di 12 anni nell’Europa tormentata dalla Seconda guerra mondiale e aveva perso i genitori per mano del nazismo.
Khaled, Abdul e Mohammed, i tre bambini che hanno tentato l’avventura mortale, non sappiamo ancora se fossero anch’essi orfani come Ivan, ma sappiamo, per triste esperienza, che sicuramente nelle loro case erano appese foto di fratelli o genitori o altri parenti martiri. Perché non c’è famiglia a Gaza che non abbia almeno un martire e spesso molti di più.
Ivan decise di combattere contro gli invasori nazisti e Khaled, Abdul e Mohammed decidono di mostrare che saranno capaci di rompere l’assedio imposto dagli invasori della loro terra.
I tre ragazzini vivevano nella stessa area, Wadi al Salqa, un luogo dove la mancanza di depuratori e le acque reflue rendono l’aria irrespirabile. Dove avranno concepito la loro idea di rompere l’assedio? Magari tornando insieme da scuola, oppure seduti sulla sabbia di fronte a quel mare che Israele blocca col suo assedio! Quali discorsi avranno dato loro il coraggio di affrontare un nemico tanto forte pensando di non essere scoperti? Come Ivan, che non accetta di essere protetto ma vuole stare in prima linea ritenendo che solo i vigliacchi si fanno indietro, anche loro hanno voluto affrontare il nemico mostrando che se l’assedio non lo rompe il Diritto internazionale, sempre accondiscendente verso Israele, lo avrebbero rotto loro, piccoli, avventurosi e determinati. Ma come Ivan sarebbero stati fermati dal nemico.
Loro però non hanno trovato davanti a sé un nemico che li avrebbe arrestati, giudicati – sebbene sommariamente – e poi condannati a morte con la crudeltà di cui la guerra in generale e il nazismo in particolare erano capaci.
No, Khaled, Abdul e Mohammed non hanno avuto davanti a sé soldati che li hanno catturati e portati davanti a un tribunale, Israele in questo ha superato di gran lunga le aberrazioni naziste. Israele purtroppo, come ammettono con dolore anche i pochi israeliani sinceramente democratici, non rispetta in nessun modo i diritti dei palestinesi, li fucila come e quando vuole senza che nessuna sanzione delle Nazioni unite fermi i suoi crimini.
Israele si pone al di sopra di ogni norma del Diritto internazionale e somministra, quando vuole, la pena di morte ai palestinesi di ogni età senza arresto, senza istruttoria, senza processo, ponendosi fuori da ogni fondamento democratico, anche solo formale, col plauso del 90% dei suoi cittadini ebrei.
I tre piccoli amici di Wadi al Salqa, intercettati mentre cercavano di rompere l’assedio illegale mantenuto grazie alle complicità internazionali, non sono stati fermati, restituiti ai propri genitori in quanto minori o magari arrestati, no, l’aviazione israeliana si è occupata del caso centrandoli e uccidendoli. PENA DI MORTE SENZA PROCESSO. I loro corpi sono stati smembrati dalle bombe e le ambulanze della Mezzaluna Rossa non sono state fatte passare per soccorrerli. Vietato soccorrere i feriti, se questi sono palestinesi! Solo più tardi, quando Israele ha deciso che poteva disfarsi di quei piccoli corpi smembrati, li ha consegnati alla Mezzaluna Rossa.
Tre vite fatte a pezzi perché sognavano di poter raggiungere la libertà che i loro padri e fratelli non avevano raggiunto. Se su quei pezzi ci si mettesse la faccia dei nostri figli o dei nostri fratelli sarebbe più facile capire cosa significa il diritto all’odio per chi quel figlio o quel fratello lo ha perso e, insieme, il dovere collettivo all’odio verso l’ingiustizia mai sanzionata che perpetua questi.crimini.
