9 marzo 1985 – 9 marzo 2015 Pedro vive nelle lotte!

Pedro1-300x225Qui si possono trovare i podcast delle interviste raccolte sulle iniziative che si sono svolte in Italia. In continuo aggiornamento.
RACCOLTA MATERIALI SU PEDRO

Marzolo Occupata:Quello che riportiamo è un testo scritto da un compagno che come migliaia di altri meridionale, tra gli anni ’70 e ’80, dal sud si trasferì a Padova dove conobbe Pedro. Successivamente ritornò nel suo paese natale dove diventò uno scrittore. Produsse in particolare due libri dove all’interno ci sono dei capitoli dedicati alla figura di Pedro. Questo è uno dei due che traccia un oggettivo spaccato del clima politico, sociale ed economico in Italia e a Padova sul finire degli anni ’70.

Buona lettura!

(tratto dal libro “Diari di bordo” -Città del Sole ed. 2009)

PEDRO: una colpa che il tempo non cancella!

Erano gli anni che seguivano al Vietnam, alla Cambogia, alle lotte contro l’apartheid, iniziate a Berkley e poi allargatesi a macchia d’olio in tutte le altre università americane prima ed europee subito dopo. Erano gli anni in cui all’onda propulsiva di Cuba, di Che Guevara, del ’68, gli USA rispondevano pianificando golpe e dittature in tutto il mondo e soprattutto nel “cortile di casa”. Che si chiamasse America Latina o Europa poco cambia. In Guatemala, Brasile, Cile, Argentina, Nicaragua, Salvador, Paraguay, Bolivia, eccetera, i gorilla addestrati alla repressione e tortura nella Escuela de las Americas poco si distinguono dai regimi di Spagna, Grecia, Portogallo. L’Italia, baluardo strategico nel mediterraneo e trincea di frontiera verso i paesi dell’Est, in periodo di guerra fredda, è tutt’altro che esente da giochi e trame oscure. Tentativi di colpi di stato –almeno cinque, tra cui il piano “SOLO” del Gen. De Lorenzo ed il tentato golpe Borghese, per citare solo i più conosciuti-, si intrecciano con la strategia della tensione, con bombe e stragi, col MAR Fumagalli, con la Rosa dei Venti, con Gladio, Stay Behind, con i Servizi Segreti, tutt’altro che deviati e perfettamente funzionanti agli ordini dei padroni americani. La manovalanza fascista si occupa del solito lavoro sporco in quella strategia perfettamente calibrata tra tutte le espressioni del potere, quelle palesi e quelle occulte, unite sotto la sapiente regia della Loggia P2. Solo qualche coraggioso giudice prova a smascherare stragi ed intrighi internazionali mentre nomi che diventeranno infaustamente noti scorazzano per l’Italia. Da Nord a Sud. Dal Veneto alla Calabria. Dal Veneto di Freda, Ventura, Amos Spiazzi, alla Calabria dove il principe nero Junio ValerioBorghese stringe un patto di ferro con le ‘ndrine reggine. Patto propedeutico al tentato golpe del luglio ’70, con il contorno di campi paramilitari misti tra estrema destra e mafiosi e delle grandi prove in occasione della Rivolta di Reggio. In questo clima e tra queste due regioni si inserisce la storia di Pedro. Walter Maria Pietro Greco, per l’anagrafe, che parte dal paesino di San Pantaleo, sopra Melito, per approdare a Padova. Pietro diventa lì Pedro (e non perché “nome di battaglia” come qualche imbecille sostiene) bensì per la deformazione dialettale (così se si fosse chiamato Peppe sarebbe diventato Bepi, ecc…) e per la sua “anda” latinoamericana. Era arrivato nel cuore del Nord est come tanti di noi perché dalla Calabria non si emigra solo per lavoro, ma anche per studiare visto che le Università al sud erano allora pochissime. Ha la casa al vecchio ghetto ebraico, nel cuore del centro storico, a due passi dalle tre piazze, Piazza Dell’Erbe, Piazza della Frutta, e Piazza dei Signori (la nostra). E a due passi anche dallo storico caffè Pedrocchi, base degli estremisti di destra, e le linee di confine, troppo labili, venivano spesso superate per scuse o provocazioni. Quella casa al Ghetto la ricordo bene, con un vecchio carretto pieno di ragnatele, vicino l’androne. A quei tempi gli “scariolanti” –gli ambulanti di frutta e verdura con i loro carretti, che avevano la base al ghetto, vicino ai mercati popolari-, si vedevano ancora, ma già cominciavano a venire scacciati da quel quartiere popolare in centro città che suscitava troppi appetiti. In quella vecchia casa abitava Pedro, e di quell’androne con quel vecchio carretto mi resta una foto con vicino lei, la sua compagna, un viso da bambina sormontato da occhiali troppo scuri e troppo grandi. Padova, dunque. Padova bianca, in pieno veneto feudo democristiano. Padova, tutto sommato piccola città, rigonfia a dismisura