Il futuro è un ingorgo
di Erremme Dibbì (*)
Nel 1965 l’Aci ebbe un’idea originale: raccolse e pubblicò fantascienza automobilistica sotto l’allettante titolo «Il grande Dio Auto». Quei 23 racconti antologizzati erano naturalmente di ineguale intensità narrativa e contenutistica ma, nel complesso, offrivano una lettura intelligente e piacevole, con il necessario contorno di inquietudini. «Il grande Dio Auto» si trova ormai solo nelle libreie dell’usato (peccato) ma può offrire lo spunto per accennare a come la letteratura avveniristica – fantascienza se preferite o sfi, per dirla all’americana – abbia visto il futuro di un oggetto che sembrava (e sembra) inarrestabile.
Dopo 20 anni, alcuni temi appaiono invecchiati:auto che si ribellano ai loro padroni; vere e proprie corse della morte (con l’obiettivo di uccidere pedoni o altri automobilisti); ingorghi inestricabili… Ma il secondo e il terzo di questi spunti fantastici forse ci sembrano banali perché sono superati dalla cronaca.
Quando Julio Cortazar scrisse di un ingorgo impossibile a districarsi in cui la gente deve rassegnarsi a vivere (ispirò un film italiano e poi una trasmissione radiofonica di successo) le cronache parlavano di file nel traffico al massimo di qualche ora. Adesso nelle grandi città basta che piova e si rimane intrappolati per mezze giornate senza che la cosa faccia notizia.
E riguardo alle corse della morte? «I feriti sono quasi 20mila. Più di 800 i morti dal 27 luglio al 28 agosto sulle strade italiane»: sono notizie del 1979 e 836 morti in 33 giorni trovano ino spazio ridottissimo sui giornali, tanto il fatto è abituale (o tanto sono potenti gli uffici stampa dei produttori di automobili?). Altra breve citazione: «Il numero delle vittime per incidenti stradali ha superato dal 1945 a oggi il numero dei morti nelle due guerre mondiali». Piccolo quiz: chi lo ha detto? … E’ una pubblicità Ibm (degli anni ’70 per l’esattezza) per assicurare che con il computer si sarebbero costruite auto più sicure. Non sembrerebbe, viste le cifre. O forse il problema non sta solamente nell’auto. Ralph Nader, il furibondo avvocato che organizza negli Usa i consumatori, già dal 1965 aveva scritto «L’auto che uccide» che nell’edizione italiana (Bompiani) portava il significativo sottotitolo: «Una spietata accusa: l’insicurezza delle automobili a qualsiasi velocità. Un libro che ha spaventato le grandi case americane». Effettivamente “le grandi case” si impaurirono ma certo non sono corse ai ripari se, a esempio, nel 1979 la General Motors dovette ritirare dal mercato , in fretta e furia, un milione di auto per bulloni difettosi.
Se questo è il quadro reale non c’è bisogno di immaginare “corse della morte” che non siano il traffico quotidiano ed evidentemente molta fantascienza appare datata. Però alcuni spunti rintracciabili in «Il grande Dio Auto» – e altrove – ci aiutano ancora a riflettere.
Chi è un pedone, a esempio? Robert Heinlein lo definisce «un uomo che era riuscito a trovare un posto dove parcheggiare un’automobile». David Keller affida a due personaggi questo istruttivo dialogo:
«Mamma, i pedoni sentono il dolore come lo sentiamo noi?».
«Oh no, naturalmente no, tesoro. Non sono come noi. Qualcuno di loro non è neppure un essere umano… Forse sono più alti delle scimmie ma molto più bassi degli automobilisti».
Infine Ray Bradbury scrive di un suo personaggio: «In 10 anni di passeggiate, di giorno e di notte, per migliaia di chilometri, non gli era mai capitato di incontrare un altro essere umano che camminasse come lui per la città, nemmeno uno». Il titolo di questo splendido racconto è «Pedone ingiustificato» e lascia presagire un cupo finale.
Abbandoniamo ora (pur se vi sarebbero ulteriori motivi di interesse) questa antologia targata Aci; passiamo dalle «strade mobili» di Heinlein e Dino Buzzati – il migliore degli italiani che qui reggono bene il confronto con i più noti stranieri – per effettuale una carrellata su qualche altra idea “futur-auto”.
Fra le decine e decine (forse centinaia) di storie fantastiche incentrate sull’automobile, ne sceglieremo 4.