I media mainstream parleranno di quest’ennesimo crimine? E se sì “come” ne parleranno? Probabilmente mettendo l’accento sul fatto che i bambini volevano creare una breccia nel muro che li assedia e quindi sono colpevoli della loro stessa fine. Lo diranno con più o meno garbo, ma questo sarà il loro dire perché su una cosa Israele è stato veramente fantastico, nel far dimenticare i suoi torti e le sue colpe primarie, per cui si toglierà l’accento dalla disumanità e dall’illegalità dell’assedio e si darà la colpa ai bambini che volevano creare un varco o, meglio ancora, ai loro genitori, colpevoli di non averli tenuti in casa. In questo modo non si percepirà a pieno la gravità del pluriomicidio, né tantomeno quella dell’assedio e quindi non si sentirà quell’odio contro l’ingiustizia che è l’unico antidoto al suo perpetuarsi impunemente.
Non vale soltanto per i crimini commessi da Israele contro i palestinesi, è un discorso che riguarda l’universo, ma Israele è il paradigma dell’ingiustizia tollerata e legalizzata e basta guardare con lenti oneste le sua storia su terra Palestinese per rendersene conto. Questi ultimi tre bambini che sognavano di dare un esempio per conquistare la libertà saranno probabilmente gettati dai media nel calderone dei “terroristi” lasciando che il mostro prosegua nelle sue stragi indisturbato.
Betlemme 28 ottobre 2018
I Palestinesi meritano la stessa dignità riconosciuta ai figli dei sopravvissuti all’Olocausto – Shahd Abusalama
Mentre scrivo, ricordo le molte volte in cui ho dovuto sedermi in una stanza in cui gli Europei discutevano della loro profonda colpa per le atrocità commesse contro le loro comunità ebraiche. Ricordo altresì i molti momenti estremamente dolorosi in cui mi sono sentita completamente invisibile durante le discussioni sul razzismo, sul colonialismo, sulla giustizia sociale e sui diritti dei rifugiati e dei migranti. Il battito accelerato del mio cuore che mi sopraffaceva insieme agli innumerevoli ricordi di terrore e di dolore, un grido trattenuto che desiderava disperatamente una risposta: perché non c’è alcun sentimento di colpa nei nostri confronti dato che i Paesi europei alimentano e permettono il terrorismo israeliano contro i Palestinesi? O noi non contiamo come persone? Che ne è della questione dei rifugiati Palestinesi, il problema di più lunga data nella nostra storia moderna?
Vorrei poter scuotere la coscienza delle persone e affrontarle ponendo loro davanti un secolo di complicità che, se avessero riconosciuto, avrebbe loro causato una durissima sensazione di colpevolezza nei confronti dei Palestinesi. La situazione era, è e continuerà ad essere cupa fino a quando non verranno intraprese azioni concrete per fermare (non per alleviare) le gravi ingiustizie che per tutti i 70 anni di occupazione coloniale israeliana e di apartheid sono avvenute e avvengono alla luce del giorno e davanti agli occhi di tutto il mondo.
Fino ad allora, i desideri irrealizzati dei nostri nonni che sono morti mentre si aggrappavano fino all’ultimo respiro al loro diritto al ritorno, vi perseguiteranno. Le vite dei molti pazienti che sono morti per malattie minori dovute alla chiusura dei valichi e ai posti di blocco, vi perseguiteranno. I sogni dei nostri bambini. Le grida delle madri palestinesi. Gli anni rubati ai nostri prigionieri politici. Le foto di tutte le nostre vittime, giovani e vecchie. Le gocce di sangue che scorrono da ogni persona ferita. Gli arti amputati. Gli ulivi sradicati. Le case demolite. I ricordi custoditi in ciascuno dei loro angoli. Le terre deserte. Gli occhi insonni che aspettavano da tempo l’alba della libertà. I corpi uccisi che sono rimasti sanguinanti fino a quando non sono stati prosciugati del loro sangue. Il corpo senza vita di Malak Rabah Abu Jazar, una ragazza palestinese di Gaza che le onde del mare hanno spinto verso le coste turche dopo una fallita fuga dalla prigione a cielo aperto di Gaza verso una vita più sicura. Tutto ciò vi perseguiterà, e ignorarlo è a nostro pericolo.