per la presenza di decine di migliaia di studenti sulla cui pelle vive e prospera. Padova dove chiunque abbia un buco, un posto letto o una bottega ingrassa sulla pelle dei fuori sede. Che succhia loro il sangue ma, al contempo, si permette un umiliante razzismo (che sfocerà, anni dopo, nel fenomeno della Lega): non si affittano appartamenti a terroni e negri! ecc… col quale noi meridionali impariamo presto a confrontarci e scontrarci. Nonostante tutti i soldi che lasciavamo e che li hanno arricchiti. Soldi che per chi proveniva dal proletariato o dalla piccola borghesia, non bastavano mai, pur con tutti i sacrifici possibili fatti dai genitori, ed allora ci si arrabattava con i mille lavoretti a nero di cui si aveva notizia col passaparola. Era il periodo del boom economico, ma non per noi. Sfruttamento, razzismo, corruzione, selezione di classe… non era facile, allora come oggi, vivere in quelle condizioni. Ma le contraddizioni stavano maturando in fretta e la rabbia accumulata individualmente stava trasformandosi in esplosione collettiva. Il ribellismo individuale diventava coscienza e pratica politica. Voglia di cambiamento. Lotta. Vogliamo tutto e subito. Il corpo è mio e lo gestisco io. Vogliamo il pane e le rose. Riprendiamoci la vita con la gioia e con il mitra. Erano gli anni ’70 e le piazze in protesta esplodevano in tutta Italia. Padova diventa da subito una delle città più calde. Negli anni ‘70 ero arrivato anch’io col mio bagaglio di sogni di cambiare il mondo e nostalgia di mare. Quel 3 giugno 1975 stavo muovendo i primi passi –o meglio le prime pedalate- per il centro di quella città ostica ed ostile, quando venni investito da un fumo denso, acre. Non era la solita nebbia spessa che oscurava sole e cuore per settimane ed a cui non mi sarei mai abituato. Conoscevo già la puzza dei lacrimogeni. Ed anche il famoso –meglio famigerato- Secondo Celere, ben conosciuto durante gli anni della Rivolta di Reggio. Quel giorno doveva esserci un comizio del MSI, con Giorgio Almirante, fucilatore di partigiani. Non era ammissibile e la Padova antifascista stava rispondendo nell’unico modo possibile. Come aveva risposto Genova, città medaglia d’oro per la resistenza, quando, nel ’60, i fascisti provarono a riprendersi le piazze con l’aiuto di quelle forze dell’ordine che invece avrebbero dovuto difendere la costituzione nata dalla Resistenza. L’antifascismo allora non era solo memoria del passato; bombe, attentati, coltellate, stragi, agguati erano fatti all’ordine del giorno. Quel giorno a Padova non si respira, ma Almirante non parlerà. Pedro è tra i contestatori e quel fumo, quel sangue sui vestiti, quelle teste spaccate, ma soprattutto quei volti coperti da fazzoletti, diventeranno per me sempre più familiari, compagni di strada. Erano gli anni di Pinelli “suicidato”, dell’anarchico Serantini fatto morire per le botte in galera, di Giannino Zibecchi col cranio schiacciato dalla ruota di un gippone che gli fa scoppiare il cervello fuori sul marciapiede. Gli anni in cui vengono ammazzati Varalli, Brasili, Di Rosa, Miccichè, Boschi, Bruno, Salvi, Amoruso, Ceruso, Giorgiana Masi, Pierfrancesco Lorusso, Valerio Verbano… Quando l’ex parà Sandro Saccucci spara contro i contestatori di un suo comizio a Sezze Romano; quando ad Ostia due fascisti della Roma bene violentano a morte Rosaria Lopez e riducono in fin di vita la sua compagna (uno verrà fatto scappare, l’altro farà un po’ di galera fino ad uscire e tornare ad ammazzare e violentare). Per non parlare delle stragi nelle piazze o sui treni, a partire dall’attentato di Gioia Tauro. I colpevoli mai perseguiti, le indagini depistate, in una comunità di intenti criminali che vede anche collusioni operative. Questo il clima di quegli anni. Ma nonostante tutto questo, l’atmosfera era tutt’altro che cupa per chi lottava, per chi resisteva con la forza e la vitalità del protagonista, nella voglia di cambiamento, nel non delegare niente e nessuno sulla propria vita. Come Pedro. Instancabile nella lotta antifascista come contro il caro vita, nell’occupazione delle case contro le speculazioni edilizie e lo sfruttamento degli studenti, contro l’aumento dei costi nei servizi per i proletari. Nell’Università contro lo strapotere dei baroni e del sapere asservito al profitto. Contro lo sfruttamento del lavoro. Dopo l’esperienza dei Fazzoletti Rossi che aveva messo in ginocchio azienda e sindacati, che aveva rigettato un contratto appena firmato, occorreva modificare quell’organizzazione del lavoro che