Cosa sarebbe accaduto (o accadrà) per una crisi energetica davvero super? Se lo chiedeva Harry Harrison in un raccontino intitolato «Auto sociale» (apparve sul numero 686 di Urania nel dicembre 1975). La sua ironica – o forse no – risposta è che i guidatori, pur di non rinunciare allo status symbol, si potrebbero sobbarcare della fatica di due ore per caricare la loro auto… a molla, garantendosi così un’autonomia di viaggio di quasi 11 minuti.
C’è qualcosa di preoccupante nel fatto che molte persone scendano il meno possibile dalle loro vetture. Su questo punto Robert Young ha imbastito un geniale racconto, meritatamente famoso: «L’auto addosso» che si trova anche nell’antologia «Il dio del 36° piano» (Oscar). Gli umani che non portano l’auto «addosso» sono considerati disgustosamente nudi e confinati in riserve, lontani dalla vista della gente per bene. A esempio Arabella vorrebbe togliersi l’abito (cioè l’automobile) ma ha paura del «Grande Jim». Howard prova a rassicurarla: «Il Gran Jim? Non esiste. Lo hanno inventato i fabbricanti di auto per far paura alla gente […] Il governo ha dato il suo appoggio perché se non si comprano più vetture l’economia rischia di entrare in crisi. Non è stato difficile raggiungere lo scopo perché la gente stava già sempre in macchina».
E se il traffico fosse il punto militarmente più debole di una nazione? L’idea di una invasione (magari extraterrestre) o di un attacco (i perfidi sovietici?) sotto forma di pistoni e semafori – moderni cavalli di Troia – contro gli indifesi statunitensi ha ispirato più di un autore. Il più convincente (forse perché il meno “fantasioso”) è il quasi sconosciuto Irwin Lewis che, nel 1964, scrisse il romanzo «Il giorno che invasero New York» (Urania 401). Negli Usa il libro suscitò un certo panico a 3 livelli: fra i lettori (i quali ovviamente contano ben poco): nei piani alti delle industrie automobilistiche, dove si decise (al solito) che la faccenda era talmente complessa che l’unica soluzione consisteva nel non muovere un dito; e nei ministeri e luoghi addetti alla sicurezza che svolsero, senza clamore, le opportune verifiche. Cosa c’era di tanto preoccupante in «The Day They Invaded New York»? La mossa decisiva dell’invasione avveniva facendo scattare contemporaneamente, in ogni punto della città, tutti i semafori sul verde. Caos totale: l’attacco ha successo. L’invenzione narrativa sembrò talmente possibile da indurre l’ufficio del traffico e la polizia federale – o almeno così scrissero i giornalisti dell’epoca – a rafforzare la sorveglianza nei punti chiave della “catena di comando” semaforica.
In una recente antologia di R. A. Lafferty («La banda di Barnaby Sheen», Urania numero 1088) c’è un fulminante racconto, «Tutti in tram», del genere crono-utopia. Si immagina dunque che all’inizio del 1900 l’umanità, incerta se privilegiare il trasporto su gomma o su rotaia, abbia finito con scegliere tram e treni. E mentre si trova su un tram, Charles Archer sente d’improvviso un suono acuto e avverte un odore di monossido e gomma. Subito avvisa il manovratore e tutti si mettono in caccia, armati di fucili. Un bambino chiede perché bisogna proprio uccidere. Ed ecco la risposta: «Nessuno si è mai riabilitato […] La loro pazzia è infettiva […] C’è una diabolica arroganza in tutti loro, uno sfrenato individualismo. Non c’è nulla di più pericoloso per la società di un uomo in automobile […] Ti piacerebbe nascere in mezzo a questa puzza di monossido, viverci ogni momento, morirci?».
Uno scrittore italiano che si dedica saltuariamente alla fantascienza, Sergio Turone, immagina – al contrario di Lafferty – che se le auto non ci fossero più le rimpiangeremmo: «di sera i fanali multicolori delle automobili, in chilometriche code, dovevano creare una suggestione cromatica d’intenso lirismo» (la frase è nel racconto «Operazione Ugo», sconvolgente storia di “fanta-fisco” che probabilmente giace in un cassetto del ministero competente, sotto la dicitura «rimedi estremi»).
Sin qui la letteratura.
E il cinema?
Tra i film che fantasticano sull’auto ne scegliamo 3 soltanto, lasciando da parte le varie Christine (vetture killer); o il camion assassino (nel film «Duel» di Spielberg, sceneggiato da Richard Matheson) che nessuno guida eppure è lì, sulla strada, a buttar fuori gli automobilisti “antipatici”.
