Holocausto gitano – La persecuzione infinita
Melissa Cicchetti intervista María Sierra (ripreso da comune-info)
Come sempre, anche quest’anno non ne ha parlato quasi nessuno. Dire che si tratta di un silenzio fragoroso sarebbe un ossimoro segnato da pura retorica: non c’è alcun fragore. Il 16 maggio scorso, tuttavia, la gente romaní non ha certo dimenticato di ricordare quella notte del 1944, quando 6mila donne, uomini, bambini e anziani del campo di Auschwitz II Bikernau, lo “Zigeunelager”, seppero che si sarebbe posto fine alle loro inaudite sofferenze nelle camere a gas. Raccolsero quel che capitava, insorsero contro le SS ed evitarono il genocidio. Una rivolta epocale. La vendetta nazista, più spietata che mai, si compì il 2 agosto successivo, il culmine del Porrajmos, il grande divoramento. Una giornata internazionale, si sa, ormai non si nega a niente e nessuno, ma probabilmente la gran parte dei media che contano avrà trovato più attraente e interessante dedicarsi al giorno successivo: il 17 maggio è la giornata mondiale delle torte. A noi di Comune di quelle scelte editoriali e politiche fregherebbe ben poco, se non fosse che – come ricorda in questa gran bella intervista María Sierra, che ha appena pubblicato in Spagna “Holocausto gitano. El genocidio romaní bajo el nazismo”- il processo di sterminio della popolazione romaní europea aveva costruito le condizioni per verificarsi ben prima della II Guerra Mondiale ed esiste una linea di continuità molto forte tra gli stereotipi culturali antizigani che hanno preceduto quello sterminio a lungo negato e quelli attuali. L’autorevole docente di Storia Contemporanea all’Università di Siviglia dice a Melissa Cicchetti che l’Olocausto non si ripeterà come tale, naturalmente, ma il rischio di cadere in un abisso di antiziganismo assassino quanto quello hitleriano esiste, eccome. Le affermazioni sui Rom di parecchi esponenti di nuovi e meno nuovi governi europei, a cominciare da quello italico, lo confermano in modo eclatante. “Sei nomade? Devi nomadare, poi trànsumi e vai”, dice in questo video esemplare con il consueto aplomb Giorgia Meloni. È impossibile leggere i documenti sulla persecuzione nazista dei gitani senza rabbrividire, ma il libro di María Sierra ha, tra gli altri, un altro enorme merito, quello di portare alla luce testimonianze dirette in cui emerge il protagonismo di sopravvissute che raccontano cosa hanno subito, in quanto donne e in quanto gitane, ma anche che sono state loro proprio loro a fare il primo passo per raccontare cos’era successo. La loro dignità, soprattutto emotiva, quella che nei campi di concentramento uomini nazisti si erano tanto sforzati di annichilire, vince così proprio affermando il diritto alla memoria e ad avere emozioni. C’è da svolgere ancora un compito contro-narrativo molto lungo, loro, le donne gitane, hanno dimostrato di saperselo assumere come ben pochi hanno saputo fare nella storia
Specialista in storia culturale della politica, María Sierra insegna Storia Contemporanea all’Università di Siviglia. Negli ultimi anni si è dedicata allo studio del popolo romaní, in Spagna e in Europa, scrivendo alcuni dei più brillanti contributi a questa linea di ricerca. L’anno passato ha ricevuto il premio per il miglior articolo scientifico sulla condizione della popolazione gitana nell’Europa post-nazista (disponibile in inglese qui). Ci riceve nella sua stanza della Facoltà, piena di foto di cigarreras sivigliane, le lavoratrici della fabbrica di sigari, che raccontano la storia dell’edificio, dove parliamo del suo ultimo libro: “Holocausto gitano. El genocidio romaní bajo el nazismo”.
Cos’è l’Holocausto gitano di cui si parla così poco? E perché hai scelto di definirlo in questo modo?
È un processo di sterminio della popolazione romaní europea avvenuto prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, sotto il regime nazista. Ha avuto luogo contemporaneamente a quello degli Ebrei, di cui invece sappiamo molto, essendo esso entrato nell’immaginario delle nostre società attraverso molta letteratura e tanti film. Della morte di almeno mezzo milione di Gitani europei, invece, si è soliti saper pochissimo.
Ho scelto questi termini, “olocausto” e “gitano” (1), proprio per collegarlo all’olocausto ebraico. Ho utilizzato la parola “olocausto” perché è una definizione scientificamente e socialmente riconosciuta, che spiega molto bene un processo di persecuzione e sterminio così sistematico e brutale come quello compiuto contro il popolo gitano sotto il regime nazista.