Lungo la recinzione che separa Gaza, una folle enorme si confronta ancora con i cecchini israeliani che si nascondono dietro i cumuli di sabbia e nelle loro jeep militari, andando avanti e indietro a seconda del livello di forza letale che Israele stabilisce si debba utilizzare contro di loro. La Grande Marcia del Ritorno di marzo è arrivata al suo settimo mese, con il campo più volte trasformato in una drammatica scena di spargimenti di sangue e di repressione, il tutto documentato dalla stampa locale e dalle persone sul campo, che vogliono ricordare al mondo le orribili ingiustizie subite dai Palestinesi e spingere a favore di azioni che potrebbero porvi fine.
Mentre queste atrocità continuano impunemente, il discorso dominante dei media occidentali sta trasformando questi eventi orribili in uno spettacolo che distoglie l’attenzione dall’ingiustizia che i Palestinesi vivono sotto Israele e dalle loro legittime rivendicazioni, e comunque ogni notizia viene sempre preceduta da una dichiarazione dell’esercito israeliano atta a giustificare i suoi crimini . Se i media sono riusciti a desensibilizzarvi, ricordatevi che se si accumulassero tutte le lacrime di tutte le famiglie che hanno avuto almeno un membro ucciso, mutilato, annegato o imprigionato, quel fiume di lacrime sommergerebbe la terra.
Nonostante questo lungo processo di disumanizzazione, demonizzazione e pacificazione, e la conseguente repressione israeliana, i manifestanti non si scoraggiano e continuano a manifestare lungo la barriera. Per loro, la scelta rimane tra un inferno vivente o una morte dignitosa. Vogliono disperatamente che il mondo metta a nudo i crimini di Israele. Esprimono l’urgenza di una soluzione politica che non si limiti ai confini di Gaza e alla fine dell’assedio, ma che comprenda la richiesta del Diritto al Ritorno.
I Palestinesi chiedono anche una competente leadership che sappia investire in questa resistenza popolare e nei suoi sacrifici. Le chiedono di correggere il percorso che gli accordi di pace di Oslo del1993 hanno contrassegnato con divisioni interne e marginalizzazione delle questioni fondamentali della lotta anticoloniale, a favore di una delirante autonomia su territori strutturati da bantustan (dove i Palestinesi sono a tutti gli effetti funzionari dell’occupazione israeliana).
I Palestinesi si stanno sacrificando per ricordare agli attori interni ed esterni che la nostra lotta anti-colonialista riguarda la liberazione, non l’indipendenza. Questo era, è e continuerà ad essere la natura della nostra lotta, nonostante quelle mani maledette che tentano di ridefinirla e di distorcerla.
(Shahd Abusalama è una studentessa della Sheffield Hallam University con dottorato di ricerca sul cinema palestinese, nata e cresciuta nel campo profughi di Jabalia, nella parte nord di Gaza, in Palestina. È artista, attivista, autrice del blog My Eyes e co-fondatrice della Hawiyya Dance Company con sede a Londra. Seguila su Twitter all’indirizzo @ShahdAbusalama.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte: https://mondoweiss.net/2018/10/palestinians-holocaust-survivors/?fbclid=IwAR03q5TxicbInjN7RQDmNs0oQ9LCB82RCCuxvkdIgKHxTltj8xlC49gDpws)
Morta per le sassate dei coloni ma viene punita la sua famiglia – Alessandra Mincone
E’ stata vittima di una grave violenza eppure a pagare il conto, almeno per ora, è proprio la famiglia al Rabi. I media palestinesi riferiscono che lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno di Israele, ha revocato i permessi per lavorare nello Stato ebraico al marito e a un parente stretto di Aisha al Rabi, donna palestinese rimasta uccisa circa due settimane fa nell’incidente d’auto causato dai lanci di pietre dei coloni israeliani contro la sua automobile nei pressi di un posto di blocco militare a Nablus.
Una punizione che da un lato grava sulla famiglia dove ora otto bambini sono orfani di madre e fa di Aisha la seconda persona uccisa nella stessa casa, e dall’altro lascia impuniti i responsabili, i coloni israeliani, ossia la rappresentazione più compiuta del sistema di occupazione della Cisgiordania palestinese.
