Nilo: acque pericolose?
articoli di Angelo Ravasi e Frascesca Sibani (ripresi da Africarivista e Internazionale)
La grande diga (sul Nilo) della discordia – Angelo Ravasi
Più che una diga della rinascita rischia di diventare, non solo della discordia – quella è un dato di fatto – ma il detonatore di una crisi regionale dagli effetti imprevedibili.
Nemmeno i negoziati di settimana scorsa tra Etiopia, Egitto e Sudan, hanno sciolto i nodi. Tutte e tre i paesi rimangono sulle loro posizioni, senza che vi siano segnali, concreti, che si possa arrivare a un accordo in tempi brevi. Ma ciò che potrebbe aver messo una pietra tombale sulle negoziazioni trilaterali è la decisione di inviare la questione all’Onu. La mossa, annunciata dal ministero degli Esteri del Cairo, invita il Consiglio di sicurezza a intervenire “al fine di affermare l’importanza del proseguimento dei negoziati tra Egitto, Etiopia e Sudan, in attuazione degli obblighi previsti dalle norme di diritto internazionale, con l’obiettivo di raggiungere una risoluzione equa ed equilibrata della questione e di impedire l’adozione di misure unilaterali che potrebbero incidere sulle possibilità di raggiungere un accordo”. L’annuncio non è stato ancora commentato ufficialmente dal governo di Addis Abeba che in precedenza, per voce del ministro degli Esteri Gedu Andargachew, aveva dichiarato che l’Etiopia potrebbe abbandonare il tavolo dei negoziati in corso con Egitto e Sudan nel caso in cui le autorità de Il Cairo lo avessero a loro volta lasciato. Il ministro aveva anche accusato le autorità egiziane di aver cercato di ostacolare i colloqui rimettendo il contenzioso al giudizio del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. “Mentre li invitiamo a negoziare con mentalità aperta ed a discutere questioni basate su principi, gli egiziani stanno pensando in modo diverso e per interrompere la negoziazione”, aveva detto Andargachew. Il capo della diplomazia etiope è nuovamente intervenuto sulla vicenda domenica scorsa, ribadendo in un’intervista all’agenzia di stampa Ena che l’Etiopia non accetterà mai alcun accordo che limiti i suoi diritti idrici sul Nilo Azzurro. “L’Etiopia sta discutendo con i due paesi solo del processo di costruzione della diga e non di questioni relative ai suoi diritti di utilizzare il fiume”, ha osservato il ministro, tornando ad accusare l”Egitto di voler limitare i diritti idrici dell’Etiopia.
L’Onu, dal canto suo, ha invitato le parti a “lavorare insieme” per risolvere la questione. Il Consiglio di sicurezza ha tenuto, sul tema, solo una videoconferenza informale, rimandando, di fatto, la palla nel campo dei contendenti. Il portavoce dell’Onu, Stephane Dujarric, ha ribadito “l’importanza della Dichiarazione dei principi sulla diga del 2015” che “sottolinea la necessità di una cooperazione basata sulla buona fede, il diritto internazionale e il beneficio comune”. In una lettera inviata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il ministro degli Esteri etiope Gedu Andargachew ha ribadito l’intenzione di proseguire negoziati tripartiti sulla Grande diga della rinascita etiope (Gerd) e ha accusando l’Egitto di voler internazionalizzare i colloqui nonostante i progressi compiuti. Ma, su questa spinosa questione, sono intervenuti anche altri paesi. I governi di Gibuti, Somalia e Qatar, infatti, hanno respinto la risoluzione della Lega araba che sostiene l’Egitto nella disputa che riguarda il negoziato.
La partita è dunque delicatissima e sia l’Egitto sia l’Etiopia hanno tutti i motivi per difendere le loro posizioni. Dall’acqua del Nilo dipende tutto. Il Nilo è l’Egitto. Il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Il Cairo, inoltre, dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo il primo ministro Abyi Ahmed. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre, ma occorre fare i conti con la pandemia di coronavirus – potrebbe rimane una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassata da rivalità etniche e religiose. Un Pil , tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione. Addis Abeba ha un gran bisogno di questa diga che, non a caso è stata definita “diga della rinascita etiope” e, come ha affermato di recente il premier etiope, la costruzione terminerà tra poche settimane. I lavori sono iniziati nel 2011 e affidati all’italiana Salini. L’invaso, inoltre, potrà immagazzinare fino a 74 miliardi di metri cubi di acqua e il riempimento dovrebbe cominciare, almeno secondo le intenzioni di Addis Abeba, a luglio. L’oggetto del contendere è, infatti, sul riempimento che l’Egitto vorrebbe avvenisse in cinque anni mentre l’Etiopia in tre.
