VISAVÌ GORIZIA DANCE FESTIVAL
VISAVÌ GORIZIA DANCE FESTIVAL
Festival transfrontaliero di danza
Gorizia/Nova Gorica
Progetto di
a.ArtistiAssociati
di Susanna Sinigaglia
Gorizia, candidata insieme a Nova Gorica a capitale europea della cultura per il 2025, ha inaugurato quest’autunno il festival di danza Visavì con l’intenzione di dare risalto all’unione fra le due città che in effetti sono un unico insieme diviso artatamente dal muro che le separava ai tempi della guerra fredda. Nel corso della mia permanenza, ho notato che le ferite inferte da quest’antica frattura non si sono ancora rimarginate e gli abitanti di entrambe le città ne soffrono ancora. Per questo in un anno segnato dal confinamento in tutta Italia, il festival ha assunto un significato particolare come tentativo di riavvicinamento e riscossa anche se, iniziato il 22 ottobre, è finito proprio il 25, quando l’Italia è stata sottoposta ancora una volta alla chiusura di teatri e cinema e la Slovenia dichiarata zona rossa.
Ho inaspettatamente e con piacere ricevuto l’invito a partecipare al festival in quanto operatrice culturale per vocazione, accettandolo volentieri anche perché non avevo mai visto Gorizia né tantomeno Nova Gorica.
Dalla piccola stazione di Gorizia (mi ha ricordato quella di Lodi) s’inoltra verso il centro città una lunga via, c.so Italia, punteggiata da villette e costruzioni in stile liberty o che ricorda il Secessionismo viennese.
L’albergo che mi ospita invece – il Best Western Gorizia Palace Hotel, verso la fine del corso – si trova in un palazzo stile anni 60’-’70 del Novecento.
Dopo aver depositato i bagagli mi precipito al Teatro Verdi pensando di essere giusto in tempo per vedere la performance cui mi sono prenotata, Beat. Le operazioni di prima accoglienza vanno però per le lunghe, fra autocertificazioni da compilare e pubblico da smistare. Alla fine, lo spettacolo ha inizio.
Beat
Igor X Moreno
Interprete
Margherita Elliot
C’è un’unica performer in scena, che dopo un tempo di raccoglimento silenzioso sale su una pedana e inizia a muoversi in modo sempre più frenetico mimando, a me sembra in modo non molto autentico, la giovane multitasking nevrotica contemporanea.
Poi però la scena cambia e, come se marcasse un secondo tempo, la giovane performer entra con tutta se stessa nei suoi movimenti convulsi mentre viene inondata da luci colorate continuamente cangianti, come dentro un caleidoscopio forsennatamente animato.
E anche se forse anche qui i gesti sono un po’ troppo insistiti e ripetuti, alla fine la giovane strappa gli applausi entusiasti e convinti della platea. Questa parte ha aperto una prospettiva diversa sulla prima conferendole più senso e spessore.
Quella sera avrei rivisto volentieri anche Graces della brava e simpatica Sivia Gribaudi, ma ero veramente stanca per il lungo viaggio e così mi sono ritirata in albergo.
Instrument Jam
Compagnia Roberto Zappalà
È il secondo spettacolo cui ho assistito, la sera del giorno dopo il mio arrivo. Nel pomeriggio, ero andata a visitare il castello dove risiedevano i conti che governavano Gorizia, gli avvocati della Chiesa di Aquileia, e poi i governanti austriaci salvo la breve reggenza della Repubblica di Venezia all’inizio del XVI secolo, testimoniata dal leone che ne sovrasta il portico d’ingresso, e la parentesi napoleonica.
È un complesso storico la cui edificazione risale all’XI secolo, dove si arriva dopo una lunga salita punteggiata da graziose casette e l’attraversamento di un prato sul quale sono sistemate alcune sculture astratte di autori ignoti.
Antistante al prato e sotto il castello, si trova una chiesetta del XIV secolo molto suggestiva, la chiesa del Santo Spirito.