Lo Shin Bet prova a tutelare la propria immagine assicurando che le indagini sono tutt’ora aperte e che “non verrà esclusa la pista di un atto di terrore portato avanti dai coloni israeliani dell’area”. E giustifica il ritiro dei permessi di lavoro ai familiari informandoli che sono dinieghi “temporanei” vincolati alle leggi di Israele.
Il ritiro dei documenti per il marito di Aisha al Rabi, tra l’altro anch’egli rimasto ferito e privo di coscienza nella sassaiola dei coloni contro la sua auto, rappresenta una forma di derisione da parte delle autorità israeliane e una legittimazione degli episodi quotidiani di abuso di potere contro i palestinesi.
Nickolay Mladenov, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha condannato l’attacco alla donna e al marito affermando che “i responsabili devono essere subito assicurati alla giustizia. Urge smetterla con il terrore e la violenza”. Invece secondo il ministro del turismo d’Israele, Yariv Levin, che ha commentato l’accaduto in un’intervista radiofonica, le ragioni del decesso della donna non sarebbero ancora comprovabili, data l’assenza di una perizia del veicolo. Mettendo in dubbio la pista di un’aggressione da parte dei coloni, il ministro ha ipotizzato un semplice incidente d’auto poi strumentalizzato dalla famiglia descritta come “tipi di persone vicine agli ambienti di sinistra che in maniera ipocrita non fanno che incolpare lo Stato Ebraico”.
Ma quello che oggi risulta realmente ipocrita alla luce dei fatti, è che dal 2015 la Knesset, il parlamento israeliano, condanni uomini, donne e bambini palestinesi fino a 20 anni di carcere per il lancio di pietre “finalizzato all’aggressione contro civili e forze dell’ordine”, additando di terrorismo adulti e minori palestinesi in maniera indiscriminata, mentre i coloni israeliani sembrano poter utilizzare quella stessa violenza in maniera legittima nelle aree di forte tensione. Inoltre se un palestinese volesse dimostrare la sua innocenza dall’accusa di aver lanciato sassi con l’intento voler ledere cose o persone incorrerebbe comunque in una pena lunga fino a 10 anni di prigione.
Dal 2018, nel periodo compreso tra gennaio e aprile, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha registrato più di 80 casi di violenze subite dai palestinesi dovute al lancio di pietre ad opera dei coloni israeliani. Nel 25% dei casi viene documentato che prendono di mira le persone in case e automobili, quando appaiono indifese. Invece non sono verificabili i procedimenti penali in corso dove i coloni sono imputati per il lancio di pietre, per una evidente mancanza di uguaglianza delle condanne per israeliani e palestinesi nei tribunali israeliani. Al contrario è da notare ch dal 1° ottobre 2015, quindi allo scoppio dell’Intifada di Gerusalemme, ad oggi più di 2500 minori palestinesi sono stati imprigionati e il capo d’accusa più comune nei loro confronti è il lancio di pietre.
E intanto l’esercito israeliano sperimenta quotidianamente contro i palestinesi i prodotti dell’industria bellica nazionale eletta come la più fruttuosa ed efficiente al mondo.
PAROLA D’ORDINE: GAZA NON SI INGINOCCHIA – Patrizia Cecconi
“Gaza è salda e non si inginocchia”, questa la parola d’ordine del 31° venerdì di protesta lungo la linea terrestre dell’assedio di Gaza.
Per fermare la protesta si è parlato di mediazioni egiziane, poi di mediatori che hanno desistito, quindi di ulteriori dissidi interni tra le due principali fazioni (Hamas e Fatah) che sembrano sempre più irresolubili e che faciliterebbero la minacciata aggressione massiccia israeliana. Poi timidamente – perché di fronte a Israele le istituzioni internazionali sono sempre timide – l’Onu ed alcuni governi hanno invitato lo Stato ebraico a limitare la forza, alias la brutale violenza omicida, ma è più elegante chiamarla forza. Quindi è sceso in campo il re di Giordania per rivendicare il diritto ai “suoi” territori in West Bank prima che Israele riesca a realizzare il suo obiettivo di annetterli completamente come sa già fin troppo bene ogni osservatore onesto.
