MilanOltre 2022
susanna sinigaglia
MilanOltre 2022
Al festival di danza che ogni anno inaugura l’autunno milanese, ho visto La question des fleurs (in apertura) cui sono seguite Coefore Rock&Roll, Erectus e a una certa distanza di tempo Heres, nel nome del figlio; Le Royaume des ombres, Signe blanc, Portrait of FT.
Infine ho partecipato di nuovo volentieri alla conferenza danzata dal titolo La danza sociale e teatrale dal XIV al XVIII secolo tenuta dal prof. Alessandro Pontremoli con il suo gruppo di danza antica il Leoncello, che avevo già molto apprezzato durante la stagione 2020. Rimando per questa alla mia recensione apparsa in Bottega:
https://www.labottegadelbarbieri.org/milanoltre-2020/ di cui riporto a fine articolo un ampio stralcio.
La question des fleurs
Interpreti
Daphnée Laurendeau e Danny Morissette
coreografie
Andrea Peña, Christophe Garcia, Dominique Porte, Ismaël Mouaraki
Daphnée Laurendeau e Danny Morissette fondono 4 coreografie di altrettanti coreografi: Andrea Peña, Christophe Garcia, Dominique Porte e Ismaël Mouaraki. Danno così vita a un “abbraccio danzato”, a un intreccio dei corpi che continuamente si cercano, si allacciano, si svincolano per poi ricongiungersi in un gioco di amplessi che potrebbe durare all’infinito…
il tutto accompagnato dalla musica, quale filo conduttore-tessitore, di Laurier Rajotte.
Coefore Rock&Roll
regia, coreografia, scene e costumi
Enzo Cosimi
Erectus, Pithecanthropus
progetto, regia e coreografia
Michele Abbondanza, Antonella Bertoni
Affronto insieme queste due performance perché le ho viste in una stessa serata che mi si prospettava interessante e varia ma, al contrario, è iniziata con il deludente Coefore Rock&Roll di Enzo Cosimi, un autore su cui avevo molte aspettative. Anche la scelta di mettere in scena il lavoro al Padiglione d’arte contemporanea, uno spazio dedicato alle arti visive, faceva presagire un allettante intreccio fra danza e immagine. E invece, dopo un avvio abbastanza promettente, un considerevole drappello di giovanissimi danzatori che formavano a gruppi composizioni monumentali offerte agli spettatori schierati all’esterno del padiglione dietro le vetrate, la performance si è sempre più rivelata come una copia poco riuscita degli happening teatrali anni ’70. Gli spunti ripetuti, cumulandosi gli uni agli altri, avevano come risultato l’effetto di depotenziarsi o addirittura elidersi a vicenda.
La stessa sera, mi aspettava a teatro il lavoro della compagnia di Abbondanza/Bertoni. Arrivata in ritardo insieme ad altre persone per il prolungarsi della performance di Enzo Cosimi, i valletti ci hanno permesso di entrare in sala ma passando dall’alto, mandandoci a sedere nella parte superiore del teatro.
In scena vediamo 4 ballerini nudi che dovrebbero narrare il passaggio dell’ominide quadrupede alla posizione eretta. La coreografia fa riferimento all’album di Charles Mingus intitolato Pithecanthropus erectus pubblicato nel 1956, primo passo dell’artista verso il free jazz che si svilupperà negli anni ’60.
Tornando alla nostra performance di danza, per quanto piacevoli allo sguardo fossero i danzatori nella loro flessuosità, date le circostanze non avevamo più la disponibilità mentale per apprezzare la coreografia come forse avrebbe richiesto e la sua visione non è riuscita a dissipare il malumore provocato dalla performance precedente.
Heres, nel nome del figlio
CIE EZ 3
Ezio Schiavulli
Agli strumenti
Dario De Filippo, Donato Manco
Molto interessante e originale mi è sembrato questo spettacolo di Ezio Schiavulli, che prende come riferimenti simbolici la figura di Edipo e quella di Telemaco, dove Edipo incarna la rivalità con il padre mentre Telemaco la fedeltà dell’amore filiale ma anche la dipendenza dal padre. Le due figure esplorano l’ambivalenza del rapporto del figlio col padre, un amore-odio che caratterizza la maggior parte delle relazioni familiari. Il lavoro è stato accompagnato dal commento di una psicologa, Anna Stefi.
Ezio Schiavulli, da figlio ormai arrivato all’età in cui potrebbe essere a sua volta padre, s’interroga sulla soglia di questo passaggio esistenziale.
Curiosamente, la figura del padre è rappresentata dal suono della batteria – che ne incarna la voce – posta su un grande tavolo mobile al centro del palco con il batterista e il percussionista (che alla fine dello spettacolo ci tiene a sottolineare tale differenza professionale) che vi si fronteggiano.
