Breviario 6 – Infanzia d’eroe
di Mauro Antonio Miglieruolo
Ho un ricordo vivido quando già nell’età della ragione ero sospeso fra maturità incipiente e gioventù declinante.
Sono in via Lavinio, dove ho trascorso parte dell’infausto periodo dell’adolescenza e della fanciullezza, dai 10 ai 17 anni. Via Lavinio 20. Da recluso. Non aggiungo altro.
Decido dopo tanti anni di tornare sui miei passi, cosa che faccio raramente, e andare a bussare al numero 20. Sono ancora legato sentimentalmente a quei luoghi a quelle persone. Nessuno risponde. Per mia fortuna qualcuno esce dal portone e posso a mia volta entrare.
A sinistra ricordo la presenza dell’uscio dell’alloggio del portiere. C’è ancora ma è chiuso, sigillato. Palesemente in via definitiva. Si capisce che il portierato è stato abolito da tempo.
Il silenzio di sempre abita il palazzo (cinque piani). Davanti a me ho alcuni gradini, la cui scalata è necessaria per arrivare al pianerottolo dove insiste la gabbia degli ascensori. Potrei prenderlo, salire al quinto piano e verificare il motivo della mancata risposta al citofono, eventualmente decidendo di aspettare che qualcuno torni, seduto sui primi gradini che portano al terrazzo. Ma mi prende l’avvilimento. Forse a causa del ricordo del primo divieto subito, qualche giorno dopo la scoperta dell’inaudita invenzione definita ascensore.
Delle tante in cui rapidamente mi imbattei, e furono parecchie, nessuna suscitò in me più interesse. Niente di particolare, comunque. Non più che questo: sapere a cosa serviva e come si poteva utilizzare. Tra le tante novità di allora quelle che più mi colpirono furono: telefono, radio, l’intimità inaudita del bagno ecc. Più di tutto però mi colpì sgradevolmente una NON invenzione. La NON invenzione dell’assenza di calore nelle relazioni umane. La cui prova più evidente stava nell’indisponibilità a fornire spiegazioni all’alieno che ero, atterrato sul Pianeta Roma dopo un viaggio di settecento anni luce. Indisponibilità inimmaginabile, considerato che proveniva da parte di coloro che insieme a me occupavano uno dei tre appartamenti collocati al quinto piano. E uno di loro non era il fratello del padre di mio padre? Mio pro-zio?
Il ricordo del divieto. Doloroso ricordo. Rievocato per puro masochismo. Sapevo m’avrebbe fatto male, lo rievocai ugualmente. Subito dopo scappando. Come un ladro. Ladro dei miei stessi ricordi.
Fui io stesso causa del divieto. Eravamo in tre nell’ascensore. Impetuoso incosciente avventuroso, da buon ariete, anticipai il gesto di uno di essi, smanioso di svolgere anche io qualche incombenza. Manovrare le antine interne che chiudevano la piccola gabbia dove eravamo imprigionati e sospesi nel vuoto.
Una perentoria proibizione fermò la mia mano.
“Non toccare!”.
Ma avevo già toccato. Non per incoscienza, già sapevo. Avevo esplorato. Una delle tante volte ch’ero dovuto scendere da solo. Sperimentando a mio rischio e pericolo. Le ante interne, la porta esterne, la pulsantiera, la differenza di valore fra i due pulsanti di sotto e la colonna di quelli sopra…
Prima di attentarmi a farlo avevo osservato attentamente le mosse degli altri. E dedotto. Conoscevo bene quel che sarebbe derivato da ogni mio atto. Sapevo anche quel che sarebbe successo se avessi confessato la mia imprudenza. Quel che derivava sempre. Non fare, non toccare, non accendere la radio, non respirare nemmeno…
Tacqui. Non toccai. Mi limitai a dolermi del divieto come mi dolevo dell’assenza di istruzioni su ogni altra materia del mistero immane che l’esplorazione del pianeta comportava.