Sulla vicenda, inoltre, ci sono contratti milionari. La Cina, infatti, ha annunciato una mega partecipazione proprio in questa infrastruttura. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla diga. Si spiega, dunque, l’asprezza del negoziato che, tutti si augurano, non sfoci nella Prima guerra dell’Acqua del terzo millennio.
La diga che avvelena le relazioni tra Egitto ed Etiopia – Francesca Sibani
La settimana scorsa gli egiziani hanno temuto che si materializzasse una delle loro peggiori paure: vedere il Nilo prosciugarsi. Pochi giorni dopo la chiusura senza un accordo dell’ultima tornata di negoziati tra Egitto, Sudan ed Etiopia sul funzionamento della diga Grand ethiopian renaissance (Gerd), in costruzione sul Nilo Azzurro, la tv etiope Ebc ha dato la notizia che il riempimento del bacino idroelettrico era cominciato, come dimostravano alcune immagini satellitari che circolavano in rete, e ha citato il ministro delle risorse idriche etiope Seleshi Bekele, secondo cui “la costruzione della diga e il riempimento del bacino erano due processi che andavano avanti di pari passo”.
Dal Cairo, che pretende di stabilire le modalità di riempimento prima che l’Etiopia passi all’opera, è arrivata subito la richiesta di “urgenti chiarimenti”. Come se non bastasse, il Sudan ha fatto sapere di aver registrato un calo della portata del fiume in corrispondenza di Al Deim, vicino al confine con l’Etiopia, a poche decine di chilometri dalla Gerd.
Poche ore dopo, la smentita di Seleshi su Twitter: “La costruzione della diga ha raggiunto il livello di 560 metri, contro i 525 di questo periodo dell’anno scorso. Il riempimento del bacino è dovuto alle forti piogge, l’afflusso supera il deflusso e si è creato naturalmente un ristagno. Resterà finché non comincerà il deflusso”.
Che sia stato intenzionale o no, la diga ha cominciato a riempirsi e questo ha fatto schizzare alle stelle le tensioni tra l’Etiopia, da una parte, e l’Egitto e il Sudan, dall’altra. “Cosa succederà quando gli etiopi cominceranno a immagazzinare miliardi di metri cubi d’acqua, privando l’Egitto di una parte delle sue risorse?”, si chiedeva l’esperto di Medio Oriente Alain Gresh in un articolo su Orient XXI (ripubblicato da Internazionale). Oggi la domanda è più pressante che mai e molti evocano lo spettro di una guerra per l’acqua.
Ricapitolando
La costruzione della diga Gerd, opera dell’azienda italiana Salini Impregilo (Webuild), è cominciata nel 2011. Al termine dei lavori, che sono stati completati per due terzi e sono costati finora oltre quattro miliardi di dollari, sarà la diga più grande dell’Africa, con la capacità di generare 6.450 megawatt di energia, più del doppio di quanto faccia oggi l’Etiopia (dove 65 milioni su 110 milioni di abitanti non hanno la corrente elettrica). In questo modo Addis Abeba spera di sostenere i suoi progetti di sviluppo economico e di industrializzazione, e proporsi come esportatore di energia elettrica nel resto della regione.
L’Egitto, invece, trae dal Nilo il 90 per cento del suo approvvigionamento idrico, che è già inferiore ai suoi bisogni. Se la portata del fiume dovesse ridursi per colpa di un afflusso ridotto dal Nilo Azzurro, per l’Egitto sarebbe la crisi. Simili sono le preoccupazioni del Sudan, che nel corso degli anni – anche in ragione dei cambiamenti politici interni – ha sostenuto prima le ragioni di Addis Abeba e poi quelle del Cairo.
L’Egitto, il Sudan e il Regno Unito ignorarono completamente l’Etiopia e altri paesi africani nei negoziati che portarono all’accordo del 1959 sulla spartizione delle acque del Nilo. In base all’intesa, la portata annuale del fiume era divisa nella misura di 55,5 miliardi di metri cubi per l’Egitto e 18,5 miliardi per il Sudan. Il Cairo continua a sostenere la validità dell’accordo, sostenendo che i paesi africani del bacino del Nilo (che oltre i tre paesi già citati comprende anche Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Ruanda, Sud Sudan, Tanzania e Uganda, e l’Eritrea come osservatrice) beneficiano di precipitazioni piovose ben più abbondanti. Ma i paesi africani ribattono che con il riscaldamento globale le piogge sono diventate meno regolari.