All’inizio della performance il danzatore-figlio si trova come prigioniero sotto un tavolo dove si dimena, mentre il suono degli strumenti sembra sopraffarne i tentativi di emergere.
Man mano che la performance si sviluppa, Ezio Schiavulli segue un percorso emancipatorio che lo porterà alla fine a saltare sul tavolo e a impossessarsi del posto di uno degli strumentisti, come a simboleggiare la sua conciliazione con la figura non più opprimente del padre.
Le Royaume des ombres, Signe blanc, Portrait of FT
Coreografia
Noé Soulier
Interpreti
Vincent Chaillet, Noé Soulier, Frédéric Tavernini,
Con le prime due coreografie dedicate a Vincent Chaillet, Noé Soulier intende scomporre e ricomporre i diversi vocabolari che abbracciano i generi coreografici fino alla danza contemporanea.
In Le Royaume des ombres, da ballerino formatosi alla scuola della danza classica, Noé Soulier cerca di comprendere l’articolazione dei passi che ne costituiscono l’idioma, ricostruendolo tramite i movimenti impercettibili ma essenziali per la formazione del tessuto connettivo che lega i passi gli uni agli altri[1].
E Signe blanc va avanti inquesta direzione virando però verso la pantomima. Nominando il tipo di passi di danza il performer crea uno scarto di senso, suscitando l’ilarità del pubblico, in quanto l’esecuzione non corrisponde a quanto annunciato. Viene scomposto, frantumato così dall’interno il linguaggio della danza aprendo squarci su nuovi orizzonti.
E infine con Frédéric Tavernini – interprete di grande calibro che nella lunga carriera ha lavorato con Maurice Béjart, Mats Ek, Trisha Brown e William Forsythe –, Noé Soulier procede nel suo percorso di ricerca sul linguaggio della danza cercando di decifrarlo, questa volta, a partire dalla lettura dei segni impressi sulla pelle dell’interprete.
Fra percezione e narrazione, esecuzione e interpretazione.
La conferenza danzata
Alessandro Pontremoli
Compagnia Il Leoncello
La danza sociale e teatrale dal XIV al XVIII secolo
L’intento del relatore, Alessandro Pontremoli, è tracciare una sintesi della storia della danza occidentale in tutte le sue sfaccettature. Da un secolo all’altro le funzioni e i canoni della danza si trasformano di pari passo con i mutamenti sociali, quindi nel rapporto degli esseri umani con il proprio corpo che si esprime nei gesti quotidiani, e con le mode delle varie epoche. Resta però immutato il ruolo socializzante della danza.
Mentre però nel Trecento la danza ha soprattutto una funzione di corteggiamento verso la dama da parte del cavaliere, e non era ancora considerata un’arte, già alla fine del Quattrocento la danza aveva ricominciato a salire in palcoscenico, un evento che non si era più prodotto dai tempi degli antichi greci. Chi la praticava tuttavia non era considerato ancora un vero e proprio artista, ma un nobile che si esibiva davanti ai suoi pari.
Nel Cinquecento le danze si svolgevano alle feste di corte e dovevano rispettare determinate regole, quelle delle “buone maniere”. Veniamo quindi a sapere che le buone maniere furono inventate dagli italiani, che poi le esportarono in tutto il mondo, e avevano una finalità estetica (il loro scopo era di mostrare la bellezza). Inoltre la danza aveva una funzione terapeutica (come del resto tuttora), quella di mantenere il nobile in salute.
In particolare a Milano e malgrado la dominazione spagnola (1530-1714) operava una delle corti più splendenti, e l’industria manifatturiera acquisiva prestigio in tutta la Lombardia con la produzione di stoffe intessute di metalli preziosi, poi esportate in tutta Europa. E questo spirito imprenditoriale si esplicava anche nella danza. A Milano operava Cesare Negri, uno dei coreografi più importanti dell’epoca, che nel 1602 pubblicò un libro in cui descriveva le danze di società e quelle da lui coreografate per la scena. Aveva inoltre una scuola di danza molto affermata e “teneva a bottega” dei giovani perché diventassero a loro volta maestri di danza.
