Mostri immaginari e sofferenze tangibili
Intervista ad Alberto Merini
Nello studio di Alberto Merini spicca la tela di un artista cileno che ripropone, in allegoria, gli orrori dello stadio di Santiago dopo il golpe di Pinochet. Più sotto la statuina di un orribile uomo-lupo: «regalo di una studentessa che si laureò con una tesi sulla licantropia». Il colloquio si svolge dunque sotto l’ombra di immagini che rimandano a mostri concreti (dittature, corpi martoriati) e immaginari («il mal di luna») ma che pure possono causare sofferenze tangibili.
Nostalgia è l’antico nome dato alla malattia di chi era lontano da casa. Il crescente intreccio fra culture e popoli fa parlare oggi di etno-psichiatria. Ma il malessere degli immigrati è statisticamente rilevante? Come si manifesta? Nel periodo 1995-2000 a Bologna vi erano 605 ricoveri di immigrati mentre nel ‘90-‘95 la cifra era 195; 4 ricoveri in Spdc (servizio prevenzione, diagnosi e cura) ogni 10 mila nel ’91 ma nel ’99 salgono a 20. Da qui parte la conversazione.
«A inizio anni ’90 il malessere dei migranti è percentualmente inferiore a quello dei nativi, successivamente aumenta» sintetizza Merini: «Almeno due le spiegazioni: l’ovvia constatazione che all’inizio i migranti non conoscono i servizi ma dall’altra che questo star male è cresciuto. I nomi che diamo sono schizofrenia (con tutte le discussioni che la definizione comporta), tossicodipendenze e alcolismo, disturbi dell’umore, infine psicosi acute che io preferisco chiamare con l’espressione francese bouffèe delirante perché così – uno scoppio – si manifestano in molte culture, soprattutto africane. Anche nei Paesi d’immigrazione si comincia a farci i conti».
Al di là delle definizioni, come si combatte questo disagio quando esplode?
«Neanche le forme più acute si possono affrontare solo con i farmaci. La componente psico-terapica è fondamentale. Spesso gli scoppi nascono da uno smarrimento. Ognuno di noi ha un ruolo preciso che serve a identificarsi nella società e a essere riconosciuti. Se lo si perde senza trovarne un altro diventa persino difficile vivere. Tanti migranti (non tutti, è ovvio) si ritrovano spiazzati: non hanno più il ruolo riconosciuto nella società di origine e ancora non ne hanno acquistato un altro. In questa fase può esserci lo smarrimento. Del resto sappiamo che colpiva tanti emigrati italiani».
Per capire meglio è sempre utile partire dalle storie. Possiamo farlo?
«Abbiamo in terapia un militante dei Fratelli musulmani. Gli arriva una granata in testa mentre combatte in Bosnia. Ora è epilettico. I farmaci servono a poco. Il suo scoppio delirante arriva in moschea: prende tutti a cazzotti. Al di là dei farmaci, ciò che aiuta (lui e anche la moglie) è il dialogo continuo. Altra storia significativa: arriva un pakistano, sente dolori nel corpo e viene al Centro dopo che innumerevoli esami, durati un anno, non offrono spiegazioni. Con lui per giorni parliamo del Pakistan, di somiglianze e differenze con l’Italia. Ci dice “Gli italiani ci guardano come bestie”. Racconta che nel suo Paese era ghettizzato in quanto cattolico. Pian piano sta meglio. Cambia lavoro, ricomincia a uscire con gli amici, gioca a cricket. Si potrebbe dire che l’interesse e l’ascolto, riconoscendolo come essere umano, lo hanno guarito. O anche che fra i popoli non occidentali si somatizza di più e il disagio può essere avvertito in ossa e muscoli anziché in forme depressive. Già un anno dopo la legge Bossi-Fini si vedeva che molti drammi vengono da lì. Ma le contraddizioni sono tante: penso a un nostro paziente che è selvaggiamente sfruttato da un connazionale».
Dialogo, curiosità e accoglienza al posto dei farmaci e magari del sospetto?
