Scor-data: 6 maggio 1915
Il bambino-mago che ingannò i mondi
di Fabio Troncarelli (*)
Oggi è l’anniversario della nascita di Orson Welles (6 maggio 1915). Su di lui hanno scritto tutto e il contrario di tutto. Quasi sempre cose sbagliate. Perché? Ma perché quando si parla di Welles è impossibile resistere alla marea di bugie, mistificazioni e fuochi d’artificio che accompagnano la sua esistenza come una lugubre fantasmagoria. Senza dubbio Welles ha contribuito ad abbacinare tutti coloro che lo avvicinavano, trascinandoli in questo entusiasmante delirio e proclamando che la vita è trucco, menzogna, inganno; il gioco di prestigio di un mago che abbindola un pubblico di creduloni.
E’ però altrettanto vero che calarsi allegramente nella parte del pubblico sprovveduto e infantile è un modo per chiudere gli occhi di fronte alla tragedia di chi sta recitando la parte del mago: una forma di spensierato sadismo, lo stesso di chi non vede l’ora che il pagliaccio prenda la torta in faccia. Come ci fa comodo credere che Welles fosse un mago sornione e geniale! Come ci fa comodo voltarci dall’altra parte quando nei suoi occhi passa un lampo di smarrimento e di tristezza… Qualcuno però lo ha notato. E ha detto l’unica cosa sensata. Come ad esempio Robert Carringer che ha scritto: «L’infanzia di Welles è stata letteralmente sommersa dall’alluvione emotiva dei suoi traumi infantili»1. E’ proprio vero. In quanto a traumi c’è l’imbarazzo della scelta. Nato in una famiglia ricca, da genitori colti, intelligenti, estrosi e spregiudicati, Welles vide crollare rapidamente il suo mondo affettivo e le sue sicurezze: i genitori si divisero dopo continue liti quando egli aveva quattro anni. La madre, Beatrice Ives, un’eccellente pianista, portò il figlio con sé a Chicago e iniziò una relazione con Maurice Bernstein, il dottore di famiglia, che divenne un patrigno dispotico per il piccolo Orson. Cinque anni dopo, nel 1924, la donna morì di epatite e il bambino, che mostrava doti eccezionali, fu preso in casa dagli Watson, una famiglia di amici della madre. Affettivamente parlando, Orson fu sballottato fra le pretese di Bernstein e quelle del padre, Richard, un inventore eccentrico, completamente alcolizzato. Trovò pace solo quando andò in un college sufficientemente lontano da tutti, la prestigiosa Todd School nel Nord del Wisconsin. Quando aveva 15 anni e aveva appena preso la licenza di primo ciclo, fu colpito di nuovo dalla sorte: il padre morì, povero e solo, in un alberghetto di Chicago e Benrstein divenne suo tutore, amministrando gli spiccioli che restavano della sua eredità con spietata oculatezza. Tornato alla scuola, il ragazzo studiò con passione fino al diploma liceale, che coincise con la sospirata maggior età. Si liberò così del tutore e poté disporre finalmente della magra eredità paterna. Forte di questo piccolo capitale (un patrimonio piuttosto precario che somiglia molto a quello del marchese di Carabàs nel Gatto con gli stivali)e dell’esperienza acquisita, Welles cominciò la sua Bohème nel 1931, viaggiando in Irlanda, dove visse di espedienti, girando da una parte all’altra con un asinello e un carrettino. Nella Todd School aveva già dato prova del suo talento dipingendo le scenografie delle commedie recitate dai suoi compagni e mostrando doti spiccate per la recitazione: tutto questo gli servì in Irlanda, dove sbarcò il lunario dipingendo e recitando con molto successo nel celebre Abbey Theatre di Dublino. I traumi della sua infanzia furono dimenticati in un attimo: il bambino prodigio vittima di una famiglia rovinosa si era trasformato ormai in un giovane brillante, capace di incantare il pubblico che frequenta i teatri e le gallerie d’arte.
Tornato in patria, Welles si dedicò professionalmente alle arti grafiche, illustrando con centinaia di disegni un’edizione divulgativa di Shakespeare curata dalla Todd School che ebbe un immenso successo editoriale. Nel 1933, grazie all’amicizia del celebre drammaturgo Thornton Wilder, sbarcò a Broadway, dove acquisì presto fama e notorietà e dove lavorò al celebre Federal Theatre di John Houseman, allestendo spettacoli straordinari come il «Voodoo Macbeth», una rivisitazione della tragedia di Shakespeare recitata solo da attori di colore. Nel 1934 si sposò con un’attrice di Chicago Virginia Nicholson, pur essendo innamorato della celebre attrice Dolores del Rio ed esordì alla radio, partecipando a una serie di spettacoli di grande successo che presto fu in grado di ideare e dirigere personalmente, raggiungendo l’apice della celebrità nell’ottobre del 1938 con un adattamento della «Guerra dei mondi» di Herbert G. Wells, sotto forma di radiocronaca in diretta, che fece letteralmente impazzire l’America. Centinaia di persone furono infatti ingannate dalla finta radiocronaca dell’invasione dei marziani e fuggirono in preda al terrore, provocando ogni sorta di incidenti.