Campo nazista di Belzec, Polonia, 1940
Il termine “gitano” forse richiede più spiegazioni. In lingua castigliana è corretto usarlo, in quanto non è considerato offensivo per le popolazioni che chiamiamo in questo modo. Va sottolineato, infatti, che la stessa comunità gitana spagnola ha espresso positivamente la propria identità attorno a questo termine, cosa che generalmente non accade in altre lingue, come spiego nel mio libro. Se avessi scritto in inglese, ad esempio – è in corso di pubblicazione una traduzione proprio in inglese e sto affrontando questa sfida – avrei dovuto scegliere sistematicamente altri termini, Romaní, per parlare in generale della popolazione gitana in Europa, oppure Sinti se ci riferiamo a quella gitana in Germania.
Insomma, bisogna essere molto attenti e rispettosi, perché questa attenzione ci aiuta a renderci conto e capire quanto interiorizzati possano stati essere da noi alcuni nomi dispregiativi per le persone a cui sono stati storicamente assegnati.
Nella prima parte del libro, tracci la storia dell’antiziganismo che culmina nella persecuzione nazista. Quali elementi evidenzieresti dalla storia dell’antiziganismo prima dell’Olocausto?
Per me è molto importante sottolineare che esiste una tradizione di antiziganismo. Non possiamo limitare il discorso alla storia occidentale moderna e contemporanea; al contrario, dobbiamo inserirlo in una lunga tradizione di antiziganismo e così comprendere quanto fosse già preparata la persecuzione della popolazione gitana quando arrivò il regime nazista.
Ritengo inoltre fondamentale la consapevolezza di quante di queste tradizioni siano ancora vive e di quanti episodi di persecuzione continuino ancora oggi. Questa è la cosa più importante per me, perché in questo unisco la preoccupazione di storica con quella civica di cittadina. L’Olocausto non si ripeterà come tale, ma il rischio di cadere in un abisso di antiziganismo assassino quanto lo fu quello della Seconda Guerra Mondiale esiste.
Per questo, nella prima parte del libro, traccio la storia dell’antiziganismo molto brevemente, ma in vari registri. Da un lato, quello giuridico e istituzionale, descrivo l’affermazione di un quadro legislativo che, fin dall’inizio, è andato costruendo i Gitani come la parte della popolazione su cui caricare tutti i problemi della società insediata. Dall’altro, parlo dell’antiziganismo culturale che è più intriso nella mentalità della società maggioritaria sotto forma di stereotipi. Esiste una linea di continuità molto forte tra gli stereotipi culturali antizigani che hanno preceduto l’Olocausto e quelli attuali.
In questa parte del libro mi interessa evidenziare la complessità di questi stereotipi, che è ciò che li rende convincenti. La società maggioritaria naturalizza molto gli stereotipi antizigani, inserendovi sia elementi negativi sia l’idealizzazione della figura del Gitano e, in particolare, della Gitana. Sono stereotipi complessi, che fanno coesistere l’idealizzazione etnica con la stigmatizzazione razziale. Essendo molto convincenti per noi a causa della loro complessità, questi stereotipi rimangono molto ancorati nella nostra mente. Non dobbiamo far altro che rivedere come sono visti i Gitani dalla società maggioritaria ancora oggi per renderci conto che questi stessi stereotipi continuano ad operare. Per non parlare, poi, di film e cartoni animati: la Esmeralda del Gobbo di Notre Dame ne è un buon esempio.
Nella seconda parte del libro il focus è sui ricordi di sei sopravvissuti all’Olocausto. Perché hai deciso di concentrarti sulle emozioni usando quello che definisci un approccio storico emozionale?
La seconda parte per me è stata la parte più positiva del processo di scrittura del libro, perché la prima parte si è rivelata un’immersione molto dolorosa in un inferno di maltrattamenti che raggiunge livelli inimmaginabili. Non si possono leggere la bibliografia e i documenti sulla persecuzione nazista del popolo gitano senza rabbrividire.
Tuttavia, nelle memorie, nonostante una narrazione in prima persona di una sofferenza così profonda, è possibile apprezzare anche un’agire vivace, una capacità di agire in positivo. Diventa ancora più evidente una volta terminato il processo persecutorio, quando le persone sopravvissute riescono a dotarsi degli strumenti per parlare in pubblico di quanto accaduto, per rivendicare il diritto al riconoscimento della propria sofferenza e ad avere un posto nella storia del proprio Paese.