Intanto in tutta la Palestina Israele uccide (l’ultimo ragazzo ucciso in Cisgiordania, al momento, aveva 23 anni, si chiamava Mahmud Bisharat e fino a ieri viveva a Tammun, vicino Nablus), arresta arbitrariamente, ritira i permessi di lavoro ai familiari di Aisha Al Rabi, la donna palestinese uccisa dalle pietrate dei coloni fuorilegge invertendo i ruoli tra vittima e carnefici, demolisce le abitazioni palestinesi e interi villaggi, non ultimo un villaggetto poco lontano dal sempre illegalmente minacciato Khan Al Ahmar che, a differenza di quest’ultimo, non essendo salito agli onori della cronaca è rimasto invisibile e non ha creato “fastidiose” proteste all’occupante.
Israele avanza senza freni col suo bagaglio di morte e di ingiustizia, distribuite con la naturalezza di un seminatore che sparge i semi nel suo campo, e i media democratici sussurrano con discrezione, o tacciono a meno che qualcosa non sia proprio degno di attenzione per non essere scavalcati totalmente dai social e perdere audience.
Quindi, dello stillicidio quotidiano di vite e di diritti prodotto dall’occupazione israeliana difficilmente i media danno conto, solo la Grande marcia del ritorno riesce ad attirare poco poco la loro attenzione sia perché la creatività dei manifestanti, sia perché l’altissimo numero dei morti e dei feriti – regolarmente inermi – un minimo di attenzione la sollecitano. Ricordiamo che solo ieri i martiri, solo al confine, sono stati 4 e i feriti 232 di cui 180 direttamente fucilati in campo. Tra i feriti, solo ieri, si contano 35 bambini e 4 infermieri che prestavano soccorso ad altri feriti.
Ad uso di chi leggerà quest’articolo e magari non ricorda o non sa i motivi della Grande marcia, precisiamo che i gazawi chiedono semplicemente che Israele rispetti la Risoluzione Onu 194 circa il diritto al ritorno e tolga l’assedio illegale che strangola la Striscia, cioè i gazawi chiedono quello che per legge internazionale dovrebbe già essere loro.
In 31 venerdì di protesta sono stati fucilati a morte circa 210 palestinesi tra i quali si contano bambini, invalidi sulla sedia a rotelle, paramedici e giornalisti, in violazione – come sempre IMPUNITA – del Diritto internazionale, e sono stati fucilati alle gambe migliaia e migliaia di palestinesi con l’uso di proiettili ad espansione (vietati ma regolarmente usati da Israele) i quali, se a contatto con l’osso, lo frantumano portando all’invalidità permanente. Gaza ha un numero altissimo di ragazzi e uomini con una o due gambe amputate per volere di Israele.
Ma nonostante tutto questo la Grande marcia continua. La parola d’ordine di quest’ultimo venerdì non poteva essere più esplicativa, “Gaza non si inchina”, che è qualcosa di più che dire “Gaza non si arrende” perché la resa a un potere tanto forte da stritolarti potrebbe essere necessaria, ma l’inginocchiarsi davanti a quel potere non è nella natura del gazawo medio e tanto meno delle donne gazawe.
La foto di Aed Abu Amro, il ragazzo palestinese che pochi giorni fa, a petto nudo, con la bandiera in una mano e la fionda nell’altra sfidava la morte per amore della vita è la più evocativa di questa incredibile, vitale e al tempo stesso disperata volontà di vincere. La posta in gioco è la Libertà, quella per cui generazioni di uomini e di donne hanno dato la vita, non per vocazione al suicidio ma per conquistare il diritto di vivere liberi. Lo sappiamo guardando la storia antica e quella contemporanea. E Gaza non fa eccezione. I gazawi, uomini e donne che rischiano la vita per ottenere la libertà rientrano in quella categoria di resistenti che merita tutta l’attenzione e il rispetto della Storia. Ignorarlo è codardia. Confondere o invertire il ruolo tra oppresso e oppressore è codardia e disonestà.
Molti media mainstream stanno dando prova di codardia e disonestà. E’ un fatto.
