Clima e decarbonizzazione: le carte dell’Italia al G-20
di Mario Agostinelli (*)
Per l’anno 2021 l’Italia ha ricevuto la presidenza del Gruppo dei 20 (il G20), che riunisce i 20 Paesi più “importanti” del mondo, il 60% della popolazione mondiale e l’80% del suo prodotto interno lordo.
Il nostro Paese si presenta all’appuntamento di un’istituzione intergovernativa, che procede e si allarga in una sorta di autoconvocazione e che ha gran parte della responsabilità del declino delle Nazioni Unite, con uno motto tanto ambizioso quanto generico: «Tre P: Persone, Pianeta e Prosperità». Direi uno scansare di responsabilità e una presunzione di ottimismo, dal momento che il cambio d’era in corso richiederebbe ben altro scavare nel dramma della specie umana di fronte alle emergenze sanitarie, climatiche, nucleari e dell’aggravarsi dell’ingiustizia sociale.
Per gli allestitori del programma di un intero anno ancora in pandemia, la rottura tra politica, rappresentanza e società sembrerebbe non avere corso e la mancanza di tempo svanirebbe in un futuro senza conflitti, che si fanno invece sempre più aspri e inaspettati.
Lo stesso percorso amorale che, mentre scrivo questa nota, colloca l’avventura renziana fuori dai parametri temporali di una crisi antropologica in accelerazione e ben lontana dalle regole di una democrazia sociale – già peraltro prosciugata dalle limitazioni imposte dalla lotta al virus – avrà un risvolto negativo anche nei rituali tra le Nazioni che si daranno convegno per riposizionarsi ciascuna secondo i propri interessi. Con la perdita di autorevolezza di una classe politica che rimane in balìa di un vanaglorioso irresponsabile riuscirà più difficile esercitare pressioni al cambiamento ed indicare cammini in discontinuità con la rottura in atto tra Paesi ricchi e l’intero vivente che abita una natura depredata. Un Paese letteralmente dissociato e in balia di fazioni irresponsabili potrebbe ridursi a far da sponda per ritardare il percorso verso una Costituente dei Popoli e della Terra, ormai da tempo impedito, per il diffondersi di sovranismi e xenofobia, a quel che resta delle Nazioni Unite e della Carta dei Diritti del 1948.
Credo quindi che i movimenti sociali debbano assumere un ruolo ed entrare in partita, affinché la politica prenda atto che occorre andar oltre nella direzione che l’Europa ha faticosamente intrapreso con la presidenza della Merkel e che sarà ulteriormente rafforzata con l’alternanza del portoghese Costa. Una direzione diversa dal recente passato ed in cui la cooperazione ha cominciato a contendere apertamente la scena al nazionalismo più ottuso. Non basta ventilare propositi. Occorre – a venti anni da Genova – riaprire conflitti sociali che puntino ad essere rappresentati politicamente, svuotando i tanti teatrini in cui i leader mondiali non assumono mai impegni cogenti, lasciando così libero spazio al negazionismo, che condanna la giustizia sociale insieme a quella climatica. Purtroppo, la sfida è complessa, dato che la società italiana e le sue rappresentanze politiche e sociali vivono nello sconcerto, in una certa afasia e in una svogliata fraternità con sempre meno uguaglianza e con limiti alla libertà. E senza rendersi abbastanza conto dell’aggressività delle forze reazionarie, che volentieri riempirebbero le “Tre P”, rafforzando la convinzione che xenofobia e sovranismo “difendano” meglio della solidarietà e della cooperazione, mettendo in conto che sul Pianeta non ci sia posto per tutti.
Per meglio chiarire le poste in gioco, scelgo un tema cruciale nella fase in corso e faccio direttamente riferimento all’appuntamento che il G20 prevede a Napoli il 22 luglio su Ambiente, Clima, Energia.
