Il Moloch* a stelle e strisce

articoli e video di Clare Daly, Mick Wallace, Enrico Tomaselli, Matteo Saudino, Alessandro Orsini, Franco Astengo, bortocal, Nicolai Lilin, Fernando Moragón, Rossana De Simone, Fabrizio Verde, Alastair Crooke, Fulvio Scaglione, Giuliano Marrucci, Diego Ruzzarin, Domenico Gallo, Marinella Mondaini, Manuel Cherchi, Francesco Masala,Ursula von der Pfizer Leyen, Simone Spiga, Laura Ruggeri, Nicola Rangeloni, Matteo Bortolon, Domenico Quirico, Manlio Dinucci, Fabio Mini, Lorenzo Ramírez, Davide Malacaria, Serafino Massoni

Attrici e attori di merda – Francesco Masala                       

Si vede che Ursula von der Pfizer Leyen ha studiato recitazione nella stessa scuola di Zelensky, non all’Actors Studio, ma alla Chiagne e fotte Studio.

ascoltatela quando recita il testo che le ha scritto il regista:

abbiamo un sogno (come Martin Luther King)

l’Ucraina combatte per i nostri valori (la corruzione?)

la nostra libertà (di essere sottomessi per sempre agli Usa)

la nostra democrazia (quella per la quale Ursula von der Pfizer Leyen non è mai stata eletta)

l’Ucraina fa già parte della UE (carramba, che sorpresa!, la nostra democrazia).

non potremo sacrificarci così bene come i poveri (solo i poveri) ucraini

(quello che Ursula von der Pfizer Leyen non dice è che dei suoi sette figli, allevati da tante signore Rottenmeier, tre li mettererebbe in un Leopard e li manderebbe a combattere contro i russi, ma purtroppo non può mandarli, vorrebbe e non può, perchè non sono poveri, che sfiga!)

 

 

 

 

Gorizia, la maledetta, è oggi in Ucraina – bortocal

…facciamo pure conto che i dati comunicati dagli ucraini stessi siano veri, e non inficiati dalle esigenze della propaganda bellica: dichiarano che sono stati conquistati quattro villaggi, con tanto di bandiera giallo-azzurra che sventola sulle rovine, e sono stati recuperati circa 100 chilometri quadrati.

questo lo dicono gli ucraini, non la propaganda russa, quindi vediamo meglio.

. . .

100 km quadrati sono tanti o pochi?

il fronte di questa guerra è lungo circa 1.800 chilometri; quindi, distribuiti su tutto il fronte, significherebbe che gli ucraini sono avanzati su tutto il fronte di 60 centimetri, sei centimetri al giorno in dieci giorni.

naturalmente questa è soltanto una immagine per far capire le proporzioni.

tenendo conto che gli ucraini rivendicano anche di essere avanzati di ben 3 km in un punto specifico del fronte e supponendo che l’avanzata sia avvenuta almeno lungo 10 km, altrimenti credo che non varrebbe neppure la pena di parlarne, questo significherebbe che dei 100 km quadrati conquistati, 30 sono in quel punto e che negli altri 1.790 km di fronte l’avanzata è stata di 70 km quadrati, cioè di meno di 40 centimetri in una decina di giorni, meno di 4 centimetri al giorno.

. . .

ma mi fermo con questo tipo di calcolo e ne presento un altro:

l’Ucraina ha una superficie di circa 600mila km quadrati, il doppio dell’Italia; secondo gli ucraini la Russia occupa attualmente circa il 20% della superficie del loro stato, cioè 120mila km quadrati; calcoli di altra fonte riducono questa superficie a circa 100mila; 27mila, però, sono rappresentati dalla Crimea, occupata dai russi nel 2014, ma meglio si direbbe ripresa da loro, dopo la cessione del 1954 tra i due stati membri dell’URSS.

quindi nella guerra iniziata a febbraio dell’anno scorso la Russia avrebbe conquistato circa 70mila km quadrati.

in ogni caso, occupa attualmente circa un sesto dell’Ucraina.

per fare un paragone per noi più comprensibile, è come se la Russia – data per perdente e sconfitta dalla nostra propaganda – occupasse da noi al momento l’intera Italia settentrionale, Val Padana e monti e valli che la circondano.

e il paragone funziona anche dal punto di vista economico, visto che si tratta della regione più ricca e produttiva dell’Ucraina: cosa che spiega la determinazione del governo ucraino a volersela riprendere.

questa peraltro è abitata da popolazione che parla in prevalenza il russo e che ai referendum svoltisi, sia pure sotto il controllo russo e senza garanzie internazionali, ha confermato massicciamente di volere far parte della Russia, sottraendosi alle discriminazioni a cui era sottoposta.

quindi in una decina di giorni di attacchi frontali al fronte ampiamente fortificato in questi mesi dai russi, gli ucraini hanno riconquistato circa un millesimo del territorio che considerano perduto…

da qui

 

 

 

Usa & c. hanno sabotato il piano di pace del 2022 – Domenico Gallo

Nell’era della comunicazione in cui siamo interconnessi con tutto il mondo in tempo reale, ancora una volta viene fuori che le Cancellerie dei principali Paesi occidentali si sono mosse occultamente per sventare la pace, cioè per evitare che la sciagurata impresa bellica intrapresa dalla Russia, si potesse rapidamente concludere con un accordo di pace che ponesse le basi per la convivenza pacifica fra le due Nazioni.

