Quelli col pacco grande: un esperimento sociale?
di Gianluca Cicinelli
Immagino sia capitato a tutti di prendere un bus, una metro, un treno e d’improvviso veder salire un signore o una signora con un pacco di dimensioni abnormi. Di solito è un contenitore di cartone, chiuso malamente con adesivo da pacchi, talvolta rafforzato dalla corda, che nonostante le già ampie proporzioni del pacco sembra fare fatica comunque a contenere ciò che ospita all’interno. Le due parti di cartone superiori disegnano una piramide, come anche gli angoli laterali, basterebbe un piccolo attrito per farlo aprire e rovesciare tutto il contenuto per terra senza poter ricomporre il pacco. Ma cosa c’è dentro, un insieme di oggetti o un unico grosso oggetto? Difficilmente lo sapremo, sta di fatto che il possessore del pacco occupa almeno tre o quattro posti con un biglietto dello stesso valore monetario del tuo e questo basta da solo a guastarti l’umore e renderti ostile. Quando poi comincia a farsi strada, perchè quelli col pacco grande lo sanno che sono indesiderati e mettono a punto una strategia precisa prima di salire a bordo, calpestando piedi, sbattendo sui pali per appoggiarsi, andando a urtare contro le persone a causa di frenate e sterzate, allora è il momento che si affida alla mimica facciale. L’espressione è complessa, viene messa a punto in anni di allenamento presso le migliori accademie di arte drammatica. Lo sguardo passa dalla sofferenza per il peso del pacco, che però non è risolutiva nel captare benevolenza, a uno smarrimento che simula quasi stupore per trovarsi in quella situazione, più un’occhiata al cielo che significa “è stata una forza superiore” a obbligarlo a compiere quel viaggio col paccone, e ancora il tentativo di dirottare l’attenzione su qualcuno più vistoso, meglio se una vecchia con il collo di pelliccia che fa sempre odio sociale. Tutte queste movimentazioni del viso in un circolo temporale che ricomincia ogni dieci secondi. Talvolta penso sia un esperimento sociale di quelle università californiane che negli anni ’60 gli hanno dato troppo dentro con l’acido.
Infine il ribaltamento della situazione. Con un colpo di scena ecco che siamo tutti ben disposti verso di lui appena ci accorgiamo che sta per scendere. Deve rifare il percorso al contrario verso la porta e noi, che l’odiavamo fino a un secondo fa, ci prodighiamo per facilitargli l’uscita, il che significa mettere le mani finalmente sul pacco, toccarlo per aiutarlo a spostarlo e anche cercando per telepatia da contatto d’indovinare cosa mai possa contenere. Infine il momento clou: il mezzo si ferma e apre le porte, il furbastro scende prima del pacco contando sul fatto che pur di liberarcene saremo noi a passarglielo da sopra. Due, tre, quattro spinte, altri stinchi e piedi calpestati: finalmente ci liberiamo di questo grandissimo rompicoglioni, del pacco e del mistero che l’avvolge insieme al cartone.
È allora che viene in mente possa trattarsi di un esperimento sociale, perchè appena scende ci sorridiamo tra noi, per una volta rilassati come si conviene tra umani scampati a un pericolo, una liberazione che ci rende solidali e per un momento non ostili. Certo, vorremmo sapere dove abitava, da dove veniva, dove andava, soprattutto cosa conteneva il pacco e a chi era destinato. Ma per vivere bene bisogna accontentarsi delle piccole cose: ci basta apprezzare come impatto filosofico che l’uomo col pacco grande abbia finito di romperci il cazzo.