Vale la pena ricordare che in questi giorni assorbiti da una spregevole contesa al governo, siamo chiamati ad una doppia responsabilità: individuare con razionalità una soluzione di maggior sicurezza per le scorie – rafforzando così la fuoriuscita dal nucleare – e, nel contempo, indirizzare fuori dai fossili il programma energetico che ENI ed ENEL vorrebbero ancorare al vecchio modello basato su un potenziamento degli stoccaggi e della produzione a gas nei nostri territori. Si tratterebbe , al contrario, di mettere in campo una coerente visione alternativa: quella di lasciarci definitivamente alle spalle un sistema centralizzato che ha messo fortemente a rischio le popolazioni e che. da ora in poi, potrebbe trovare soluzioni con la promozione delle fonti rinnovabili, dello stoccaggio elettrico, delle comunità energetiche, rese sufficienti sul territorio con la partecipazione dei cittadini.
I documenti programmatici al riguardo sono sul campo: la mappa dei siti nucleari e il Recovery Fund per la parte di decarbonizzazione, ma sono entrambi sequestrati al dibattito pubblico, che ne rileverebbe immediatamente la distanza dalle indicazioni generali che il Parlamento Europeo ha indicato ai Paesi membri e che le popolazioni. se coinvolte, sosterrebbero con convinzione.
Vediamo in particolare, quel che sta uscendo dal pasticcio del Recovery Fund, in base alla bozza di programma aggiornata al 13 Gennaio e che prevede per l’Italia 209 miliardi di fondi europei per attuazioni di progetti approvati nel 2021 e realizzati entro il 2026. Per dare una risposta all’emergenza sanitaria globale innescata da un’accelerazione innaturale del modello di produzione e di consumo e amplificata dal cambiamento climatico, credo si possano individuare alcuni obbiettivi, che elenco di seguito, del tutto concretizzabili con una scelta politica coerente, determinata, realisticamente assumibile innanzitutto dalle nazioni che parteciperanno al G20 e, quindi, estendibile al resto del mondo. In fondo è anche quanto si aspettano i cittadini provati dagli avvenimenti più drammatici e inconsueti di questo nuovo secolo:1) Rispettare e rafforzare gli impegni previsti dall’accordo di Parigi; 2) La transizione dall’uso di carbone, petrolio e gas naturale all’energia pulita, sicura e rinnovabile con sistemi di stoccaggio (idrogeno, pompaggi) da essa alimentati. 3) Passaggio a sistemi di trasporto a zero emissioni di carbonio con particolare attenzione al trasporto collettivo. 4) Costruire sistemi alimentari e agricoli locali, sani e sostenibili. 5) Investire in politiche che sostengano una transizione giusta per i lavoratori e le comunità che risentono negativamente del passaggio a un’economia a basse emissioni di carbonio. 6) Garantire che l’uguaglianza di genere sia al centro dell’azione per il clima. 7) Alzare la voce del settore sanitario nell’appello all’azione per il clima. 8) Incorporare le soluzioni climatiche in tutti i sistemi sanitari e di sanità pubblica. 9) Costruire comunità resistenti di fronte al cambiamento climatico. 10) Investire nel clima e nella salute.
Il Parlamento Europeo ha già risposto in modo significativo a queste esigenze indilazionabili lanciando la “neutralità climatica al 2050” e fissando primi obbiettivi al 2030 ( assai prossimi alla attuazione e messa in funzione dei progetti Recovery Fund fissate per il 2026): una riduzione almeno del 55% delle emissioni di gas a effetto serra (rispetto ai livelli del 1990); una quota almeno del 32% di energia rinnovabile; un miglioramento almeno del 32,5% dell’efficienza energetica.
Da subito la Germania, dove nel 2020 le fonti rinnovabili hanno superato i combustibili fossili nella produzione di energia, ha varato una nuova legge sulle fonti verdi, che, per la prima volta, rende ufficiale l’obiettivo della neutralità dei gas serra entro il 2050, con un dettaglio di passaggi annuali per raggiungere il 65% di produzione da energie rinnovabili entro il 2030. Negli stessi giorni è stata varata una legge per la promozione di idrogeno verde dotata di 8 miliardi €.
Nella bozza ultima del Recovery Fund italiano, ben lontano dai nostri partner più decisi, fortunatamente si conferma la proroga del bonus al 110% per gli edifici, mentre sono assegnati 2 miliardi per l’idrogeno e oltre 8 miliardi per la produzione e distribuzione di energie rinnovabili con sostegno alla relativa filiera. Questi sono gli elementi di novità, per quanto inseriti in un contesto molto dubbio e contradditorio soprattutto nelle sue linee di fondo. Si fa riferimento ancora al PNIEC di Calenda, già ampiamente superato, se pensiamo che per raggiungere il target europeo del Green Deal al 2030 dovremmo realizzare 65 GW di nuovi impianti rinnovabili a fronte dei 40 GW previsti dal PNIEC.
