Del vincere e del perdere, dalla parte degli Hopi
di Gianluca Cicinelli
E’ un tipo vincente, si dice di alcune persone, e sembrerebbe un complimento, ma noi indiani Hopi non la pensiamo così. Eccolo là, il solito disfattista che vuole far finta di non godere per la conquista del titolo europeo di calcio della nazionale italiana. Per niente invece, sono un tifoso dell’As Roma che sta male e non rivolge la parola a nessuno nelle giornate meno fortunate della “Magggica”. Amo il calcio, lo sport, un po’ ne ho fatto, mai mi è sfuggita neanche per distrazione dalla bocca la frase più ipocrita al mondo: “non è importante vincere ma partecipare”. E allora che c’entrano gli indiani Hopi? Ti chiedo un po’ di pazienza e di provare a seguire il ragionamento: proprio come la vittoria il discorso necessita di essere costruito con costanza, allenamento e determinazione. Perchè i termini che usiamo con disinvoltura nello sport hanno invece implicazioni sociali determinanti e riflettere sulle parole ci aiuta a capire i fatti.
Gli Hopi sono una popolazione indigena americana che ha avuto la sfortuna di trovarsi all’interno di quelli che dopo l’invasione europea sono finiti per diventare gli Stati Uniti d’America, per la precisione in Arizona, all’interno della grande nazione Navajo. Ne sono rimasti vivi soltanto 20 mila, se volete conoscere qualcosa in più della loro storia iniziate dalla voce Hopi di wikipedia in inglese che è abbastanza completa per iniziare il viaggio. L’Hopi Dictionary Project definisce il significato della parola Hopi come “comportarsi come uno che è educato, civile e pacifico“. Potremmo dire che gli Hopi sono lievemente Hippies, se non fosse per il fatto che semmai cronologicamente sono gli Hippies lievemente Hopi. La loro è una cultura non competitiva, ma questo non ha impedito loro di esprimere un campione dell’atletica di fondo, Lewis Tewanima, medaglia d’argento nei 10 mila nel 1912 alle olimpiadi di Stoccolma. In una scuola Hopi nessuno però alzerebbe la mano per essere il primo a rispondere, per essere il primo della classe. Nell’insegnamento, ce lo racconta l’antropologa Margaret Mead in “Modelli di cultura“, viene usata la metafora del labirinto, una visione delle difficoltà da affrontare nella vita non come gara con gli altri ma come rinnovamento dello spirito, quindi da gestire secondo i propri ritmi ed esigenze. Non c’è un modello vincente o perdente in quella cultura, ci sono tanti soggetti diversi con tante risposte differenti al percorso dell’esistenza.
Esattamente l’opposto del modello di “vincente” che ha sviluppato la nostra cultura. Un breve elenco di vincenti del nostro tempo: il ricco, l’influencer, il calciatore, la velina, il palestrato, il cantante … aggiungetene voi. Considero perdente questa idea di vincente proprio perchè non tiene conto del percorso. Come li ha fatti i soldi il ricco o come è arrivato l’influencer a un milione di follower o cosa ha preso il palestrato? E non è una questione di legalità ma spesso, per non dire sempre, di sopraffazioni che eliminano “l’altro”. Ci siamo fin qui? Non è quindi un discorso che contrappone la giusta gioia per una vittoria ai tanti problemi sociali che affliggono l’Italia, ma proprio di critica alla cultura della vittoria nella società. Chi fa le classifiche dei vincenti? Naturalmente le fa chi esprime il modello culturale dominante, altrimenti nessuno potrebbe essere così ipocrita da pensare che si è poveri per volontà, che la giustizia è uguale per tutti, che la prosecuzione degli studi non sia legata al reddito della propria famiglia. E poi: come fa, chi fa le classifiche di vincenti e perdenti, a essere sicuro che partecipiamo tutti a questo gioco? Forse nella stessa Giamaica di Usain Bolt c’è una persona ancora più veloce del campione, ma non la conosceremo mai, perchè corre insieme ai suoi amici e non ha interesse a farcelo sapere; d’altronde non ha proprio motivo di farcelo sapere.
Mi capita spesso d’incontrare i “vincenti” di ieri. Che come tutti i vincenti non si sono mai soffermati sul percorso, sul tempo che scorre e sul divenire delle cose ma sull’immediato. Compagni di scuola che andavano per la maggiore a quei tempi messi peggio di Fabris nel film “Compagni di scuola” di Carlo Verdone. Rivoluzionari che erano sempre più a sinistra di tutti oggi lavorano nelle multinazionali. Un tale che non mi dava mai meno di 20 secondi di distacco sui 2000 metri e sfotteva da vera carogna, che adesso ha 150 chili da far sostenere alle sue gambette sottili e un bypass gastrico. Ne godo naturalmente perchè sono un po’ stronzo (e comunque competitivo): perchè non ti scivolano addosso senza conseguenze decenni di pressione culturale a “vincere”. Ma sul rifiuto di quest’idea di società artefatta e drogata dal mito della vittoria non ho mai fatto un solo passo indietro. Per questo m’identifico con gli indiani Hopi. Intanto perchè sono stati sterminati sia come “indiani” che come portatori di una cultura altra da quella competitiva liberista. Per gli Hopi attraverso l’apprendimento si instaurano nei soggetti modelli culturali condivisi, che renderebbero una società omogenea in forza della personalità di base. Mi riconosco in questa cultura non competitiva intesa come concezione della vita individuale e collettiva e per questo dissento e rivendico il mio diritto a dissentire da una società che fa coincidere i vincenti con i prepotenti.
Questo è un esemplare articolo di fondo per “festeggiare” la vittoria della nazionale di calcio.