Sardegna e sindacato: l’esordio di Enrico Pili
Un disperato amore per il sindacato. All’interno del «piacere di raccontare e di affabulare» ne esce un’analisi cruda, quasi spietata perché questa organizzazione «è parte della società e come tale ne riflette i vizi». L’amore però resiste a ogni delusione dichiarando che questa resta una «grandissima organizzazione, forse ancora l’unica in grado di fare da argine alle politiche più impopolari e socialmente devastanti». Chiuse le 354 pagine di “La quinta S” di Enrico Pili, bisogna superare una sensazione di smarrimento (o forse di tristezza) e tornare alla premessa dove si leggono le frasi citate: dunque questo lungo diario all’interno della Cgil non vuole indurre al qualunquismo ma spingere alla ricerca di strade nuove per uscire dai momenti bui che segnano anche il più glorioso e numericamente forte sindacato italiano.
Nella premessa Pili dichiara che «le vicende narrate sono opera di fantasia e nessuna caratterizzazione ha come riferimento uomini e donne realmente esistenti». Ma in gran parte è una bugia. Non solo perché – tanto per fare un esempio – risulta chiaro a tutti che il dirigente della Cgil (nel libro chiamata però Cil) indicato come BT e fumatore di pipa è Trentin ma anche perché chiunque conosca un minimo di Sardegna e/o di sindacato individuerà molti personaggi: tant’è che spesso l’autore “storpia” appena appena nomi e cognomi oppure ribattezza i protagonisti con soprannomi intuibili o noti. La citata «ironia del caso» dunque non c’è. Eppure chi leggerà questo libro con la serenità necessaria capirà che non per viltà Pili finge di scrivere un’opera di fantasia; e non per spirito di vendetta “lava i panni sporchi” in pubblico: l’autore ha avvertito il bisogno invece di fare i conti con un pezzo importante della sua vita e allo stesso tempo si mostra convinto (e sarebbe assai difficile dargli torto) che la tragedia-commedia tipicamente sarda da lui mesa in scena riguarda tutti o perlomeno può interessare chiunque faccia i conti con quel gigante che si chiama Cgil.
Ovviamente i giornalisti, i sindacalisti, i militanti sardi potranno cadere nella legittima tentazione di contestare un singolo episodio o l’intera ricostruzione ma il punto è un altro: questo minuzioso, persino pedante in certi momenti, ma sempre ben scritto viaggio nella «selva oscura chè la diritta via era smarrita» (versi dell’Alighieri aprono e chiudono il libro) può interessare e appassionare un ipotetico pubblico “medio” oppure soddisfa solo il piacere di Pili (un po’ di narcisismo c’è sempre, come del resto ammette lui stesso nella breve ma chiarissima premessa)? Per quello che vale la mia risposta… mi sbilancio: è un libro da leggere, una storia da conoscere e meditare. Quanto a capacità “affabulatoria” di certo non manca a Pili; bisognerà vedere se dopo quest’opera prima vorrà dedicarsi alla scrittura oppure se altre passioni prevarranno.
La prima pagina ci catapulta in una riunione sindacale, anzi in un “consiglio direttivo”. I ruoli e gli schemi («l’operaio duro e puro», i distaccati, le correnti, il peso dei partiti, il cimitero degli elefanti…) ci sono tutti: quasi mai diverranno caricatura. E a riprova dell’onestà intellettuale di Pili leggendo si vedrà che di “buoni” e “cattivi” ne trova in ogni gruppo, frazione, partito oltre dunque le etichette e le appartenenze. Il linguaggio di Pili è ironico, piacevolmente descrittivo, dotto ma popolare, innamorato del sardo – e della storia di un’isola che è anche universo – ma con occhi sempre aperti: da Popper a Lafargue, da Bertrand Russell alle leggi della robotica di Asimov, dall’amato Mozart a Martin Luter King, da Rosanna Benzi a Tacito, da Thelonius Monk al sardo “ad honorem” Fabrizio De Andrè. Persino dai litigi per corrispondenza con un brigatista rosso, chiuso in super-carcere, vien fuori qualcosa da imparare. A proposito, non sbaglia una citazione Pili ma il cinefilo perde un colpo: confondere – parlando del film “Io ti salverò” – una gelida Tippi Hedren con Ingrid Bergman è peccato mortale.