Il capitolo “Green” del Recovery ha subìto sforbiciate nel corso della tenzone tra Renzi e i ministeri e si è attestato a 67,5 miliardi, 20 in più di quanto riservato alla digitalizzazione. Di essi 3,1 miliardi riguardano progetti di investimento nella “transizione verde” dell’Eni, sparsi nel documento in modo un po’ vago, ma che – è risaputo – contengono il grande progetto di sequestro della CO2 già annunciato al mercato, dunque già programmato e, per quanto ne so, non contestato dalla Regione Emilia-Romagna. Una più attenta analisi manifesta come il gas (e quindi ENI) sia l’attore primario della riconversione energetica e come la pretesa tecnologia CCS (cattura e sequestro del carbonio) sia nient’altro che un trucco per far guadagnare tempo alle corporation del gas che aumentano le loro quote nel mix energetico nazionale oltre il 2030. Quindi, niente decarbonizzazione adeguata, ma una ulteriore centralizzazione della rete elettrica, dimensionata sulla combustione del metano e col trucco intollerabile del “capacity market” (un obolo in bolletta a carico dei consumatori) e del sequestro di CO2 (che rende il Kwh da gas più caro di quello da rinnovabili). Quella del sequestro è una tecnologia assai pericolosa e del tutto impraticabile. fino a che sia dimostrata la possibilità di trattenere in sicurezza un gas velenoso nel sottosuolo. ENI fa riferimento ad una ambigua posizione della European Hydrogen Strategy che prevede un investimento nell’idrogeno blu (da CCS) in una ristretta forchetta fra i 3 e i 18 miliardi di euro entro il 2050, mentre alla stessa data si prevedono investimenti nell’idrogeno verde da fonti rinnovabili pari a una forchetta fra i 180 e i 470 miliardi di euro. Ma è proprio in questa dichiarata irrilevanza spuntata all’ultimo momento dal blu rispetto al verde che si può valutare la pressione esercitata dalle lobby del gas per aprire varchi consistenti e per pregiudicare con le decisioni dell’oggi quel che a parole si ritiene indispensabile, ma nei fatti e negli affari si rimanda ad un domani indefinito. Questa, si può affermare, è la strategia di medio-lungo periodo con cui ENI (con ENEL compiacente) vuole mantenere il nostro Paese ancorato ai fossili, mentre l’apparato energetico e manifatturiero europeo si sta profondamente rinnovando, con effetti benefici sull’ occupazione e sollevato dal contributo esiziale alle emissioni di gas climalteranti.
Se, come movimenti e società civile, oltre ai rappresentanti politici, andremo a Napoli a parlare di ambiente clima energia, dovremmo avere le carte in regola. Perciò dobbiamo da subito mobilitarci perché sia chiaro che sul cambiamento climatico il tempo per indugiare è passato. Se non agiremo rapidamente a livello globale, già tra pochissime decine di anni potremmo trovarci nelle condizioni di dedicare la massima parte delle nostre risorse alla gestione di disastri climatici in fieri, senza poter implementare azioni di più largo respiro di mitigazione – agendo sulle cause del cambiamento climatico – e di adattamento – operando invece sugli effetti.
Naturalmente, i divulgatori economici alla Fubini sul Corriere della Sera, trascurano tutto questo e concentrano il loro attacco su un’eccessiva attenzione nei confronti del ruolo dell’idrogeno “verde” e delle rinnovabili, sostenute a loro dire da indebiti incentivi. Occorre ribadire che la loro legittimazione è dovuta all’emergenza climatica e che una competizione su un ideale mercato sarà impossibile finchè opereranno i sussidi pubblici alle fonti fossili. Ma se dovessimo dar retta loro, e alla mano tutt’altro che invisibile che sbilancia il mercato, presto le nuove generazioni potrebbero maledire la devozione ad un moloch e ad uno sviluppo alterato, che incominciano ormai a far parte dell’archeologia, anche nel senso comune.
(*) per «Transform»