Lo spavento per l’improvvida mia iniziativa produsse i suoi frutti. Per la prima volta si disturbarono a istruirmi: anche l’ultima. Sì, erano cortesi: a domanda rispondevano. Ma a volta era difficile anche formulare le domande. Anzi persino immaginare la necessità di porle.
Ricevetti spiegazioni particolareggiate, che confermarono la validità dei risultati delle pregresse esplorazioni. Tenere ben ferme le ante delle porte interne, attenzione a quando l’ascensore era in movimento, chiudere con cura quella esterna, non toccare la coppia di pulsanti in fondo (uno bloccava l’ascensore, l’altro allarmava il palazzo) e utilizzare invece il primo in alto e l’ultimo in basso. Non altro. Poi restarsene immobili, trattenendo il respiro, quasi. E sperare.
Sì, fu l’unica spiegazione che ebbi su qualsiasi tema e situazione. Incluso le difficoltà scolastiche. Mai un aiuto, un sussidio. Su qualsiasi difficoltà. Neanche reputavano opportuno informarsi. Non seppero mai, quindi, che non conoscevo la grafia in corsivo di alcune lettere maiuscole. La H di Hotel, a esempio. E poi la X e la T… non ricordo quante altre. Stampatello sì, sapevo, i libri ne erano pieni. Da nessuna parte purtroppo il relativo corsivo. Nei dettati ricorrevo all’espediente di sostituire il corsivo con lo stampatello, provocando sottolineature rosse. Nessun maestro o professore che abbia pensato a indagare. Avevano altro a cui pensare.
Io stesso avevo ben altro a cui pensare. Ero molto malato, dentro e fuori. In pericolo di vita. Arrivato a Roma con una pleurite in atto, il braccio destro che stava andando in cancrena, la volontà di continuare seppellita dal disgusto. Rifiuto della vita. La quinta elementare l’avevo fatta in paese. Fatta per modo di dire. Dopo essere stato una specie di fenomeno nelle prime tre classi, in quarta e quinta arrivò il disastro. Rimandato a settembre. Però a settembre ero già stato spedito a Roma, non avevo potuto svolgere l’esame: fortuna mia, i maestri grotteresi mi avrebbero bocciato di nuovo. Dovetti ripeterla a Roma quella benedetta quinta, ma dopo un anno sabbatico di assenza per essere curato.
Credo di essere stato preso per i capelli. Ogni settimana a piazza Adriana, all’ambulatorio Enpdep, medicazioni, endovene, visite, punture a gogò. Mi ci portava mio padre, da anni separato, che aveva ottenuto gli fossi spedito proprio per essere sottratto alla china di perdizione che avevo imboccato. Non esistevano concetti, per quanto semplici, che mi potessero essere spiegati. Anche 10 volte di seguito. Finché un maestro (si fa per dire) che mi dava ripetizioni – la mia povera mamma, anche questa spesa – esasperato dalla mia ottusità si ritenne autorizzato a gratificarmi di una passata solenne di schiaffi. Sberle! Sberle! E ancora sberle. Ma soprattutto umiliazione.
Un giorno – oddio che giorno! – io che sempre educatino (mamma cara ci teneva tanto) non avevo mai pronunciato una parola sconcia o bestemmiato ne sciorinai tutto un rosario. Con i compagni di ventura intorno che mi fissavano all’inizio sorpresi e poi facendo tanto d’occhi, increduli. Non ne pronunciai dieci, furono cento, mille, diecimila. Finché ebbi fiato, tirai giù l’intero Paradiso, su tutto l’INFERNO. Iddii, Madonne, santi grandi e piccoli: nessuno fu risparmiato. Tant’è che ancora mi chiedo dove li avessi trovati tutti quei nomi, quel fiorire di bestemmie, rabbia e impotenza tradotta in parole. Forse ero già uno scrittore di fantascienza.