La foto di Aed, scattata dal fotografo Mustafa Hassouna ha una carica vitale troppo forte per essere ignorata dai media e troppo pericolosa per la credibilità di Israele: rischia di attirare simpatie verso la resistenza gazawa e di ridurre il consenso alla propria narrazione mistificante e allora, veloce come la luce arriva la mano della Hasbara, il raffinato sistema di propaganda israeliano, che entra nel campo filo-palestinese per smontare, con argomentazioni apparentemente protettive verso i palestinesi, la forza evocativa di quella foto che orma è diventata virale.
Non potendo più essere fermata, va demolita. Quindi la forte somiglianza col dipinto di Delacroix titolato “La libertà che guida il popolo” viene definita impropria e l’accostamento addirittura osceno (v. articolo di Luis Staples su L’Indipendent). No, l’accostamento è assolutamente pertinente e lo è ancor di più se lo si richiama anche alla parola d’ordine dell’ultimo venerdì della Grande marcia, cioè “Gaza non si inginocchia”.
Intanto alla fine della marcia, mentre negli ospedali della Striscia si accalcavano i feriti, una mano ufficialmente sconosciuta faceva partire 14 razzi verso Sderot richiamando la rappresaglia israeliana sebbene 12 di questi razzi fossero stati distrutti dall’iron dome e altri 2 non avessero procurato danni.
Forse Israele non aspettava altro, forse quei razzi potrebbero essere frutto di una ben concertata manipolazione o forse di qualche gruppo esasperato e fuori controllo, o forse una precisa strategia ancora non ufficializzata, ancora non ci è dato di saperlo anche se la prestigiosa agenzia di stampa mediorientale Al Mayadeen, questa notte riportava parole della Jihad islamica la quale, pur non rivendicando il lancio dei razzi, dichiarava che “la resistenza non può accettare inerte la continua uccisione di innocenti da parte dell’occupazione israeliana“. Cosa significa? Che si è scelto consapevolmente di lasciare mano libera a Israele senza neanche fargli rischiare il timido rimprovero delle Nazioni Unite potendosi giocare il jolly della legittima difesa?
O significa che si sta spingendo Hamas all’angolo costringendolo a riprendere la strategia perdente delle brigate Al Qassam? C’entra forse lo scontro interno tra le diverse fazioni? Gli analisti più accreditati non si sbilanciano. Comunque Israele ha serenamente risposto come suo solito, ovvero con pesanti bombardamenti per l’intera nottata. L’ultimo è stato registrato nei pressi di Rafah questa mattina.
Al momento in cui scriviamo non si denunciano altre vittime ma solo pesanti distruzioni, rivendicate con fierezza da Israele come fosse una sfida anodina di tiro al piattello.
Le immagini trasmesse in diretta durante la notte sono impressionanti, ma più impressionante è il comportamento della maggior parte dei palestinesi di Gaza: al primo momento di terrore ha fatto seguito “l’abitudine”. L’abitudine ai bombardamenti israeliani che – i media non lo dicono – con maggiore o minore intensità, sono “compagni di vita quotidiana” di questa martoriata striscia di terra. E l’abitudine, coniugata con l’impotenza a reagire, ha fatto sì che la grande maggioranza dei gazawi, provando a tranquillizzare i bambini terrorizzati, abbia scelto di dormire confidando nella buona sorte, forse in Allah.
Del resto quale difesa per un popolo che, a parte i discutibili razzi, non ha altre armi che le pietre e gli aquiloni con la coda fiammante? E la foto che ritrae Aed come un moderno quadro di Delacroix cos’è se non fionda e bandiera contro assedio e assedianti? Cos’è se non la sintesi fotografica della resistenza gazawa e, per estensione, della resistenza palestinese tout court a tutto ciò che Israele commette da oltre settant’anni senza mai subire sanzioni?
Non basteranno articoli come quello di Luis Staples su “L’Indipendent” e la coazione a ripetere del codazzo che si porteranno dietro a fermare la fame di Libertà e di Giustizia del popolo palestinese. La foto di Aed non farà solo la meritata fortuna professionale del fotografo Moustafa Hassuna, quella foto è diventata e resterà l’icona della Grande marcia, insieme alla parola d’ordine di ieri “Gaza non si inginocchia”.
Patrizia Cecconi