8 marzo, risonanze dal Senegal
di Luciana De Michele (*)
Magari vi sarà capitato in queste ore di vedere la mappa impressionante delle manifestazioni di questo incredibile 8 marzo 2017, “il primo giorno della nostra nuova vita”, come ricorda lucidamente Veronica Gago nella bellissima intervista pubblicata da (s)connessioni precarie. Salta subito agli occhi come il solo continente dove lo sciopero planetario promosso dalle donne di mezzo mondo pare non esistere sia quello più antico. Eppure sarebbe molto miope, e certo dissonante con la feconda critica alle gerarchie delle forme di lotta espressa per decenni dalle femministe, dedurne che le donne africane non siano parte essenziale di questa meravigliosa emersione politica. E’ anche per questo che pubblichiamo con grande piacere il pezzo che ci invia Luciana De Michele, un’amica migrante in direzione ostinata e contraria, che ha scelto di vivere in Senegal, dove ha conosciuto e raccontato nel suo blog tante donne tenaci e spesso invisibili. Donne che ogni giorno conducono nelle case umili delle sovraffollate periferie di Dakar una lotta durissima che troverà presto risonanze nelle grandi arene che oggi hanno festeggiato la rottura del muro di silenzio dei media.
Khadi Faye, sindacalista rappresentante delle lavoratrici domestiche
Sono lontane dai riflettori dei media e dai processi decisionali. Eppure, grazie ai loro sforzi e all’instancabile energia, mandano avanti l’economia famigliare, costruiscono il tessuto sociale della comunità e contribuiscono allo sviluppo del paese.
Durante questi anni in Senegal, ho avuto la fortuna di incontrare alcune di queste donne: esempi di vita, modelli per la collettività. Chi per il proprio percorso individuale, chi perchè ha deciso di unirsi in sinergia con altre donne nella stessa condizione: ognuna con storie e motivazioni diverse, ma tutte accomunate dalla ferrea volontà di contribuire a strappare dalla povertà o dalle difficoltà i propri cari o la comunità.
Il primo bell’incontro di questo tipo risale al 2009, con madame Yayi Bayam Diouf. Eravamo a Thiaroye sur Mer (**), banlieue di Dakar e villaggio di pescatori, una manciata di anni dopo l’inizio della crisi del settore della pesca in Senegal, quando i giovani decidevano di intraprendere allora il rischioso viaggio in piroga alla ricerca di un avvenire migliore per le proprie famiglie in Spagna. Al grido di «BarÇa ou Barsakh!» («Barcellona o la morte!»)… solo a Thiaroye sur Mer, le cifre sono eloquenti: 241 giovani deceduti in mare, 156 dispersi, 374 minori trattenuti nei centri alle Canarie, 88 orfani e 210 rimpatriati.
Negli occhi di Yayi si leggeva la tristezza della sua storia, ma anche la luce del riscatto. Distrutta dalla morte del suo unico figlio nel tentativo di raggiungere la Spagna in piroga, Yayi aveva reagito e aveva iniziato a parlare alle altre donne che avevano perso figli, fratelli o mariti allo stesso modo. Insieme, hanno deciso di fondare nel 2006 il Coflec (Collettivo di donne in lotta contro l’emigrazione clandestina).
«All’inizio è stato difficile, perché in una comunità poligama le donne non possono prendere iniziative. Ma, poi, abbiamo parlato con le autorità locali e con gli imam, e ci hanno dato l’autorizzazione», mi spiegava Yayi. Dal 2006, l’associazione organizzava attività nei villaggi per sensibilizzare donne e ragazzi. Uno degli scopi era il recupero sociale e psicologico delle donne vittime dell’emigrazione irregolare, che si cercava anche di rendere autonome economicamente. «Con la morte di un uomo possono rimanere vittime tre o quattro mogli. Sono loro che devono pensare al sostentamento famigliare, e sono costrette ad acquistare da altri il cibo che prima portava a casa il marito. Molte di loro, prima dedite alla vendita del pesce, dopo la morte dei propri cari non vogliono più avere a che fare con il mare o con ciò che vi è associato», mi raccontava Yayi. Lei stessa, da allora non si ciba più di pesce, base dell’alimentazione quotidiana senegalese. In quel momento, le donne avevano creato un fondo di micro-credito autogestito, e si dedicavano alla riconversione di cereali e legumi, o alla fabbricazione di bambole e tessuti.