Per tornare al festival, conosco abbastanza Roberto Zappalà e la sua compagnia di soli uomini per averla vista in azione a Milano varie volte. Tuttavia mentre all’inizio mi aveva incuriosito, in quanto v’intravedevo un potenziale sguardo critico sulla mascolinità e l’arroganza maschile siciliana – però mi sfugge perché solo siciliana –, e il tentativo di leggere alcune sequenze delle danze popolari sempre siciliane in chiave contemporanea, col trascorrere del tempo mi è sembrato che questo sguardo critico si stesse trasformando in uno sguardo compiaciuto, dove la ricerca della lettura contemporanea di danze antiche si sia dispersa. Purtroppo, ne ho avuto conferma nella performance portata in scena a Gorizia.
Dietro alla grande esibizione di forza muscolare, sfoggio di maestria acrobatica e atteggiamenti di sfida, si sono oscurate ancora una volta le intenzioni iniziali.
Inoltre l’uso di tonache attillate, al ginocchio, assume un che di grottesco quando i danzatori si trovano semplicemente in posizione eretta come nella prima foto in alto. Mi è invece sembrato ancora molto interessante l’intervento dei musicisti dal vivo, l’uso di strumenti tradizionali siciliani e altri: i marranzani o scacciapensieri, i tamburi e gli hang (1), creati in Svizzera.
Per concludere, sono convinta che il vigore fisico di questi peraltro splendidi danzatori andrebbe diretto a potenziarne le capacità espressive e i talenti, invece di ostentarlo come valore in sé.
Together
Petra Hrašćanec
Quel giorno, sabato 24, avevo deciso di andare a vedere il luogo su cui sorgeva il famoso muro che divideva in due Gorizia, la p.zza Transalpina. Per arrivarci bisogna attraversare tutto il centro città, passare davanti a una chiesa maestosa – Sant’Ignazio –, versione austriaca del barocco costruita fra la seconda metà del XVII e la prima metà del XVIII secolo, che si affaccia su una grande piazza – p.zza della Vittoria – somigliante a un “campo” veneziano
e inoltrarsi verso la parte più periferica di Gorizia lungo viali adorni di alberi dagli intensi colori autunnali.
Senonché durante il tragitto il cielo si è fatto sempre più scuro e ormai quasi alla meta, quando stavo per raggiungere la piazza, hanno cominciato a venir giù goccioloni fitti fitti che mi hanno indotto a infilarmi di corsa dentro l’autobus fortunatamente fermo al suo capolinea davanti alla piazza. Perciò quel giorno ho potuto solo darle una rapidissima occhiata. Nel frattempo avevo ricevuto la comunicazione che Together, la performance della slovena Petra Hrašćanec che si sarebbe dovuta rappresentare a Nova Gorica al Teatro nazionale sloveno, sigla in sloveno SNT, era stata spostata alla Kulturni dom (Casa della cultura slovena) di Gorizia perché la Slovenia era stata dichiarata zona rossa. È svanito così il mio desiderio di portare con me anche solo un breve scorcio di Nova Gorica, la faccia slovena di Gorizia.
Sotto una pioggia ancora battente, arrivo trafelata alla Kulturni dom, non semplice da trovare per chi non conosce la città. E infatti, la performance è iniziata già da una decina di minuti. In scena ci sono 6 ragazze (quasi a controbilanciare i 6 danzatori della compagnia Zappalà vista la sera precedente). Colgo fra loro un gioco di sorellanza e contrasti, con un uso interessante dello spazio che percorrono in ogni direzione a gruppi o isolate. A tratti nei loro gesti asciutti, più che le tecniche della danza contemporanea sembrano applicare quelle della ginnastica artistica, alla ricerca di un modo di stare insieme, di agire e reagire, sorreggersi e disperdersi.
Trasmettono vigore e semplicità.
Profumo d’acacia
Giovanni Leonarduzzi
Quella stessa sera ho visto un’altra coreografia, più complessa e dal titolo piuttosto sibillino, con i musicisti dal vivo del Gruppo folkloristico Val Resia e 8 danzatori. Nella presentazione sul catalogo del festival si legge: “Profumo d’acacia è un’illusione, è magia” e Giovanni Leonarduzzi intende coniugare tradizione e sperimentazione per realizzare uno spettacolo “popolare… Una favola del passato ormai dimenticata”. E infatti della favola sono le atmosfere a volte cupe e misteriose che creano i danzatori, e in cui si muovono, o i loro scambi giocosi.