prevedeva fabbriche ad alta concentrazione operaia che esprimevano rigidità ed alta conflittualità. Si comincia a provare, soprattutto in Emilia e Veneto, una diversa organizzazione del lavoro, la fabbrica diffusa: piccole aziende, quasi familiari, con pochi operai controllabili, ricattabili e senza garanzie che però lavorano per il ciclo FIAT o quant’altro. Quante volte siamo intervenuti, su denuncia degli stessi operai, nei covi del lavoro nero che altro non erano che garages e cantine, piccoli laboratori dove si cominciava a sperimentare la massima flessibilità e sfruttamento operaio. E gli interventi contro i “cucchiai d’oro” –oggi si chiamerebbero “obiettori di coscienza”- ginecologi antiabortisti sfegatati pubblicamente e praticanti a care tariffe l’aborto clandestino, allora fuori legge, nelle loro cliniche private. Ed il lavoro politico in quel quartiere proletario e periferico pieno di contraddizioni e lotte che ci conosceva e ci riconosceva. Soprattutto Pedro sempre in prima fila, instancabile, indomabile. Forse l’aggettivo più corretto sarebbe inarrestabile, e chissà non sia questa una chiave di interpretazione possibile di questa assurda storia.
Bisognava fermarlo.
Ci provò un magistrato estremamente fantasioso, dando il via a quei capi di imputazione inventati, a quelle aberrazioni giuridiche, a quei teoremi senza riscontri che ritroviamo anche ai nostri giorni ad esempio al processo ai compagni a Cosenza. Risultato, Pedro dovette andar via per sottrarsi ad una giustizia ingiusta che, per altro, lo avrebbe sempre assolto per i fatti contestati. Anni di latitanza che non fiaccano la sua tempra e lo ritrovano con noi, al ritorno, sempre in prima fila. Ancora altre accuse che non lo piegano ma lo obbligano ad un’altra latitanza che gli costa questa volta anche il lavoro di insegnante. Sopravvive a Parigi facendo il cameriere in un ristorante messicano, ma vuole rientrare in Italia. Le accuse contro di lui, intanto, perdono consistenza e lasciano intravedere quanto dovrà sicuramente accadere: l’ennesimo proscioglimento a fronte di tutto questo accanimento giudiziario. Concorda col suo legale il rientro per costituirsi e questo sarà il suo tragico ed imprevedibile errore, perché ciò che accadrà ha dell’incredibile e dell’inspiegabile. Le telefonate, intercettate, portano Digos e Sisde ad individuarlo in quell’appartamentino in via Giulia 39 a Trieste, messogli a disposizione da un amico. Viene pianificata l’operazione. Perché? Che senso c’è nel predisporre un intervento atto all’arresto di chi, si sa, è rientrato per costituirsi e discolparsi da accuse che si stanno già sciogliendo come neve al sole? Qualche senso, per noi incomprensibile, però lo deve avere. Si pianifica il blitz che porta un commando il 9 marzo 1985 a nascondersi nell’androne di quella casa. Nonostante si conosca perfettamente la figura pubblica del compagno e si sa che non porta armi, il gruppo di fuoco è armato di tutto punto; del gruppo fa parte, anche qui inspiegabilmente, un agente del SISDE che non avrebbe titolo ad essere là. Lo affrontano nell’androne e gli sparano i primi colpi. Cosa sia accaduto lì non è dato sapere. Chi lo conosceva immagina che abbia fatto ricorso alla sua straordinaria forza di volontà, alla sua agilità e forza nervosa per divincolarsi, sfuggire all’agguato e scappare per strada a chiedere un impossibile aiuto. A gridare e denunciare “AIUTO! Mi vogliono ammazzare! Grido disperato. Non c’erano possibilità. Non erano previste. Un altro membro del gruppo di fuoco, appostato fuori, gli spara gli ultimi colpi alla schiena che lo fanno barcollare e cadere ormai in fin di vita in mezzo alla gente. Non contento di ciò, il solerte sparatore si inginocchia, posa per terra la pistola e lo ammanetta alla schiena, nonostante sia già moribondo. Dopo, il valzer delle favole da dare in pasto ai soliti giornalisti pennivendoli: che la pistola per terra fosse sua, oppure, successivamente, che avevano scambiato l’ombrello che aveva per un mitra e che da ciò fosse scaturito il conflitto a fuoco. Panzane che si sgonfiano velocemente così come le accuse in tribunale da cui verrà assolto poco dopo, come i suoi compagni, e che gli consentiranno anche il reintegro al posto di lavoro.
Troppo tardi.
Resterà un corpo crivellato da pallottole assassine, le sole capaci di fermare la sua corsa indomabile. Resterà un cadavere, oscuro messaggio chissà perché o per chi.
E quella colpa che il tempo non cancella come scrivemmo sui nostri striscioni noi, i suoi compagni.