Nel Seicento, in Europa si andava creando un linguaggio coreografico comune riprendendo danze cinquecentesche come la “Gagliarda” e la “Pavana”. Ma soprattutto venne scritto un libro, The English Dancing Master, ristampato per quasi cent’anni in cui si riproponevano alcune danze, le English Country Dances, che risalivano all’epoca medievale ma riadattate al gusto dell’epoca. Nel libro ne vengono fissate le regole, il tipo di musica che le doveva accompagnare, le distanze da mantenere nello spazio. La Country Dance era ballata da tutte le classi sociali permettendo loro di mescolarsi. Prima si diffuse in Francia e poi in Europa: in Italia venne “maccheronicamente” tradotta “contraddanza”. È un ballo di gruppo che segue certi moduli precisi, prese e figure. Il relatore ce ne dà una breve dimostrazione insieme a sua moglie. Sono danze modulari: hanno uno schema strofa-ritornello dove a volte cambia la strofa, a volte il ritornello e a volte entrambi, però musicalmente seguono la medesima struttura. Fra le varianti troviamo le cosiddette longways, danze che si svolgevano con tante persone – a volte anche cento – disposte in lunghe file, da cui il nome. I musicisti ripetevano all’infinito la stessa melodia perché tutti dovevano ballare con tutti; così la prima coppia risaliva progressivamente la fila scambiandosi il partner a ogni passaggio.
La prima danza di gruppo a 4 che vediamo si chiama Rusty Tufty, tratta dalla raccolta di John Playford[2]. È tutta al femminile, ha movimenti molto più fluidi fatti di saltelli e giravolte ma anche di passeggiate e scambi di partner nelle coppie; gli abiti delle danzatrici sembrano di raso, arricchiti di pizzi sullo scollo e sulla finitura delle maniche.
La seconda danza è ancora a 4 ma stavolta le coppie sono miste, uomo-donna, e si chiama Parsons, sempre tratta dalla stessa raccolta; seguiranno Dargason e Picking Crossing. La Parsons è una danza molto impegnativa ma dà anche molta soddisfazione a chi la esegue; la Dargason è una danza a 6 e si svolge lungo una linea, il professore la chiama un po’ “bauschana”, mentre Picking Crossing è molto divertente, con una serie d’intrecci simili a quelli della danza popolare perché veniva ballata dai nobili insieme ai contadini durante le feste estive all’aperto. Soprattutto in Picking Crossing, la musica è molto vivace. Seguono Mister Beveridge’s Maggot e The Hole in the Wall, entrambe più complesse delle altre che venivano eseguite anch’esse in lunghe file (ma qui i danzatori sono solo 6), e Saint Martin, ancora una danza a 4. A questo punto si può notare come man mano che ci si avvicina al Settecento, alcuni movimenti ci ricordino quelli del minuetto e della quadriglia, che s’imporrà nell’Ottocento.
Prima di passare al Settecento bisogna sapere che mentre fino a circa la prima metà del Seicento era l’Italia ad avere il primato della danza, durante la seconda metà, con il Re Sole, del primato si era impossessata la Francia.
Infatti nel 1661 Luigi XIV fondò l’Académie royale de dance, dove si formavano i danzatori, gettando le basi della danza accademica come la si conosce oggi, dalla prima fino alla quinta posizione. Il ballerino di punta dell’accademia era il re stesso, che avrebbe assunto il nome di Re Sole perché in una celebre coreografia, Le ballet de la nuit, aveva interpretato Apollo, il sole. E la danza diventò uno strumento di potere e della politica. Infatti il re obbligò quella nobiltà francese che cospirava contro di lui a trasferirsi a Versailles e a ballare otto ore al giorno; e chi ballava male, veniva degradato in relazione alla vicinanza con il re. La danza che si affermò a corte era il minuetto: se il nobile sapeva ballare il minuetto poteva restarvi, altrimenti veniva allontanato. I nobili inauguravano le feste con il minuetto e lo danzavano avvicinandosi progressivamente al re; inoltre danzavano esattamente come i professionisti, con la stessa tecnica. Il minuetto era inserito in suite di cui facevano parte danze come la Bourrée e il Passepied.
Nel nostro caso, il minuetto ci viene presentato da un’unica ballerina, che interpreta sia la donna sia l’uomo con una serie di gesti molto raffinati ed espressivi, cui fanno seguito accenni di Bourrée e Passepied. Si sanno ricostruire esattamente le danze settecentesche perché alla fine del Seicento, per la prima volta, fu inventata un’annotazione grafico-simbolica da Pierre Beauchamp[3], una tecnica che però nel 1700 gli fu rubata da Raoul-Auger Feuillet[4] e da lui pubblicata attribuendosene il merito. Per ristabilire una giustizia storica, ora la tecnica si chiama di Beauchamp-Feuillet.
[1] In qualche modo, sembra una “lezione” danzata come la conferenza cui il pubblico ha assistito in precedenza tenuta dal prof. Pontremoli sulle danze dal XIV al XVIII secolo.
[2] Editore e compositore musicale inglese del Seicento.
[3]Danzatore, coreografo e musicista francese, dal 1680 direttore dell’Académie royale de danse.
[4]Anche lui maestro di danza dell’Académie royale.