Vediamo invece «Weekend» di Jean-Luc Godard (del 1967 ma lo si rintraccia su qualche tv privata) che è una interminabile carrellata su rottami di macchine, cadaveri, guidatori impazziti e sanguinari. E’ un’idea di come potrebbe “evolversi” un mondo a misura d’auto che non appartiene solo al dissacrante regista francese. Tanto è vero che una sua connazionale, Christiane Rochefort, affermava polemicamente che «L’assassinio è consentito se il semaforo è verde».
C’è poi «Anno duemila, la corsa della morte» di Paul Bartel (uno dei molti allievi di Roger Corman, mago dell’orrore) dove si immagina fra l’altro che i piloti in gara accumulino punti se uccidono qualcuno lungo la strada. Un’idea simile di recente è stata adottata in un gioco elettronico: dopo qualche protesta, la ditta produttrice accettò di trasformare il gioco, ora vince chi non ammazza pedoni… Ma molti assicurano di aver visto girare anche l’altra versione…
Infine «Koyanisquatsi» di Godfrey Reggio: è un insolito documentario che gioca su immagini accelerate e rallentate, su un massiccio martellamento sonoro (anche grazie alle musiche di Philip Glass) e sulla ripetizione ossessiva della parola del titolo (una parola che fra gli indiani hopi indica «un modo di vivere non accettabile»). Se vi capita di vederlo – gira più che altro nei cineclub – preparatevi a un (salutare) mal di testa: è come guardare il traffico… per la prima volta.
In definitiva, perché amiamo tanto le automobili? Nell’introdurre un’antologia dedicata alle nuove mitologie, un cinico scrittore di science fiction, Thomas Disch (da con confondere con il più celebre Dick) risponde così: «La mia teoria è che l’esperienza umana contemporanea, che viene portata all’apoteosi dal mito del razzo, sia quella di guidare o di andare in automobile. Si può deplorare l’uso dell’auto come mezzo di auto-realizzazione e delle autostrade o superstrade come vie per l’estasi, ma soltanto gli istruttori di scuola guida negherebbero che le macchine possono essere qualcosa del genere».
Quasi certamente Disch ha ragione, così come degna di riflessione è l’abitudine, diffusa particolarmente in America latina, di erigere piccoli templi votivi fatti di pneumatici e/o pezzi di carrozzeria. Pratiche pseudo-religiose simili si diffondono, magari in modo meno vistoso, anche da noi: molte persone riversano sull’automobile attenzione, fatica e amore in proporzioni ben maggiori di quelle dedicate agli esseri umani più vicini.
Se le auto sono davvero tanto amate, il più perfido racconto di fanta-macchinismo allora lo ha concepito un italiano, Primo Levi. Nelle sue «Storie naturali» (Einaudi) lo scrittore finge di aver scoperto un parassita specifico delle automobili, la «Cladonia rapida» (così si intitola il racconto) e ne fa oggetto di una comunicazione scientifica. C’è da pensare che se qualche rivista specializzata, tipo «Quattroruote», pubblicasse – senza commenti – ciò che ha scritto Primo levi, il panico sarebbe superiore a quello che la pur massiccia (e agitata) campagna sull’Aids è riuscita a propagare.
Ma se invece l’automobile in futuro fosse superata (o sconfitta) da più potenti rivali? Come sarebbero i trasporti del domani? Anche su questo tema la fantascienza ha qualcosa di interessante da dirci. Sarà l’argomento di un prossimo articolo. Nel frattempo ci si potrebbe utilmente interrogare sul perché (e dove) andiamo così velocemente.
(*) Erremme Dibbì è lo pseudonimo-acronimo con il quale io (Dibbì) e Riccardo Mancini (Erremme) ci firmavamo su «il manifesto» o altrove quando scrivevamo di fantascienza e dintorni. «Il futuro è un ingorgo» uscì – con un seguito che presto sarà postato in blog – nel dicembre 1985 sulla rivista sindacale «Il lavoro nei trasporti». Nel rileggerlo non mi è sembrato invecchiato. Vale forse aggiungere che alcune storie e in particolare il film «Anno duemila, la corsa della morte» hanno continuato a ispirare, fra l’altro, moltissimi videogiochi. Mi è sembrato di sentire nell’aria un «purtroppo» ma forse mi sarò sbagliato, magari era solo una sedia che scricchiolava. (db)