Fermiamoci qui. Alla prima grande manifestazione di quel diabolico equivoco di cui parlavamo all’inizio. Welles ha 23 anni. Ha un successo incredibile. Il suo matrimonio sta andando in pezzi, ma la sua storia d’amore con Dolore del Rio sta per decollare. La sua vita non corrisponde alla sua età anagrafica. Eppure quello che conta è solo la sua immagine: un grande mago capace di incantare tutti. Dietro a questa magia c’è un dramma: un trauma cumulativo che ha agito in silenzio, indisturbato, disgregando la personalità infantile del bambino prodigio e scaraventandolo sul palcoscenico della vita alla ricerca spasmodica di un surrogato. Il bambino, che si è sentito annientato, non accetta di essere niente e nessuno, per cercare di essere qualcuno soggiogando il pubblico, intimidendolo, costringendolo ad ammirarlo, ad adorarlo, come un idolo pauroso, misterioso. Ma dietro questa tetra ebbrezza, dietro questo stordimento che somiglia al trionfo e dietro questo trionfo che somiglia allo stordimento, c’è un vuoto popolato da incubi. Come ha fatto giustamente osservare Robert Carringer2 Welles non parlò mai, per tutta la vita, di sua madre, neppure con gli amici più cari. Un silenzio quanto mai eloquente per un uomo che non ha mai perso un’occasione per parlare di sé ed esibirsi. Ma ancor più significativo è il fatto che una sola volta, all’improvviso, abbia rotto questo silenzio per narrare un aneddoto angoscioso. Nel 1985, il regista scrisse una breve testimonianza per la rivista «Vogue», in cui spiegava come mai avesse smesso di suonare il violino3. Da bambino, il piccolo Orson accompagnava la madre al piano, suonando meravigliosamente il violino. Welles lo rievoca con nostalgia, ma poi aggiunge che tutto questo cessò con la morte della donna. Il racconto poteva finire qui, ma inaspettatamente Welles continua. A nove anni, il giorno del suo compleanno, fu chiamato dalla madre: la donna stava morendo, in una stanza buia, ma volle regalargli una torta con nove candeline accese. Gli recitò un brano di «Sogno di una notte di mezz’estate» che gli leggeva da piccolo. Lo chiamò Georgie-Porgie, come facevano scherzando i suoi compagni. E gli disse di spegnere le candeline e di esprimere un desiderio. Il bambino, smarrito, spense le candeline, ma non riuscì a pensare a un desiderio. La stanza divenne completamente buia e il volto della madre sparì. Sparì per sempre, dice Welles, ma non è vero, perché la donna morì il 10 maggio, pochi giorni dopo. Tuttavia il falso ricordo è rivelatore: la donna sparì quando le candeline si spensero, quando il bambino non riuscì a dire ciò che voleva dire, perché le parole gli morirono in gola. Il bambino non riuscì ad esprimere l’unico vero desiderio che lo torturava. Come ha scritto Welles: «Certe volte, nelle ore morte della notte, mi si staglia nella mente che fra tutti i miei errori il più grande è stato questo: quel compleanno, quando mia madre è morta, non ho saputo esprimere un desiderio».
Torniamo alla sua carriera folgorante, ai suoi capolavori che hanno cambiato la storia del cinema: «Citizen Kane», «The Magnificent Amberons», «The Lady of Shangai», «Touch of Evil». Opere su cui sono stati versati (e si continuerà) fiumi d’inchiostro perché questo è il destino dei capolavori. Ma, oltre a queste meraviglie, torniamo con la memoria alla degradazione fisica e artistica di Welles, che fugge da Hollywood senza riuscire a salvare «The Magnificent Ambersons» dalle forbici del produttore, che realizza altri capolavori, come «Othello», in condizioni impossibili, che gira migliaia di metri di pellicola di opere che non riesce a finire, che accetta di lavorare negli spot pubblicitari più stupidi, nei film commerciali più improbabili, negli spettacoli televisivi più dozzinali. Orson Welles che diviene grasso, sfatto, enorme, ributtante. Che si unisce alle dive più squinzie, alle star più folli, alle attricette più squallide, a maschere senz’anima, senza freno, senza pace, senza amore. Orson Welles che dice di non avere rimpianti, che guarda sempre avanti, girando «F for Fake» per ribadire implacabile che la vita è solo trucco, menzogna, illusione. Questa forza della natura, questo Falstaff ritornato dal regno delle ombre nella vita vera oltre che sullo schermo, continua a mascherare dietro la sua risata fragorosa di scherno, la sua paura, la sua disperazione. Lo scopriamo se sappiamo guardare i suoi film con occhi diversi da quelli del pubblico soggiogato dalla magia e dall’illusionismo. La fine di «Touch of Evil», la morte nell”acqua di fogna, in mezzo all’immondizia del disgustoso protagonista, recitato con tanta immedesimazione dall’attore-regista, è terribile e rivelatrice. Come il suo Quinlan, anche Welles sprofonda in un abisso buio, che lo inghiotte. Buio come la stanza buia della madre morente, di Isabel Ambersons, che muore lasciando il giovane, arrogante George in balia della sua disperazione.