Già il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava un piano di pace in 15 punti, fondato sulla conciliazione dei diversi interessi in campo, che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Si trattava di un’anticipazione giornalistica, che non venne confermata dalle parti in causa, però se ne potevano dedurre tracce dalle dichiarazioni di Zelensky e dei suoi più stretti consiglieri che all’epoca, in più occasioni, riconobbero che l’Ucraina poteva rinunziare all’ingresso nella Nato e accettare uno status di neutralità. All’epoca, gli osservatori più attenti come Jeffrey Sachs (sul Corriere della Sera del 1° maggio 2022) osservarono con sospetto che, a fronte di queste proposte di pace, l’Amministrazione Usa aveva mantenuto un silenzio di tomba. In realtà non solo l’America, ma anche la Gran Bretagna, i vertici dell’Unione europea e i governi dei principali Paesi europei hanno mantenuto lo stesso silenzio di tomba, in ciò aiutati dall’atteggiamento omertoso della stampa che non ha mai posto domande che potessero disturbare il manovratore.

Adesso sappiamo che le indiscrezioni del Financial Times erano più che fondate: l’accordo di pace era stato raggiunto. Lo scorso 17 giugno, ricevendo la delegazione dei leader africani guidata dal Sudafrica, il presidente russo Vladimir Putin ha reso noto che durante le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi a Istanbul a fine marzo 2022 si era raggiunto un accordo molto dettagliato che prevedeva come punto centrale la neutralità dell’Ucraina e che, a seguito del ritiro delle truppe russe che circondavano Kiev, la guerra sarebbe finita. Putin ha mostrato il documento con la firma del capo-delegazione dell’Ucraina. Subito dopo l’avvenuto ritiro delle truppe da Kiev e Kharkiv, secondo Putin, l’accordo è stato stracciato dagli ucraini e gettato “nella pattumiera della storia”.

Il documento, in 18 articoli, era denominato “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. L’accordo non si limitava a petizioni di principio, ma conteneva un allegato dettagliato con clausole specifiche, fino alle unità di equipaggiamento da combattimento e al personale delle Forze armate. Si trattava, pertanto, di un accordo specifico, concreto, del tutto idoneo a porre fine alla guerra. Un indizio è la prova di un fatto ignoto che si desume da un fatto noto. Il fatto noto è l’esistenza di un trattato di pace che avrebbe posto fine alla guerra. Da questo fatto, non più contestabile, se ne deduce che vi è stata un’attività segreta, che si è sviluppata sulla pelle del popolo ucraino e degli altri popoli europei per sventare la pace. I principali indiziati sono gli Usa e la Gran Bretagna, in quanto i principali fornitori di armi all’Ucraina.

L’accordo non è stato attuato perché evidentemente Biden e Johnson hanno posto il veto, assicurando a Zelensky che gli avrebbero fornito una tale potenza di fuoco da rovesciare le sorti del conflitto. L’accordo non poteva essere sconosciuto dagli Stati indicati come garanti della protezione dell’Ucraina neutrale da ogni aggressione, fra cui Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Turchia; di conseguenza anche i vertici dell’Unione europea ne dovevano essere a conoscenza. Essendo a conoscenza dell’accordo questi Stati e i vertici Ue dovevano necessariamente essere a conoscenza anche delle manovre poste in essere per sventare la pace. Eppure hanno taciuto, hanno conservato un silenzio di tomba, evidentemente condividendo quelle condotte che hanno istigato l’Ucraina a stracciare l’accordo che i suoi stessi negoziatori avevano firmato.

Quando si fanno tali misfatti occorre tenerli rigorosamente nascosti per poter conseguire lo scopo. Lo scopo di inserire l’Ucraina nella grande “famiglia atlantica” evidentemente valeva centinaia di migliaia di morti, l’ecocidio dell’ambiente, sofferenze inenarrabili per le popolazioni coinvolte. Nascondendo questa verità, che la guerra poteva essere fermata dopo poche settimane dal suo scoppio ed evitati infiniti lutti, è stato compiuto un tradimento in danno di tutti i popoli europei. Per completare l’opera, anche adesso la notizia dell’accordo di pace sventolato da Putin è stata tenuta rigorosamente segreta da tv, giornali e agenzie di stampa. Ma noi non possiamo tacere e la urliamo sui tetti.

da qui

 

 

 

DIARIO DELLA CRISI | Industria bellica S.p.A.: come fabbricare la guerra infinita –  Rossana De Simone – prima parte

Pubblichiamo la prima parte di un articolo di Rossana De Simone che entra «nel laboratorio segreto della produzione» degli armamenti. Corroborando l’analisi con dati presi dai più importanti report governativi, l’articolo spiega come è proprio il settore delle armi, nello stretto intreccio tra aziende della difesa e sicurezza e Stati, uno dei pezzi più importanti che sta trainando il tentativo di ricostruire una base industriale, soprattutto negli Stati Uniti, e come questo aspetto influenzi direttamente lo svolgersi della guerra in Ucraina.