Questo processo di contestualizzazione storica non è un modo per rimuovere autorevolezza alla voce stessa dell’autrice o dell’autore, ma viceversa, di collocarla nel suo contesto storico in modo che non sia discutibile. La memoria, sia quella romaní che quella ebraica, viene spesso accusata di essere soggettiva, selettiva e imperfetta. Ed è vero. Però, per me, quella è anche la sua ricchezza. Perché se si critica, si contestualizza e si studia con gli strumenti propri della disciplina storica, si può riconoscere che le memorie parlano non solo di ciò che accadde al tempo dell’Olocausto, ma anche di tutto ciò che è accaduto dopo.
Sono memorie passate al setaccio di una sofferenza che, nel caso del popolo gitano, si sono prolungate per 40 anni in una Germania e in un’Europa che hanno riconosciuto l’Olocausto gitano solo molto più tardi. Per me tutto questo è una sorta di scatola nera della memoria che trovo molto interessante da analizzare.
Ho scelto l’approccio della storia delle emozioni, perché avevo già praticato questa prospettiva in altri lavori precedenti. Contrariamente a quanto la definizione usata potrebbe far pensare, la storia delle emozioni non afferma che le emozioni siano qualcosa di naturale, istintivo: la paura viene fuori se sei in una situazione di paura, l’amore viene fuori se sei di fronte a uno stimolo amoroso. Al contrario, ciò che la storia delle emozioni afferma è che emozioni e sentimenti sono storicamente modulati.
Vale a dire che in ogni momento, in ogni epoca, in ogni società, tutte e tutti noi abbiamo imparato a esprimere le nostre emozioni in modo diverso, e perfino a sentire in modo diverso. Le emozioni, del resto, sono anche uno strumento cognitivo, uno strumento per gestire noi stessi nel mondo che ci circonda. Pertanto, ho trovato molto interessante analizzare le memorie dei Gitani sopravvissuti all’Olocausto da questa prospettiva, perché essa ci permette anche di approfondire i ruoli di genere all’interno della memoria.
Le donne gitane sono state le pioniere della memoria romaní dell’Olocausto. Perché sono state proprio loro a fare il primo passo per raccontare cosa era successo? E che ruolo hanno, in generale, le donne nei tuoi lavori?
Penso a Philomena Franz, la prima sopravvissuta all’olocausto gitano che ha pubblicato le sue memorie con il titolo “Tra l’amore e l’odio. Una vita gitana”. Lei, così come altre sopravvissute (tra cui Ceija Stojka e Lily Van Angeren), è riuscita a trasformare le proprie emozioni in qualcosa che le forniva strumenti utili per esprimersi, per rivendicare dignità. Quella dignità che i campi di concentramento e di dominio si erano tanto sforzati di rubarle, soprattutto la dignità emotiva, il diritto ad avere emozioni, soprattutto quelle positive. Nei campi l’affetto era una debolezza. Dunque, per me, questa è una rivendicazione tanto politica quanto può esserlo affermare di avere il diritto di essere presenti nella storia del proprio Paese. Dire, una volta fuori dai campi di concentramento, che si ha il diritto di provare emozioni, anche positive, in funzione delle quali organizzare un proprio racconto di quanto è avvenuto è insieme coraggioso e degno quanto politico.
Queste donne sono consapevoli di rompere tabù come donne gitane, vale a dire in quanto donne e in quanto gitane. Non bisogna dimenticare che è una costruzione diversa essere gitano o gitana.
Da Philomena Franz, che nelle sue memorie parla da donna sinti, cioè da gitana tedesca, fino ad altre donne gitane che, nel parlare delle violenze anche sessuali esercitate su di loro, tutte sanno di star rompendo dei tabù sessuali. In ogni occasione, queste donne sopravvissute dicono di parlare a proprio nome e per se stesse nella speranza che il loro sforzo serva per tutti. In nessun momento si attribuiscono la voce dell’intera comunità, perché rispettano molto le altre donne, soprattutto le più anziane, che non hanno voluto rompere il velo del silenzio che è stato imposto in seguito. Per me questo è un esercizio molto coraggioso di femminismo, se così vogliamo chiamarlo, che si trova all’intersezione di una doppia persecuzione. La questione dell’essere donna e quella di essere parte di un gruppo stigmatizzato da un punto di vista razzista.