Nel 2015, riassume Equal Times, i leader dei tre paesi firmarono una dichiarazione di princìpi per risolvere la disputa, ma il documento era vago e ognuno l’ha interpretato in modo diverso. Uno dei punti più discussi è stato quanti anni debba metterci l’Etiopia a riempire il bacino per non lasciare all’asciutto i paesi a valle e cosa debba succedere in caso di uno o più anni di siccità, un evento reso più probabile dai cambiamenti climatici.
Gli ultimi colloqui, all’inizio di luglio, patrocinati dall’Unione africana rappresentata dal presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, dovevano concludersi il 13 luglio ma ufficialmente sono ancora aperti e devono riprendere oggi, 21 luglio.
Negoziati complicati
A ostacolare l’accordo, come spesso succede, sono le questioni di politica interna e di orgoglio nazionale. Sui mezzi d’informazione etiopi e nei discorsi dei politici la diga assume un grande valore simbolico. Oltre a evocare nel nome l’idea di “rinascimento” e quindi di una nuova epoca di sviluppo e benessere, il progetto è presentato dall’attuale governo di Abiy Ahmed – ma era così anche per quello precedente – come una “diga etiope per gli etiopi”, scrive Thembisa Fakude su Middle East Monitor.
“Gli etiopi sono orgogliosi di aver raccolto da soli la maggior parte dei fondi per la Gerd e la diga è diventata un vessillo dei nazionalisti. Ogni ostacolo al progetto potrebbe scatenare reazioni distruttive e instabilità regionale”. Non bisogna dimenticare che il paese sta vivendo grandi cambiamenti, anche al livello istituzionale, e che a volte le tensioni tra i vari gruppi etnici hanno dato origine a scontri violenti tra le comunità o tra gruppi di potere rivali all’interno della stessa etnia, com’è successo dopo la morte del musicista e attivista oromo Hachalu Hundessa.
I tentativi di regolamentare con un accordo il funzionamento della diga hanno sollevato critiche sui mezzi d’informazione etiopi contro gli organismi internazionali e i paesi (per esempio, gli Stati Uniti) che di volta in volta hanno cercato di mediare, accusati di intromettersi in affari di competenza interna.
Infine, come spiega la rivista scientifica Nature, l’Etiopia ha fretta: ha solo un’occasione all’anno per riempire la diga e vuole sfruttare le piogge stagionali di luglio e agosto per farlo. In caso contrario, dovrebbe aspettare l’anno prossimo.
Minaccia esistenziale
L’Egitto, invece, che si oppone al progetto fin dall’inizio, considera la diga una “minaccia alla sua stessa esistenza”. Come osservava Gresh su Orient XXI, fu Erodoto nel quinto secolo avanti Cristo a scrivere che “l’Egitto è un dono del Nilo” e ancora oggi il paese conta su questo “bene millenario” per il suo approvvigionamento d’acqua. Ma, al completamento della Gerd, sarà qualcun altro a controllare il flusso delle acque e questa prospettiva non è tollerabile dal regime egiziano di Abdel Fattah al Sisi che, neanche troppo velatamente, ha minacciato di usare la forza per difendere gli interessi del suo paese. Intanto il 20 luglio il parlamento egiziano ha approvato l’invio di truppe in Libia per sostenere l’alleato Khalifa Haftar, l’uomo forte di Bengasi, e contenere l’avanzata delle forze sostenute dalla Turchia.
Questa retorica bellicosa porterà a un conflitto sulle acque del Nilo? All’invio di aerei da guerra egiziani per bombardare la diga, che innescheranno la risposta della contraerea etiope? In realtà molti analisti concordano nel considerare la guerra tra i due paesi un’eventualità molto remota.
Anche se l’Etiopia ha cominciato a riempire la diga, “c’è un unico modo costruttivo di procedere: continuare i colloqui”, scrive su Twitter William Davison, esperto di Etiopia dell’International Crisis Group. Perché, nonostante non sia stato firmato un accordo definitivo, i progressi sulle singole questioni tecniche sono stati notevoli e sarebbe un peccato sprecare il lavoro fatto finora.
Ashok Swain, ricercatore in studi sulla pace dell’università di Uppsala in Svezia, suggerisce una strategia dei piccoli passi. Innanzitutto i tre paesi dovrebbero provare a firmare un accordo a breve termine. “Ci sono stati vari esempi in passato di intese valide un anno come quella del 1975 tra India e Bangladesh sulla spartizione delle acque del Gange”, ha dichiarato a Nature. “I due paesi non riuscivano ad accordarsi su come far funzionare la diga, così hanno cominciato con un primo accordo della durata di un anno, che è stato esteso a tre, a cinque e infine a trent’anni. Almeno si guadagnerà un po’ di tempo”.