Ancora su «Il ministero per il futuro»
Giuliano Spagnul sul romanzo di Kim Stanley Robinson (*)
«In questo grande delirio che chiamano umilmente geoingegneria, è la Terra intera che intendono abbracciare. Per guarire dagli incubi del passato, propongono di aumentare ulteriormente la dose di megalomania necessaria alla sopravvivenza in questa clinica per pazienti dai nervi fragili che è divenuto il mondo» (1). Sarebbe probabilmente ingiusto e superficiale arruolare Kim Stanley Robinson, dopo aver letto «Il ministero per il futuro» (2) nella lista degli affetti dal grande delirio geoingegneristico così salacemente descritto da Bruno Latour. Quello che modestamente KSR vuole dire ai suoi lettori di sinistra che considerano come un tabù qualunque soluzione geoingegneristica è: «lasciate perdere. Siamo in una situazione in cui ci giochiamo il tutto per tutto, dove ogni singola opzione possibile che sia mai stata suggerita per scampare un estinzione di massa dev’essere messa sul piatto»(3). E come si potrebbe dar torto a una siffatta posizione, piena di buon senso e umiltà. Ma proseguendo ancora con Latour potremmo controbattere che: «se è necessario scuotere (…) i clima-scettici, per svegliarli dal sonno in cui sono piombati, per questi altri ci vorrebbe una camicia di forza per impedire che facciano troppe sciocchezze». E di sciocchezze purtroppo in questo romanzo – che potrebbe avere come sottotitolo “Quando Marte cadde sulla Terra” in continuità con il suo più famoso e riuscitissimo ciclo (4) – ce ne sono molte. E anche molto insidiose. Fra questa certamente l’idea di una geoingegneria come proposta che si vorrebbe dettata da umiltà, appunto. Tentare tutte le vie male non fa. Come se ogni via scelta non comportasse dispendio di energie, tempi, speranze da non deludere e tutte le altre possibili conseguenze non prevedibili a priori.
Certo, ci avvisa l’autore, tutto ciò che facciamo comporta necessariamente rischi, e soprattutto quello di soggiacere a quella «relazione immaginaria con una situazione reale» che va sotto il nome di ideologia. «Visione del mondo, filosofia, religione… sono tutti sinonimi per la definizione menzionata di ideologia». Come può non esserlo anche la scienza. Ma per nostra fortuna, grazie alla nostra civiltà illuminata, essa – pur se sempre un’ideologia- «è quella diversa, speciale, a causa dei suoi continui controlli incrociati con test di ogni tipo nei confronti della realtà e della continua messa a fuoco dei suoi obiettivi». Ed è ovvio che qui – come del resto si evince nello sviluppo della trama del romanzo – i controlli continui e incrociati sono quelli di sempre, cioè messi al riparo dalle influenze estranee al mondo proclamatosi scientifico, garante della verità. Si sa, come la rivoluzione non può essere un pranzo di gala tanto meno la scienza può essere democratica. La scienza quindi come «centro di un progetto molto interessante: inventare, migliorare e implementare un’ideologia che spieghi, in modo coerente e utile, una parte quanto più grande possibile del vortice ribollente del mondo. Un’ideologia simile dovrebbe possedere chiarezza, ampiezza interpretativa e forza». E a supporto di questa, infine, una nuova religione «una specie di religione della Terra, tutti una famiglia, fratellanza universale» anzi, ancora meglio «una sorellanza universale» per una «religione della madre Terra».
Per rimediare a tutto ciò che nella nostra storia di specie abbiamo fatto, ora è venuto il momento di «accettare le responsabilità che derivano dall’essere custodi di questa terra» e cantare tutti insieme le lodi a “mamma Gaia”.
Cosa possa aver spinto l’autore delle avventure marziane (e non solo) e “vecchio cultore” di P. K. Dick a questa deriva in cui si mescola il peggio dei luoghi comuni, fra cui un’esaltazione di una Svizzera ben poco realistica, riesce difficile immaginarlo. Forse l’idea che per quanto brutti o drammatici siano i tempi che stiamo vivendo (al contrario dei tempi del «maggio del Sessantotto o delle più vaghe impressioni della Comune di Parigi o del 1848, per non parlare del 1793 che, ormai si doveva ammettere, sembra una visione della storia antica») sono “tempi moderni”.
Manca, in questo datario, il 1918, forse non a caso, forse perché il più affine a una rivoluzione con la testa sulle spalle, senza ghigliottine né assurdi voli pindarici di immaginazioni al potere. Quella che si sogna qui, nei corridoi degli uffici di questo nuovo Ministero per il Futuro è pur sempre una presa del “palazzo d’Inverno” solo che a differenza di quella non nasconde il fatto di essere fatta della stessa carne del nemico che si vorrebbe abbattere. Sembra proprio la stessa ideologia di egocentrica potenza, quella che di fronte alle debolezze di chi pensa che l’essere umano non è destinato a conoscere tutto, risponde: “un cazzo! Siamo destinati a conoscere tutto ciò che riusciamo a scoprire. Quindi, lascia perdere tutte queste obiezioni da rammollito.”
Nota 1: Bruno Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, 2020.
Nota 2: Kim Stanley Robinson, Il ministero per il futuro, Fanucci, 2020.
Nota 3: Intervista a K. S. Robinson https://jacobin.com/2020/10/kim-stanley-robinson-ministry-future-science-fiction
(*) di questo romanzo in “bottega” ha parlato db (in una specie di trittico o forse tricheco schizofrenico) e – come capite dal titolo – con una valutazione molto differente: Assolutamente da leggere: «Il ministero del futuro» … Ah, cogliamo l’occasione per smentire che i due (Daniele e Giuliano) si siano sfidati a un duello: in effetti l’idea di db, sempre con il sangue calduccio, era quella ma poi il suo ortopedico glielo ha sconsigliato e allora la cosa è rimandata a tempi e/o schiene migliori. Per estrema correttezza, dobbiamo invece confermare che il suddetto db, nella sua consueta agitazione permanente, ha urlato: «ma che caaaaaaaaazzo ha letto Spagnul? 1918? e comunque Palazzo d’inverno di suo bisnonno» (le frasi successive restano per ora coperte dal segreto istruttorio).
Mai pestar la coda al buon vecchio Daniele, se ti sfugge un errore si guarda bene dal correggertelo, ti inchioda lì a imperitura vergogna. Comunque un lapsus interessante, ancora immerso nel 1978 dei Wu Ming ho associato quell’anno di sconfitta con quell’anno simbolo primo di tutte le rivoluzioni novecentesche. Chissà forse sarebbe andata meglio se la partita tra Lenin e Bogdanov l’avesse vinta quest’ultimo. Non avremmo avuto il 1917 ma forse altre strade sarebbero state percorribili…