Da allora peggio, non ci fu concetto che potessi acquisire cioè fossi disposto ad acquisire. Giocoforza dunque impacchettarmi e spedirmi a Roma, nella grigia impersonale Roma Caput Mundi. Imprigionato in un gigantesco complesso di solitudine nel quale dovevo destreggiarmi, agire come si doveva, pur non sapendo nulla di ciò che mi conveniva e sconveniva fosse. Come nulla sapevo di matematica (all’inizio, almeno: poi divenni bravo quanto il maestro); e storia, italiano, geografia eccetera. Non avevo persone intorno. Difficoltà. Ostacoli. Solo mulini a vento che tentavano di far di me un Don Chisciotte in sedicesimo, non in grado di far ridere e nemmeno piangere.
Ero tagliato fuori da tutto. Cinema, tv, radio, frequentazioni di altri ragazzi che anche involontariamente avrebbero potuto insegnarmi. Non conoscevo nessuno. Se uscivo, anche grandicello, dovevo chiedere il permesso, rendere conto di dove andassi. Non aveva importanza. Non voleva la pena andare da nessuna parte. Non c’era dove andare, nulla che avesse senso, in quel succedersi di casermoni interrotti da scorie insignificanti del passato. Del quale nulla m’importava. Ripagando della uguale indifferenza nei miei confronti.
Pian piano la resurrezione. La speranza esiste, sapete. Non badate a me: situazioni come quella in cui sono stato coinvolto sono estreme. Lo stesso la possibilità di salvezza è a portata di mano. Nonostante le difficoltà ulteriori, verso la fine dell’adolescenza, determinate dalla morte di mio padre. Quando ancora nulla sapevo del mondo. Nulla della vita. Nulla di Roma. L’appartamento di via Lavinio 20 e poco altro. E allora l’indigenza vera, la fame, il pericolo di sprofondare nell’abisso degli emarginati. Senza soldi. Senza relazioni. Sotto i ponti.
Ci salvò (anche mia madre si era trasferita a Roma) una donna pietosa, la signora Gustin. Dio l’abbia in gloria.
La ripago oggi con questo scritto. Come la ripagai più tardi aiutando un suo nipote a risolvere un grave handicap scolastico (matematica). E più avanti ancora diventando il primo della classe e più oltre ancora il primo della scuola.
Oggi scrivo, anche se non sempre so se lo faccio veramente e se quel che ho scritto vale. Continuo a farlo. È la mia vocazione. Alias ossessione. Non so fare altro…
Perché, sappiatelo, confido solo in voi, nella vostra indulgenza. Non ho mai seguito lezioni di analisi logica (sempre assente). La sintassi non so neppure cosa sia.
Davvero, c’è speranza per tutti.
Un ricordo amarissimo e al tempo stesso coinvolgente. Dove non c’è nulla che respinga ma piuttosto ci sono molte cose che attirano. La mia storia è diversa e al tempo stesso uguale per ragioni diametralmente opposte: ero il più piccolo in casa con due fratelli maggiori. Che, ovviamente, facevano da megafono ai divieti di una madre non sempre equilibrata. Ecco, i divieti. L’elemento che unisce Mauro a me e a tanti altri di quella generazione del dopoguerra (credo tu sia un pochino più in là dei miei 69 anni). Anni nei quali apparvero strumenti micidiali e pericolosi ma terribilmente attraenti: radio, televisori, ascensori (appunto: il primo lo vidi a Roma dopo il trasferimento da Bologna ma non era a casa mia e mia madre aveva il terrore di rimanervi chiusa dentro, così era un continuo “non toccare”) e altri ammennicoli tecnologici. Ma tutti proibiti, quasi come il pianeta dell’omonimo romanzo…divieti che a noi bambini dopo qualche iniziale perplessità, apparivano ingiusti. Noi, le radio, le televisioni, gli ascensori, li sapevamo far funzione. Eccome. Eppure eravamo “piccoli” e in quanto tali incapaci di capire il mondo che ci circondava. Un mondo di adulti incerti e spaesati dinanzi a quelle novità (costose peraltro) e, dall’altra parte un mondo di bambini che si affacciavano a una realtà diversa, con desideri diversi, idee diverse. Pericolosi? Forse. E allora il rimedio era un bel “non toccare” magari seguito da un ceffone neanche ci avessero portati a vedere un’impiccagione o una decollazione pubblica…