USA: i prigionieri dell’uomo bianco

nella foto: l’arresto di Leonard Peltier

di Marco Cinque (*)

 

Un crescente rigurgito di populismo forcaiolo sta infettando come un virus i Paesi di ogni parte del mondo, contaminando il senso della giustizia e precipitandoci verso l’arcaico e vendicativo principio biblico dell’“occhio per occhio”, che invade ormai come erba infestante gli orti dei diritti umani, sanciti nelle sempre più ingiallite e inascoltate Costituzioni delle nazioni democratiche.  In testa a queste nazioni, gli Stati Uniti rappresentano un pessimo punto di riferimento, con un modello di giustizia penale che riporta le lancette della civiltà ai fasti medievali: hanno nelle loro prigioni quasi un quarto dei detenuti dell’intero pianeta e sono l’ultimo e unico paese occidentale a prevedere e attuare la pena di morte. Inoltre il sistema giudiziario statunitense ha una natura palesemente discriminatoria, classista e razzista. Infatti tutte le statistiche rivelano che, percentualmente, i nativi americani sono al primo posto, seguiti a ruota dagli afroamericani, nella truce classifica dei condannati da rinchiudere in cella o da spedire nelle mani dei boia di Stato.

Tra i prigionieri nativi americani spicca Leonard Peltier, il 77enne Lakota/Anishnabe, tra i fondatori dell’AIM (American Indian Movement) e simbolo di una resistenza indigena che dura da più di 500 anni. Leonard è rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Coleman I, in Florida, da quasi 47 anni, condannato ingiustamente a due ergastoli per un delitto che non ha mai commesso. Il 28 gennaio scorso, purtroppo, era anche risultato positivo al Covid-19 ed ora ci sono molti appelli e mobilitazioni in varie parti del mondo per chiederne la liberazione e permettergli cure adeguate. Un’indagine della Reuters, prima della pandemia, aveva denunciato un tasso di mortalità di oltre 3000 detenuti ogni anno, poi la gestione dell’emergenza sanitaria nelle carceri statunitensi ha causato tassi di contagio esorbitanti: in alcuni Stati più della metà dei detenuti si sarebbe infettata, secondo un rapporto della Marshall Project News Agency.

Oltre alla storia del prigioniero politico Peltier, si ricordano altre vicende giudiziarie emblematiche meno note, come ad esempio quella di James “Occhio d’Aquila” Weddel. Nel libro Guerriero Dakota, curato dalla giornalista italiana Gloria Mattioni, James avvertiva: «Se hai la sventura di essere indiano, i tuoi famigliari ti piangeranno per morto già sui banchi del tribunale, al momento della sentenza» – aggiungendo con la sua ficcante ironia che «Se Gesù Cristo fosse nato indiano, qui negli Stati uniti, sarebbe stato condannato per pedofilia soltanto per aver detto “lasciate che i bambini vengano a me”.»

Poi c’è stata la vicenda del cherokee Scotty Lee Moore, ucciso dal boia dell’Oklahoma, dopo aver passato metà della sua vita nelle peggiori carceri, fino a sperimentare le atrocità del penitenziario di Mc Alester, il primo costruito interamente nel sottosuolo: «Da allora non vedo un albero, un uccello o un raggio di sole» – denunciò in una sua lettera – «sono seppellito in questa tomba di cemento 24 ore al giorno. Persino le cinque ore d’aria settimanali si svolgono sottoterra, in uno stanzone con un lucernario sul tetto. Se ho imparato qualcosa in questi anni di carcere, è l’abisso incolmabile tra ricchi e poveri. In America la giustizia è direttamente proporzionata al tuo conto in banca. Nel braccio della morte non troverai mai uno con la grana, ma solo minoranze, ritardati mentali, poveracci, analfabeti». Scotty fu adottato dai suoi amici di penna italiani, che riuscirono a portare via il suo corpo senza vita dalla prigione. Le sue ceneri infatti si trovano seppellite nel piccolo cimitero di Manarola, in Liguria.