«In un certo senso sì. Un’altra storia aiuta a capire. Dopo il parto un’immigrata senegalese soffre di tachicardia, difficoltà respiratorie, dolori al petto: pensiamo a una depressione post parto. La donna è sempre sola: non parla italiano e suo marito lavora lontano. Con tutta probabilità le mancano il gruppo familiare, le amiche, l’involucro protettivo necessario a diventare madre. Ci proponiamo noi come gruppo di accoglimento, simbolicamente come famiglia. Il nostro intervento terapeutico è fondamentalmente consistito nel giocare con il bambino, attività piacevolissima. Alla fine madre e figlio stanno bene, lei decide di andare a scuola d’italiano. Di sicuro esiste una componente socio-assistenziale nel nostro lavoro che affianca la psicoterapia e a volte l’intervento farmacologico. In alcuni casi abbiamo dato persino borse-lavoro a immigrati, oltre che a italiani come solitamente facciamo».
Proviamo a vedere l’altro versante, la paura degli italiani verso questi alieni.
«Una giovane infermiera a un seminario mi dice: “Come posso accogliere gente che si fa esplodere? Io ho paura”. In quella occasione il nostro incontro di studio si trasformò in una sorta di psicoterapia di gruppo. Vota leghista quella ragazza? Forse ma il problema più importante è capire dove la Lega fa leva. Lei era espressione di angosce profonde che devono essere capite alla base. Cosa fa paura? Se i codici di comportamento e persino dei corpi ci sono oscuri ciò genera timore. Persino nel paesaggio riconosciamo qualcosa di familiare (e ci rassicura) o di sconosciuto il che ci inquieta: vale per noi come per i migranti».
Timore di ciò che non conosciamo?
«Di fronte al diverso, all’ignoto abbiamo paura: anche noi bravi terapeuti occidentali non ce lo diciamo ma è così. Jean Amery scriveva (in “Intellettuale ad Auschwitz”) durante la sua fuga dal nazismo: “Il solo fatto che non si potessero decifrare i volti della gente già incuteva terrore”. Anche gli oggetti sono realtà sensorie non decifrabili. Per i turisti – dice sempre Amery – incontrare l’ignoto può essere eccitante, per gli altri invece l’enigma produce angoscia. Quando sono andato da solo a Dakar per ragioni di studio, la prima settimana avevo sensazioni di persecuzione, un’indecifrabile ansietà. Un mattino, nella biblioteca della Clinica psichiatrica, incontrai un collega austriaco e gli descrissi il mio malessere. E lui ridendo: “ma è lo choc culturale Merini, non lo riconosci più?”. Pensiamo alle difficoltà dei migranti ma è importante considerare anche quelle di chi opera in sanità. Forse l’infermiera citata è strutturalmente razzista oppure solo inquieta e confusa. Per questo è importante la formazione. Noi terapeuti siamo “benvolenti” per mestiere ma è un atteggiamento che non puoi chiedere ai tanti che avvertono un vago senso di minaccia».
Inquietudine del migrante e nostra. Georges Devereux è considerato il maggior etno-psicoanalista: in «From anxiety method in the Behavioral Sciences» (del 1967) si chiedeva come uscirne.
«Per chi arriva qui, come paziente, io chi sono? La mamma, a volte. O le amiche, la nonna, il gruppo amicale perduto come nel caso della senegalese. Perciò lavoriamo in due o in gruppo (anche 6 persone, se serve). Non l’abbiamo deciso in astratto ma nelle continue discussioni sul setting, cioè sul dispositivo tecnico. Ecco un’altra storia: arriva un iman con la moglie. D’accordo con la terapia ma il marito chiede “solo terapeute donne”. Diciamo sì, ci sembra una mediazione accettabile. Il nostro setting dunque non è rigido ma in evoluzione. Cerchiamo di adattare i nostri dispositivi ai pazienti in carne e ossa, non il contrario».
Di fronte al migrante “sconosciuto” come si può attrezzare chi opera nella sanità?
«Dialogare con operatori, infermieri, educatori, psicologi, psichiatri secondo me è la strada migliore: per far crescere la consapevolezza occorre la fatica in più di formarsi, studiare. Nel 2003 i responsabili bolognesi hanno avviato una formazione permanente su salute e migrazioni; Usl e università finanziano questi corsi. Bisogna tener conto che fra i nuovi utenti della psichiatria i più numerosi e problematici sono i migranti, dunque aggiornarsi è necessario”.