Un altro obiettivo era di offrire ai giovani valide alternative all’emigrazione, cercando di generare posti di lavoro con i propri progetti o negoziando contratti di lavoro stagionali con i paesi europei, soprattutto con la Spagna. Il Coflec aveva inoltre creato un programma di alfabetizzazione e di presa in carico delle spese per l’istruzione degli orfani dell’emigrazione irregolare. All’epoca dell’incontro, in cantiere c’era l’idea di costruire un orfanotrofio e una radio comunitaria, che sensibilizzassero sui temi sociali e sull’emigrazione.
Le donne trasformatrici di cereali mentre pestano il miglio nelle zucche alla “Maison de la Femme” di Malika.
Poco lontano da Thiaroye sur Mer, alcuni anni dopo, mi sono invece ritrovata alla “Maison de la Femme” (Casa della donna) di un altro Comune in periferia di Dakar, Malika. In questa struttura, si sono riuniti nel 2006 ben 80 gruppi di donne della zona, di una trentina di membri ciascuno: gruppi che si erano già formati spontaneamente nell’idea solidale che, quando si è sulla stessa barca, tanto meglio unirsi e trovare insieme la soluzione per stare meglio. Commissioni di donne trasformatrici di frutta, verdure e cereali, operatrici di micro-giardini (orti urbani), addette alla ristorazione di strada (donne che si organizzano con un tavolo sul marciapiede per vendere colazioni o merende fatte in casa) si sono ritrovate per beneficiare di una grande tontine (un sistema di risparmio e finanziamento a rotazione) ma non solo. Durante le loro riunioni, le donne pensano anche all’elaborazione di progetti per ottenere finanziamenti esterni più cospicui. «Abbiamo creato un centro di formazione in sartoria per le giovani che hanno abbandonato gli studi o che sono disabili. Nell’atelier ci sono quattro donne e dieci ragazze. Noi le formiamo e acquistiamo i tessuti: loro tagliano, cuciono e cercano di vendere. Se ci fossero più soldi, acquisteremmo delle macchine da cucire più performanti», affermava la presidente dell’attività, Madame Amin Ndiaye.
L’avvocatessa ciadiana Jacqueline Moudeïna
Non potrei certo enumerare qui tutte le donne coraggiose, dal comportamento o dalle iniziative esemplari che ho incontrato in questo paese. Tuttavia, me ne vengono in mente altre di cui ho già parlato in questo stesso blog. Come l’avvocatessa ciadiana Jacqueline Moudeïna, che prima di difendere, rischiando la vita, le vittime del regime di Hissene Habrè in Ciad al processo contro il dittatore (che si è tenuto nel 2015 e 2016 a Dakar), aveva militato per la tutela dei diritti delle donne e dei bambini nel suo paese; ma anche la determinata ventenne Yoni Diongue, che ci ha lasciato a novembre scorso insieme ai suoi sogni e ai suoi progetti, e che tanto ha insegnato a chiunque l’abbia conosciuta. Tetraplegica dall’età dieci anni, Yoni contribuiva in gran misura al reddito famigliare attraverso la vendita dei suoi quadri, realizzati con un pennello in bocca che dirigeva con i movimenti del collo, unica parte del corpo in grado di muovere. E come non citare Madame Khadi Faye, sindacalista, che assiste le lavoratrici domestiche sfruttate o abusate che lavorano in nero a Dakar, invisibili tra le invisibili, dopo averlo fatto lei stessa?
A tutte queste donne, come alle altre Madames o Mademoiselles, Signore o signorine di tutto il mondo, rivolgo, oggi, il mio omaggio per la Festa della Donna.
(*) ripreso da «Comune info»
(**) in “bottega” cfr Sen(z)’eg(u)al: istruzioni per innamorarsi