Ancora su «Futuri uniti d’Africa»
db sulla bella antologia (18 racconti) edita da FutureFiction. Con nota in musica per chiudere.
Stanislaw è vecchio, uno degli ultimi della specie: il figlio che gli arriva non è il modello giusto e… Così nel primo racconto, «Scrutare verso il sole» di Clifton Gachagua.
I protagonisti di «Tappeti galleggianti» di Mohale Mashigo – una delle 6 autrici di questa antologia – hanno scelto di vivere sotto l’oceano. Quelli che stanno sopra capiranno perchè gli oceanici «voglono tenere il segreto»?
Molto bello «Il test di regressione» (un’eco di Philip Dick) del nigeriano Wole Talabi dove dio solo è una possibilità, c’è «un mucchio di riso» e chissà se «le donne anziane sognano le loro madri elettriche?». A s/proposito “gran bastardo” in yoruba si dice «omo ale jati jati».
Tloto Tsamaase è una scrittrice motswana, cioè di un gruppo etnico del Botswana; il suo «Istantanee virtuali» è scritto benissimo ma gira un po’ a vuoto. A s/proposito in Afrikaans «se voet» significa “col cavolo”.
Bell’idea ma finale fiacco per «La sua seconda pelle di foca» della pluripremiata e tradotta in 25 lingua Lauren Beukes. E’ uno dei molti racconti – ne ho contati 7 – che sin dalla prima o seconda riga proietta nel futuro, qui con una «vasca di immersione sensoriale».
Bello e triste «Modi nuovissimi (di perderti un’altra volta e un’altra volta ancora)» del sudafricano Blaize Kaye.
Un po’ troppe sparatorie forse ma la trama funziona in «Il villaggio del diavolo» del rwandese-nigeriano Dayo Adewunmi Newari. Qui le prime parole sono «l’impianto corticale nella mia testa».
Invece fantascienza e fantastico sono quasi solo una cornice per «Quel che disse il morto» della nigeriana (ma vive in Canada) Chinelo Onwualu. La storia si svolge nel Biafra del 22° secolo e per due volte leggeremo che «non si possono recidere i fili invisibili del debito familiare semplicemente scappando in una terra remota».
Ci muoviamo fra il 2025 e il 2080 nel racconto «Nella blockchain noi confidiamo» dell’abilissimo Solomon King Benge. Semplice e riuscito. Il minaccoso dottor Spoiler mi consente di dirvi solo che il futuro è nell’agricoltura (già, ma quale?).
Apre su «i cieli gialli di Abuja, capitale della Repubblica dell’Africa Unita» la storia che il nigeriano Yazeed Deselè ha intitolato «Afrinewsia»: triste e bello anche questo, fra i migliori dell’antologia.
Riuscito e assai inquietante «Corpi ospiti» di Tendai Huchu: occhio alle frecce e al «me che guardo me che guardo me» in un loop infinito.
Quasi perfetto – forse il lieto fine è un po’ forzato – anche nell’ironia «Le donne vengono da Venere» della malawi Tiseke Chilima.
Efficace e semplicissimo «Piedi di metallo» della scrittrice Temitayo Olofinlua che si definisce «un’impicciona di contenuti».
Robot anche in «Riunione di famiglia» del nigeriano Mazi Nwonwu (pseudonimo del giornalista Chiagozie Nwonwu) ambientato fra 2072 e 2089.
«Computer femmina cercasi, candidarsi all’interno» del nigeriano Innocent Chizaram Ilo è, a mio avviso il meno riuscito dell’antologia.
Assai insolito – persino per i “canoni” della fantascienza – «Sunset Blues» dello scrittore e regista Wanini Kimemiah. Torna anche qui la questione linguistica e politica della schwa (o scevà): magari in “bottega” ne parleremo un’altra volta ma in questo racconto “il genere” non è il maggior problema. Comunque la si pensi c’è un gran finale.
Struggente, bellissimo «L’ultima narratrice» di Dilman Dila. Dopo averlo letto due volte io continuo a chiedermi se «mamma avrebbe avuto le risposte» e perchè la protagonista urla «no».