La sincerità fino alla crudezza è talmente dichiarata che il secondo capitolo si intitola addirittura «Mettìnculi e pigliànculi». Allo stesso modo l’autore non nasconde il suo machismo dietro quello del sindacato né cela debolezze, simpatie, errori che lo toccano. Si è invasi dalla tristezza leggendo quella pagina dedicata a una riunione sindacale sconvolta dalla delegata senza slip; soprattutto perché non si fatica a crederci. Le battutacce contro le donne (e, neanche a dirlo, contro gli omosessuali) appartengono all’ambiente più che a Pili, ma forse… coinvolgono anche lui: tacerlo o mimetizzarlo sarebbe stato reticenza. Il linguaggio “politicamente corretto” è una gran truffa se non si accompagna alla radicalità delle prassi. Come bugiardo risulterebbe il non citare che le riunioni sindacali contro le barriere architettoniche si facevano in una sede della Cil inaccessibile proprio a chi sta in carrozzina. Ho abitato a Cagliari, posso confermare – ove qualcuna/o nutrisse dubbi – che di parole belle se ne sono dette alla Cgil… in cima alle scale.
Che il sistema funzioni ancora con «l’articolo quinto del codice partenopeo» («chi ha i soldi in tasca ha vinto») è evidente al protagonista ma lui è convinto che nella Cil, della quale è dirigente, ci si possa opporre. Per farlo però bisogna sradicare quella mentalità (dai corporativismi delle categorie fino alla corruzione dei singoli e a una pretesa di impunità che si vorrebbe per ogni “rappresentante dei lavoratori”… a prescindere) anzitutto dentro i sindacati. Dove si aggirano «intellettuali organicamente scemi», un bel po’ di «eccebombo», persino chi con la sua presenza dà «il senso dell’inutilità» o quell’altro soprannominato «diarrea di parole, stitichezza di pensieri». Lo ribadisce spesso Pili: nel sindacato c’è anche tanta «gente d’altri tempi, lavorano gratis, per la causa, o semplicemente sono persone serie». Ma se si convoca, a esempio, un direttivo regionale sull’aria fritta inevitabilmente «le conclusioni sono aria fritta». Proprio da qui il protagonista di “La quinta S” inizia la lotta: da bravo scacchista sa che bisogna avere visione del gioco, una strategia, conosce i cinque consigli di Chuan Tzu. Se perderà… forse è per aver sbagliato gioco: non sapeva di essere seduto a un tavolo di poker, aveva dimenticato che Kafka e Pirandello (o persino il comico locale Benito Urgu) sono sempre in agguato.
Un’ultima osservazione: ogni opinione resta legittima – “centu concas, centu berrittas” ovvero cento teste e cento pareri – ma se chi legge riterrà Pili essere troppo “cattivo” con il sindacato dovrebbe meditare una notizia che, proprio mentre scrivo, cioè nell’ottobre 2005, arriva dalla Germania… Per anni un dirigente della Wolkswagen si è incaricato di pagare i servizi di alcune prostitute per ammorbidire (cioè ricattare) i sindacalisti. Del resto “La quinta S” nomina più volte una storiaccia nel sindacato sardo che si concluse nel sangue: chi abbia buona memoria leggendo tradurrà il nome di fantasia («Agugliastra») automaticamente. Che ogni organizzazione sia “corruttibile” o possa dar rifugio a mascalzoni è una triste ovvietà: la vera questione è se le scelte politiche e organizzative accettano di fare i conti anche con questa “zona grigia” o preferiscono sempre ricorrere al più comodo dei manicheismi. Se all’interno dei nostri sindacati la lettura di “La quinta S” aiutasse a qualche auto-critica, davvero sarebbe un ottimo risultato per questa “opera di fantasia” e certamente Pili sarebbe il primo a rallegrarsene. In ogni caso nel libro c’è una frase, citata di sfuggita, che io amo molto e penso tutte/i dovremmo tenere il più possibile a mente: “per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo”. Ma chi sul cuscino visita gli stessi sogni del potere neanche capirà quel che agita le notti (e i giorni) dei veri sognatori.