Il resto è il dovere di dare testimonianza, nonostante il dolore che si rinnova, per non dimenticare e tenere a distanza qualche sciacallo.

Il resto fu la notizia ferale che mi arriva per telefono dalla voce rotta dal pianto di un compagno.

Il resto è la bara che arriva di notte in una giornata di vento e pioggia, nera, spessa e uggiosa come l’animo di quelli di noi che l’aspettavamo sulla statale ionica, allo svincolo di Melito Porto Salvo, per accompagnarla su, al paese.

Il resto è il funerale con i mafiosi che non volevano noi e le nostre bandiere rosse perché il morto è “di qua, è cosa nostra”.

Il resto è la sua compagna, intontita dal dolore, che si chiude fino all’alba nel cimitero per accompagnarlo nell’ultimo viaggio.
Il resto è il calcio del moschetto di un carabiniere che le rompe il naso mentre protesta per questa morte assurda, chiedendo un’impossibile giustizia.

Il resto…

Sono tornato, dopo trent’anni, nella città dolce e violenta di allora, su quelle strade che calpestavamo con l’arroganza e gli ideali dei vent’anni e che oggi mi è estranea e irriconoscibile. Con la forza della ragione che diventava finalmente, una volta tanto, la ragione della forza anche da parte nostra. Che non avrebbe permesso muri né verso extracomunitari, né verso nessuno. Perché non li avremmo fatti costruire, perché li avremmo abbattuti.
Ho ritrovato qualche volto di quei tempi, ma, soprattutto, un mare di ricordi ed emozioni che, incontenibili, erano riaffiorati prepotentemente. Storie passate, volti dimenticati tornavano ad occupare i miei pensieri, mentre dal finestrino del vagone aspettavo il fischio del treno che mi avrebbe riportato in Calabria. La testa occupata, ingolfata da ricordi.
Lo sguardo, privo di volontà e magneticamente attratto, puntava una figurina composta, ferma e fragile al contempo, con un paio di occhialoni troppo grandi, simili ad altri che mi sembrava di ricordare. Apparentemente stava per accomiatarsi da una ragazzina di quindici o sedici anni che stava per partire dall’altro binario. Come se avesse percepito l’intensità dello sguardo, quasi come un silenzioso richiamo, si girò a guardarmi e, improvvisamente, copiose lacrime cominciarono a spuntare giù sotto quelle lenti grandi e scure. Come un contatto elettrico capace di far tornare tutto il dolore del passato in un secondo, nel tempo di uno sguardo. Come l’incrinatura in una diga che cede e fa improvvisamente dilagare i ricordi.
Forse si trattava solo di una somiglianza; forse solo una fantasia mia o le atmosfere che stavo rivivendo, a farmi credere di riconoscere una persona con cui avevo condiviso un grande dolore tanti anni prima. Forse piangeva per la figlia che partiva. Forse… ma il cuore mi diceva che era lei. Non sono riuscito a precipitarmi giù dal vagone perché tutto era stato troppo veloce ed il treno stava già abbandonando la stazione. Ma quell’immagine non riesco a dimenticarla, la porto con me.
Come l’immagine finale di tutta questa brutta assurda storia.

Fine.

Addio Pedro, fratello, amico.

Addio Pedro.

Compagno.

 

Rom Vunner

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