In questo caso, l’incontro della tradizione con la danza contemporanea è ben riuscito e forse proviene da qui la magia della performance, la parvenza di arcano che ne accompagna le immagini.
Visavì
Compagnia Arearea
Il momento clou della rassegna, e che ne ha maggiormente rappresentato il senso – non a caso il titolo della performance è il nome del festival stesso –, si è svolto proprio in piazza Transalpina, che avevo intravisto sotto quella poggia torrenziale.
Oggi invece c’è il sole ed è anche un sole caldo, che fa dimenticare tutta l’umidità del giorno precedente. Lo spazio scenico è allestito al centro della piazza, circolare, nel luogo esatto in cui sorgeva il muro divisorio fra le due parti di città. Per questo la performance rappresenta il cuore del festival, caratterizzato dall’aggettivo “transfrontaliero”. Purtroppo il Covid 19 ci ha messo lo zampino, senza tuttavia togliere nulla al significato simbolico di questo evento che ne è rimasto intatto.
Una giovane performer in camicia bianca e pantaloni neri inizia a danzare sulle note di un trombettista. Non sarebbe esatto affermare che “l’accompagna” dal vivo perché sembra piuttosto un accompagnamento reciproco; infatti fra i due comincia un gioco di mutuo inseguimento attraverso la scena, di sfioramenti e contatti.
Entra ora un’altra performer, che somiglia così tanto alla prima da
sembrarne la gemella. Fra le due s’inaugura uno scambio fatto di movimenti a specchio, di gara a chi è più leggera e armoniosa; una vera delizia per gli occhi. La loro tecnica di base è un perfetto release con qualche accenno di contact dance.
Nel frattempo il trombettista, dopo aver raggiunto la sua postazione accanto al batterista, ha introdotto nella danza suoni elettronici e metallici emessi dal sintetizzatore insieme ad altri strumenti. Sottolineano in contrappunto i movimenti delle due giovani danzatrici che continuano a inseguirsi, a incrociarsi, scontrarsi e abbracciarsi in uno strano duetto-duello.
Entra infine una terza danzatrice, più alta e robusta, sembra quasi in funzione di sorella maggiore riequlibratrice. La scena acquista un respiro più ampio.
A un tratto le giovani iniziano a scandire i tempi della danza – in italiano, sloveno e tedesco – ma non da 1 a 8, come avviene tradizionalmente, bensì declinandoli in una versione dispari più un dodici buttato lì a caso e alla rinfusa. Quindi dicono tre, cinque, sette, nove, dodici; o uno, tre, nove; o cinque, nove, dodici, con un effetto da un lato esilarante ma dall’altro anche commovente per chi è del luogo e sente contare nelle tre lingue parlate in quelle terre. Così s’intuisce anche la ragione della scelta delle tre danzatrici che entrano in scena in progressione da una a tre: ognuna rappresenta una parte di popolazione e quindi una lingua. E alla fine si uniscono alla danza gioiosa delle tre performer tante ragazze e ragazzi vestiti con gli abiti di tutti i giorni in un gesto corale che porta al massimo l’entusiasmo e il coinvolgimento del pubblico.
Per me, che dovevo ripartire e non avrei potuto assistere alle ultime performance del pomeriggio, questo è stato il coronamento ideale della visione del festival e del mio viaggio a Gorizia.
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NOTE
(1). Si legge sulla Treccani online: “Termine usato, per lo più al plur., per indicare tutti gli strumenti musicali il cui suono è producibile unicamente mediante la messa in vibrazione del materiale da cui è costituito lo strumento stesso, senza l’ausilio di superfici o parti poste in tensione (corde, membrane, ecc.); gli strumenti idiofoni si suddividono in sei categorie principali: a percussione, a scuotimento, a pizzico, ad aria, a raschiamento e a frizione”.