A volte ci si trova di fronte un’altra razionalità…
«Lasciamo aperta la questione: non siamo Piero Angela o il Cicap che devono capire subito tutto. Noi possiamo aspettare, prenderci tempo se serve. Facciamo i conti con quelle che la ragione giudica credenze del passato come le streghe o i benandanti della nostra cultura o gli attuali sciamani di altre. C’è un approccio razionale che però tiene conto del senso di tali credenze. Lo spiega bene una pagina di “Sud e magia” che vale citare: “Fascinazione, possessione, esorcismo, fattura e contro-fattura sono da ricondurre all’insicurezza della vita quotidiana, all’enorme potenza del negativo e alla carenza di prospettive di azione realisticamente esercitata per fronteggiare i momenti critici dell’esistenza e soprattutto al riflesso psicologico di essere-agito-da con i suoi connessi rischi psichici. In queste condizioni il momento magico acquista particolare rilievo in quanto soddisfa il bisogno di reintegrazione psicologica mediante tecniche che fermano la crisi in definiti orizzonti mitico-rituali e occultano la storicità del divenire e la consapevolezza della responsabilità individuale, consentendo in tal modo di affrontare in un regime protetto la potenza del negativo nella storia”. Così Ernesto De Martino, mi pare siano parole convincenti e scientifiche».
Come fate voi, esponenti di una diversa cultura a tener conto che altri sono abituati a credere in fattori esterni, come causa e terapia del male?
«Ovviamente non facciamo magie, non diamo feticci. Però ascoltiamo, dialoghiamo. Ipotizziamo che ogni migrante si sia costruito una “mappa cognitiva”, che ogni persona abbia fatto una scelta di responsabilità (per sé, per la comunità, per la famiglia) nel decidere di migrare: può essere un buon punto di partenza per aiutarlo, quando sta male, per farlo essere di nuovo protagonista: vorrei dire sereno ma mi pare una parola troppo grossa».
BOX
Alberto Merini è docente di psico-terapia all’università bolognese e dirige il Centro di psichiatria multietnica Georges Devereux, una struttura universitario dell’Istituto di psichiatria Ottonello che ha la sua sede operativa nel centro di salute mentale Borgo-Reno di Bologna e che può essere contattato (in orario 8-20) allo 051 3143034 presso il centralino del “centro di salute mentale” oppure scrivendo in via Pepoli 5 a Bologna. Chi desiderasse approfondire alcuni temi qui toccati può leggere un suo intervento, di grande respiro, al convegno del 30 gennaio 1999 a Prato i cui atti sono poi stati pubblicati in «Djon Diongonon: psicopatologia e salute mentale nelle società multiculturali» (edizioni Colibrì che rispondono allo 02 99040402). Fra gli italiani che lavorano intorno a questi temi occorre ricordare almeno Roberto Beneduce e Piero Coppo. A livello internazionale, il più famoso fra gli etno-psichiatri è sicuramente Tobie Nathan: il suo ultimo libro tradotto in italiano si intitola «Non siamo soli al mondo» e come i precedenti «Princìpi di etnopsicoanalisi» e «Medici e stregoni» (quest’ultimo scritto a 4 mani con Isabelle Stengers) è pubblicato da Bollati Boringhieri mentre altri suoi testi sono usciti da Colibrì e da Ponte alle grazie.
NOTA SU UN VECCHIO ARTICOLO
Quando in blog ho postato (il 30 dicembre) la recensione a «Il bianco e il nero», scritto da Alberto Merini e altri, mi sono chiesto perché nel mio caotico archivio non trovassi più questa mia intervista che era uscita su «il manifesto» (non saprei dire quando, probabilmente a fine 2004) e qualche mese dopo, in versione ridotta, su un numero speciale di «Piazza Grande» che parlava della salute a Bologna. Alla fine, grazie a un amico più ordinato di me l’ho ritrovata. Mi sembra che a distanza di anni funzioni ancora. Perciò eccola (db)
Funzione ancora, sì, Grazie, db.
c.
e grazie all’amico + ordinato di db! E’ interessante ed emozionante, l’ho linkata nel gruppo di Università Migrante su Fb