Nel tuo libro parli molto del brodo di coltura che ha aperto la via alle politiche naziste e che ha giustificato il fatto che molte persone rimanessero in silenzio guardando da un’altra parte di fronte a tante persecuzioni e violenze. Pensi che l’incitamento all’odio di oggi stia creando un nuovo pericoloso terreno fertile? E quali pensi siano le chiavi affinché il passato non si ripeta? Detto in altre parole, come possiamo riuscire a creare una preoccupazione pubblica ampia per questo rischio?
È una domanda interessante e molto importante, proprio come chiusura della nostra conversazione, perché il fatto che ci sia una possibile connessione tra passato e presente riprende quanto si diceva nella prima domanda. Trovo particolarmente inquietante che alcune tradizioni dell’immaginario, profondamente intrise nella cultura occidentale fatta di stereotipi che non siamo stati in grado di smantellare né di decostruire, siano ancora vive e possano essere il fondamento per giustificare azioni contro qualsiasi tipo di gruppo collettivo umano. Alcuni di questi stereotipi, infatti, oggi, senza cessare di essere applicati al popolo gitano, vengono trasferiti e applicati a nuove minoranze vulnerabili, come le persone migranti di diverso tipo. Quindi è ovvio che c’è una connessione tra l’incitamento all’odio del passato e qiello del presente. Sì, c’è un pericolo reale, soprattutto perché quei discorsi oggi hanno piattaforme su cui vengono diffusi e una possibilità di estensione in molteplici reti sociali che non c’erano nel passato.
Cosa possiamo fare? C’è molto da fare, ognuna e ognuno nel suo ambito. Io, ad esempio, sono uscita anche dai binari classici della mia professione per provare a fare qualche cosa in più. Credo sia necessario uscire dall’ambito accademico e che la battaglia vada condotta negli spazi della divulgazione, del trasferimento del sapere dalla ricerca scientifica alla strada, a ciò che la società gestisce come conoscenza comune. Abbiamo girato un documentario basato sulle interviste a Philomena Franz, intitolato “Mi Holocausto”, proprio per mettere in prima persona la sofferenza causata dagli stereotipi. È disponibile liberamente per tutti a questo link .
Credo sia del tutto possibile collegare la ricerca universitaria con l’inquietudine sociale. Quello che dobbiamo fare è cercare format che siano interessanti e accessibili a un vasto pubblico. Con il libro Holocausto Gitano sono rimasta piacevolmente sorpresa dal fatto che sia riuscito a uscire dall’Accademia, dagli studenti, dall’università e che viene letto da persone con preoccupazioni simili. Ad ogni modo, voglio lasciar da parte il mio lavoro personale, che è solo una piccola goccia in tutto ciò che possiamo fare, per non sembrare poi così ottimista.
Penso che ci sia ancora moltissimo da fare e le associazioni romaní, sono le principali attiviste. Ci sono giornate della memoria, ci sono musei o spazi museali che fanno interventi su questi temi. C’è già il cinema, che è molto importante, ci sono i cineasti gitani e poi la letteratura. Sono tutti modi per entrare nel senso sociale, nel senso comune della società. Senso comune è un’espressione che utilizziamo dall’antropologia e dalla storia per parlare di ciò che una società ha assunto come naturale. Il senso comune è ciò che consideriamo vero senza doverci chiedere nulla ed è lì si infiltra lo stereotipo anti-gitano. C’è da svolgere un compito contro-narrativo molto lungo che arrivi a quegli spazi potenti nella creazione del senso comune sociale. E penso che sia nella letteratura, nel cinema, nella divulgazione in generale, nei luoghi della memoria e nei musei che bisogna entrare.
L’intervista di Melissa è uscita in precedenza anche sul quotidiano El Salto in lingua castigliana e si può leggere qui
La traduzione per Comune-info è di marco calabria
Nota terminologica tratta da wikipedia
(1) Rom sta ad indicare un determinato popolo romaní, ed è il termine con il quale molti non-romaní oggi usano indicare (in maniera inesatta) tutti i gruppi romaní. I documenti del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea utilizzano il termine plurale Roma come termine generico per indicare tutti i popoli romanì nel loro insieme.
Spesso, per indicare i popoli romaní, vengono usati anche altri termini: ad esempio, in italiano “zingari” (o “zingani” o “zigani”) e “gitani”; in inglese gypsies e travellers (“viandanti”); in francese gens du voyage (“viaggiatori”), tsiganes, gitans e manouches; in spagnolo e in catalano gitanos; in tedesco Zigeuner; in ungherese cigány; in polacco cyganie, ecc. Tali termini, usati per indicare le popolazioni romaní da parte di chi non ne fa parte (esonimi), sono percepiti da gran parte delle persone romaní come dispregiativi e offensivi,[2] oltre che negativamente connotati nella gran parte delle lingue.