Nel braccio della morte sono finiti anche il White Mountain Apache Domingo Cantu, il cherokee Clarence Ray Allen e lo yaqui Fernando Eros Caro. Spedito giovanissimo nel braccio texano di Huntsville, Domingo Cantu si dichiarò sempre innocente del crimine per cui fu accusato. Oltretutto, nei processi penali, una legge prevede che ci siano almeno il 15% di giurati di origine nativa ma, come lo stesso Cantu affermava in una sua denuncia: «La giuria che mi aveva incriminato era tutta composta da bianchi ed era formata da sostenitori politici dei giudici e da parenti del presidente della Corte. Ciò violava il mio diritto costituzionale di esigere che la giuria fosse composta da membri largamente rappresentativi della comunità. Una giuria formata da giudici-avvocati, dai loro amici e colleghi, i loro figli e cognati è sbagliata, sbagliata, sbagliata!»

Ray Allen è stata la seconda persona più anziana di sempre a sdraiarsi su un lettino di morte ed anche l’ultimo condannato finito nelle mani dei boia istituzionali della California, dopo aver prima passato trent’anni in una piccola cella del vecchio carcere di San Quentin. È stato ucciso con un’iniezione letale il giorno del suo 76esimo compleanno, benché fosse gravemente disabile, cieco, su una sedia a rotelle e due volte infartuato. A nulla valsero gli appelli alla clemenza giunti da ogni parte del mondo. Allen fu condannato mentre era già in prigione, grazie alla testimonianza estorta con inganni e minacce ad uno dei suoi figli, all’epoca tossicodipendente, che gli imputava di essere il mandante di una rapina finita male, dove rimasero uccise tre persone. In seguito, la dichiarazione giurata e sottoscritta, che lo stesso figlio di Allen portò per scagionare il padre e ristabilire la verità, venne respinta in ogni sede. Vale a dire che uno stesso testimone è stato ritenuto credibile per mandare a morte una persona, ma non credibile quando si è trattato di salvarle la vita.

Infine il caso di Fernando Caro, che durante il processo venne fisicamente e psicologicamente vessato dal personale della prigione e minacciato di morte dagli altri detenuti. Venne tenuto sotto stretta sorveglianza per la preoccupazione di un suo possibile suicidio e gli furono somministrati dei farmaci che gli causarono perdita di memoria, letargia, depressione e psicosi. Lo psichiatra chiamato dalla corte non trovò niente di meglio che consigliare all’imputato di suicidarsi. La sua richiesta di appello che chiedeva la revisione delle decisioni del suo processo fu rifiutata per motivi tecnici. Alla notizia del rifiuto della corte federale, Caro scrisse: «Nella mia richiesta di appello c’erano molte cose che avrebbero messo in discussione il giudizio che ho subito. Sono state raccolte molte prove che avrebbero dimostrato la mia innocenza e c’erano anche degli esperti disponibili a pronunciarsi in mio favore con dei test che mi avrebbero scagionato. Quando il mio avvocato mi ha detto che la richiesta di appello era stata respinta, è stato come ricevere uno schiaffo in piena faccia. Adesso sono qui, con la testa stretta tra le mani, a cercare di convincermi che tutto questo non sia vero». Assieme a Ray Allen, Caro aveva un’intensa relazione epistolare con molte persone in Italia, anche con molte classi scolastiche di alunni e studenti.

Malgrado la malattia, l’età avanzata e un contesto terribile, Leonard ancora resiste, ma James, Scotty, Domingo, Ray e Fernando sono tutti morti, vittime di un tritacarne giudiziario per cui sembra valere ancora il vecchio motto yankee: «l’unico indiano buono è l’indiano morto». In una lettera spedita poco prima del suo decesso, Fernando Caro si augurava che «Se un giorno riuscirò a uscire, libero da questa casa di ferro, passerò il resto della mia vita a lottare contro la pena di morte, perché si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».

(*) ripreso da pagineesteri.it –  da qui

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