Enrico Pili
“La quinta S”
Aipsa edizioni (070 306954, aipsa@tiscalinet.it )
354 pagine, 15 euri
UNA NOTA
Fra ieri e oggi, leggendo della morte di Enrico Pili alcune persone mi hanno chiesto di sapere qualcosa di più. Così ho ripescato questa mia recensione a «La quinta S». Fu il suo esordio narrativo, pochi anni fa, e anche l’occasione nella quale io ed Enrico ci conoscemmo: nei miei 5 anni in Sardegna (a cavallo degli anni ’80-’90) non ci eravamo mai incontrati nonostante la comune frequentazione della comunità di Sestu, un luogo – intendo le molte persone che lo abitano, ci passano, vi congiurano – che apre il cuore alla speranza. Se anche da forestieri vi capitasse di passare a Sestu cercate la comunità, pranzate con loro. C’è sempre un piatto in più pronto per l’ospite nella Comunità di Sestu pur se vivono in una sobrietà che, a volte, rasenta la povertà. Mangiate con loro, fatevi raccontare le storie di chi – disabile o cosiddetto normodotato che sia – prova a guardare in faccia la vita senza abbassare il capo.
Torno al mio incontro con Enrico. Per il coraggio e la scomodità di ciò che «La quinta S» racconta ma soprattutto per l’omertà di tanti sindacalisti e giornalisti… nessuno lo recensiva, persino un paio di librerie sarde dove doveva essere presentato d’improvviso cambiarono idea quasi come – ci potreste credere? – se la Asl avesse notato, proprio due giorni prima, che un rubinetto era fuori norma. Il per me allora sconosciuto Enrico mi chiese di leggerlo e, se credevo, di recensirlo. Feci l’una e l’altra cosa, quasi sperando che le mie recensioni («Carta» dove allora lavoravo era assai letta in quell’area del sindacato che ancora respirava aria pura) scatenassero un po’ di casino. Silenzio quasi totale, persa l’ennesima buona occasione per invertire la rotta.
Oggi nel rileggere questa recensione mi accorgo che anche io, come Enrico, ho dato per scontato (o era un amo per chi legge?) che tutte/i ricordino quali sono le quattro S del “cattivo” giornalismo di moda: sesso, sangue, soldi e santi. Che poi ovviamente il problema non è tanto che quelle 4 S sono meno importanti di 2 L e 2 G (che so: lavoro, libertà, giustizia, generosità) ma che la maniera giornalistica di usare quelle 4 S è funzionale ai poteri e ad alimentare l’ignoranza.
E’ chiaro quale fosse per Enrico la quinta S ? Sindacato dice chi ha letto il libro; ma se fosse speranza? O sogno? Io ne ho uno di sogno: che la Cgil (non un editore qualunque) ristampi questo libro prioprio per regalarlo ai delegati e alle delegate del suo prossimo congresso.
Un gran libro, con tutti i suoi difetti. “Ma è troppo egocentrico” hanno detto di Enrico: chi può negarlo … tant’è (spero si avverta l’ironia) che il suo ultimo libro, «7171», lo ha costruito intorno a Luigino Scricciolo, vittima di una grande e lunga ingiustizia, che Enrico aveva appena conosciuto e che non sapeva sarebbe morto poco prima di lui.