Secondo diversi studiosi, il termine corretto da utilizzare sarebbe quello proprio dell’etnia o, più in generale, la locuzione popolazione romaní, sostituendo quindi i termini zingaro/zingari, laddove usati come aggettivi, con i corrispondenti aggettivi romanó/romaní.[2][3] In Italia, tuttavia, in documenti di emanazione ministeriale come ad esempio gli studi del Ministero dell’Interno,[4] si continua a utilizzare il termine “zingari” per indicare l’insieme delle etnie e l’aggettivo “romaní” viene utilizzato solo in relazione alla lingua propria dei rom e sinti.
Sulla parola zingaro, zingano o zigano esistono diverse ipotesi etimologiche. La parola è chiaramente imparentata con il francese tsigane, il portoghese cigano, il rumeno țigan, l’ungherese cigány e il tedesco Zigeuner. Fino all’inizio del XX secolo molti studiosi collegavano “zingaro” ad Athingan, una popolazione mista sira, etiope e nubiana, che si sarebbe stabilita in Tracia in seguito alle vittorie dell’imperatore Costantino V, e che sarebbe stata poi dispersa dalle invasioni turche (è l’opinione fra gli altri di Ottorino Pianigiani, autore del Dizionario etimologico italiano del 1907).[5] Attualmente, gli studiosi fanno risalire la parola dal greco medievale (Α)τσίγγανοι (A)tsínganoi (greco moderno Τσιγγάνοι, Tsingáni), tribù dell’Anatolia.[6][7] Non è escluso che l’etimo originario sia indo-ario, atzigan.[8] La stessa parola greca Ατσίγγανος viene collegata da alcuni studiosi[9] ad Αθίγγανοι Athínganoi, “intoccabili”, nome di gruppi eretici stanziati nelle regioni anatoliche di Frigia e Licaonia, che imponevano di non toccare le persone considerate impure. Il significato “intoccabili” però ha fatto pensare anche alla quinta casta indiana, i paria, considerati appunto impuri ed intoccabili. Questo ha indotto molti a immaginare che la connotazione della parola sia sempre stata negativa.
Altri ancora ritengono invece che la connotazione del significato fosse positiva, portando a sostegno di ciò un documento del 1387 di Nauplia, in Grecia, dove i veneziani confermarono i privilegi agli zingari concessi a loro dai bizantini.[10] Privilegi che ritroviamo per questi popoli in diversi documenti per un centinaio di anni in diversi luoghi dell’Europa, come quella, per esempio, del 1423:
«Noi Sigismundo, per grazia di Dio sempre Augusto Re dei Romani, Re d’Ungheria, di Boemia, di Dalmazia, di Croazia… Per la quale cosa dovunque il detto Ladislao Voivoda e la sua gente giungano nei nostri domini, città e castella, con la presente lettera comandiamo e ordiniamo alle nostre fedeltà che il medesimo L.V. e gli zingari i suoi sudditi, tolto ogni impedimento e difficoltà debbano essere favoriti e protetti e difesi da ogni attacco e offesa. Se poi tra loro stessi sarà sorta qualche zizzania o contesa, allora né voi, né nessun altro di voi, ma lo stesso Ladislao Voivoda, abbia facoltà di giudicare e liberare.» |
(da Jean-Paul Clébert, Les Tziganes) |
Intorno al XVI secolo il termine avrebbe assunto la connotazione – negativa – che troviamo ancora oggi.
La parola gitano, come l’inglese gypsy e il francese gitan deriva dallo spagnolo gitano a sua volta derivato dal latino *aegypt(i)anus, “egiziano” (aggettivo derivato da Aegyptus, “Egitto“). Questo appellativo è sicuramente collegato alla leggenda di una provenienza dei Romaní dall’Antico Egitto: secondo il mito, i Romaní sarebbero discendenti da Ismaele, figlio che Abramo ebbe dalla sua schiava Agar[senza fonte]
Piero Colacicchi[11] sostiene che “nomade“, riferito ai Rom, è un termine ottocentesco, usato non tanto per indicare lo stile di vita di questi quanto piuttosto con intento discriminatorio verso coloro che ritenevano “uomini inferiori” poiché “pigri, vagabondi, caratterialmente instabili”, in contrapposizione a quello dell’uomo eletto, amante della patria, posato e seguace della morale. Il termine è peraltro in contraddizione con le effettive condizioni sociali della popolazione romaní, che almeno in Italia è in gran prevalenza stanziale.
Grazie per questa profonda necessaria intervista.