Fermiamoci ancora una volta e una volta per tutte. Abbiamo raggiunto il punto più basso del dolore e della disperazione. Ma almeno una cosa resta da dire. E ce la suggerisce proprio la triste vicenda del giovane George Ambersons, l’erede di una famiglia splendida e ricca che finisce nella desolazione. La storia narrata da Booth Tarkington, un amico della famiglia Welles, somiglia a quella del regista e dei suoi sfortunati genitori. Ma il romanziere, a differenza del regista, ha avuto la forza di esprimere un sentimento angoscioso: il senso di colpa del giovane George, che con il suo infantile egoismo rovina la vita di tutti. Welles non ha avuto la stessa forza: ma era in preda alla stessa angoscia. Non a caso, mettendo in scena l’opera di Tarkington, ha evitato di impersonare il giovane protagonista e si è limitato a fare il regista, caso quasi unico nella sua carriera cinematografica. Stavolta non poteva farlo. Era troppo coinvolto in quello che rappresentava. Come il protagonista del film e del romanzo era divorato dallo stesso profondo senso di colpa, quello che gli ha fatto rimpiangere per tutta la vita di non aver desiderato che la madre vivesse. Lo stesso senso di colpa che lo ha trascinato dalle stelle alle stalle diretto verso un abisso di abiezione. Ci piacerebbe essere lì vicino a lui, mentre incanta il suo pubblico con i suoi giochi di prestigio, e sussurrargli con la voce di Puck nel «Sogno di una notte di mezz’estate», che è stato solo un sogno, che non è vero niente, che i bambini non sono colpevoli della morte dei genitori, che nessuno è colpevole del destino di un altro o forse lo siamo tutti, ma allora non importa più dire io sono colpevole. Ci piacerebbe cullarlo come un bambino impaurito e farlo addormentare, mentre ci stringe il dito ancora sporco della crema della torta o della cera delle candeline.
(*) Un piccolo omaggio all’ingannatore lo trovate qui (F come Falso) in blog. Non conoscevo questa parte della storia di George Orson Welles ma ora che, grazie a Fabio, l’ho appresa comincio a vedere alcuni passaggi della sua vita sotto una diversa luce: a esempio la sua insistenza (esiste anche la sceneggiatura, tradotta in italiano) nel tentare vanamente di portare in scena «Il piccolo principe».
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. Molte le firme (non abbastanza per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)
1R. L. Carringer, «The Magnificent Ambersons: a reconstruction», Berkeley University of California Press, 1993, p. 8
2Ibid., p. 10
3Orson Welles, A brief career as a musical prodigy, in “Vogue”, Dicembre 1982, pp. 186-187.
Molto interessante l’articolo. Anch’io non conoscevo la vicenda familiare di Welles.
La storia del compleanno spiega senz’altro alcuni aspetti della personalità del regista.
Per una sorprendente coincidenza sabato ho rivisto “L’infernale Quinlan”.
Dico rivisto perché l’avevo visto una volta da bambina, in tv; di sicuro si trattava della versione malamente rimaneggiata dai produttori, perché mi era sembrato un pasticciaccio senza né capo né coda.
Stavolta, invece, ho potuto apprezzare la versione integrale, e la genialità di Welles nel mettere in scena un’autentica contraddizione, un cattivo che non si assolve. Mi chiedo cosa ne penserebbe, il regista, della nostra società, che apprezza i serial killer e gli eroi negativi privi di sfumature.
Il film contiene anche la più bella dichiarazione d’amore che io abbia mai sentito.
Quinlan va a parlare con Tanya, la sua vecchia amante (una magnetica Marlene Dietrich).
Lei: sei ingrassato.
Lui: vorrei che fosse stata la tua cucina a farmi ingrassare.
La sceneggiatura, ovviamente, l’aveva scritta lo stesso Welles.
Clelia Farris