L’antologia si chiude con un giallo quasi in stile Charles Bukovsky (se il più noto fra gli ubriaconi ha scritto thriller, controllerò): «Diario di un pirata del Dna» del sudafricano Stephen Embleton. Terrorismo vecchio e nuovo, apocalittici e integrati, un grido d’allarme (datato 2085) in arrivo da Marte per «l’homo sapiens del cazzo».
Sono molto d’accordo con Clelia Farris (*) e dunque “copio e incollo” (si dice a Roma “chi c’ha ‘na comodità e nun se ne serve ‘n trova ‘n confessore che l’assorve”) la sua sintesi:
«In Africa non manca niente, neppure la fantascienza. Il continente più ricco di risorse naturali del pianeta ci sorprende ancora sfornando una messe di scrittori e scrittrici che si cimentano nel genere letterario del futuro.
Giovani e pieni di talento, smaliziati, consapevoli di dover scrivere il divenire dei loro Paesi, spesso ironici, gli autori e le autrici di Futuri uniti d’Africa ci conducono alla scoperta dell’Africa che sarà. La linea narrativa che accomuna i racconti si sviluppa intorno al conflitto fra vecchio e nuovo».
Ottima l’introduzione di Nicoletta Vallorani con bei dribbling fra il noto (tipo il nobel Wole Soyinka ma anche Nnedi Okorafor) e l’a noi ignoto. «Non saprei dire se questa cifra narrativa è solarpunk» ma in ogni caso l’antologia suscita «uno stupore entusiasta per tutto quello cui non ho mai pensato e che si può fare nella fantascienza». Sottoscrivo. E concordo anche con le conclusioni: «Trovo in questa antologia molti atti di coraggio. E questo è raro e perfetto: è così che dovrebbe essere, sempre, per chi scrive».
Interessantissimo anche «Perchè l’Africa ha bisogno di creare più fantascienza» di quel Wole Talabi che incontreremo poi nell’antologia: la sua pensosa prefazione è un inno all’Africa (alle molte Afriche) in marcia nella fantascienza come negli ambiti «STEMM» ovvero «scienza, tecnologia, ingegneria, matematica e medicina» ricordando che «dobbiamo essere capaci di immaginare il futuro prima di poter iniziare a crearlo».
(*) cfr «Futuri uniti d’Africa» con una noticina della “bottega” (anche per evitare confusione con un quasi omonimo romanzo)
«Futuri uniti d’Africa»: fantascienza contemporanea africana
a cura di Francesco Verso
traduzioni di Stefano Ternavasio e Francesa Secci
Future Fiction (info@futurefiction.org)
prima edizione maggio 2021
284 pagine, 17 euri
UNA NOTA RIGUARDO ALLE 7 (e più) NOTE
Molti libri – non tutti – hanno una loro musica. Nelle pagine di questa antologia suonano l’ogene (grossa campana di metallo colpita con una bacchetta) e lo shekere (una particolare zucca con perline). Ma visto che esistono i Nommo Awards ho pensato bene di accompagnare la mia lettura con il vecchio «Drums Unlimited» del batterista Max Roach: il secondo brano – ipnotico e secondo me indimenticabile – si intitola «Nommo» e rimanda agli spiriti antropomorfi venerati dai Dogon. Per restare poi fra spiritualità africana e jazz subito dopo ho ascoltato «In the Spirit of Ntu», uscito a maggio, bellissimo album del quarantenne pianista sudafricano Nduduzo Makhathini, primo titolo della Blue Note Africa. Voi probabilmente direte “Ntu, cioè?». E’ l’Essere «fondamentale», dio se volete, che include 4 categorie molto diverse da quelle delle religioni monoteiste: l’Essere che ha l’intelligenza; l’Essere senza intelligenza (dunque la natura); i diversi modi di vivere la spiritualità; il collocarsi nello spazio e nel tempo. Un gran cd per accompagnare quest’otttimo libro.