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Il 16 agosto 2021, parlando dalla Casa Bianca, il presidente americano Joe Biden si è rivolto al mondo per spiegare il collasso in Afghanistan e la fuga degli americani: «Non rimpiango il ritiro. L’Afghanistan non è negli interessi USA».1

Con il suo discorso Biden ha voluto riaffermare che era necessario voltare pagina e pensare alle nuove minacce, a Cina e Russia. Dopo vent’anni di guerra globale, serviti per prendere in mano le redini dell’ordine mondiale e per sostituire l’islam radicale al comunismo come minaccia alla pace mondiale, negli Stati Uniti e nel mondo si è cominciato a discutere delle numerose operazioni militari, che hanno distrutto un paese dopo l’altro, e del declino dell’occidente nell’egemonia globale.

Dei 21mila miliardi di dollaridi spese militari effettuate dal 2001 al 2022, che hanno portato alla militarizzazione della politica interna (in nome della sicurezza), 16mila miliardi sono andati alle forze militari (compresi 7200 miliardi per le società private di sicurezza), 3mila miliardi ai programmi per i veterani, 949 miliardi alla sicurezza interna e 732 miliardi alle forze dell’ordine federali. Degli otto generali che hanno comandato le forze americane in Afghanistan – senza mai «vederne» e ancor meno denunciarne il disastro – il generale Joseph F. Dunford Jr, è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Lockheed Martin, il più grande appaltatore del Pentagono, mentre l’attuale Segretario della Difesa Lloyd Austin, già comandante della Combined Joint Task Force, è membro del CdA di Raytheon Technologies, uno dei più grandi appaltatori militari del mondo3.

Una cosa è certa: la guerra sotto forma di necessità economica fa sicuramente bene ai rendimenti azionari dei maggiori appaltatori della difesa a livello mondiale (Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman, and General Dynamics)4.

Il sistema di produzione degli armamenti – sempre più costosi e con un tempo di ricerca e sviluppo sempre in divenire –, unitariamente a quello militare del Pentagono, non è più semplicemente appendice ma parte integrante del meccanismo di produzione e riproduzione capitalistico. A differenza di altri settori, le aziende della difesa e sicurezza, insieme a quelli considerati strategici, hanno sempre un certo grado di controllo governativo considerando che lo Stato è il primo committente che sostiene e finanza l’intero ciclo produttivo di un nuovo prodotto, e che decide sia le cooperazioni intergovernative sia le collaborazioni multinazionali all’interno di un mercato sempre più competitivo e transnazionale.

La funzione anticiclica delle spese militari, come pensata da molti economisti keynesiani, volta cioè a contrastare situazioni di crisi, ha ormai assunto un significato diverso dal momento in cui le crisi cicliche capitalistiche tendono a presentarsi sempre più ravvicinate nel tempo. Analogamente, la crisi pandemica, sebbene abbia evidenziato l’importanza per le imprese dell’aerospazio di avere due comparti separati – uno civile, l’altro militare –per bilanciare le attività dell’uno con l’altro in funzione anticiclica, non è servita a smascherare lo scandalo dei lauti finanziamenti statali per programmi la cui tecnologia proviene dal settore civile. La ricerca e sviluppo a duplice uso, fortemente incentivata dall’amministrazione Clintonnei primi anni ’90 – comprensiva di tutte le tecnologie d’avanguardia come l’intelligenza artificiale, i veicoli/velivoli senza pilota, i big data o le nanotecnologie – viene da tempo sviluppata e prodotta essenzialmente dal settore civile, ma conteggiata ugualmente come fosse tecnologia proprietaria del prescelto general contractor. Se poi si entra nel merito dei bilanci di queste aziende, si può appurare che la maggior parte del denaro speso sul militare va al capitale, differentemente da ciò che accade negli altri tipi di lavoro: solo 15% del prezzo di ogni F-35 viene usato per pagare il costo del lavoro coinvolto nella produzione, fabbricazione e montaggio, mentre l’85% serve per le spese generali6.

Dopo l’ondata di fusioni e acquisizioni avvenuta nei primi anni ‘90, che hanno rimodellato la base industriale della difesa americana riducendo il numero delle prime contractor e la concorrenza, il rapporto del Pentagono «Consolidation of Defense Industrial Base Poses Risks to National Security»ha analizzato i pericoli di ulteriori consolidamenti tra grandi produttori con dati aggiornati. Risulta infatti che le aziende del settore aerospaziale e difesa si sono ridotte da 51 a 5 (Lockheed Martin, Raytheon Technologies, General Dynamics. Northrop Grumman e Boeing), da 13 a 3 i fornitori di missili tattici, di satelliti da 8 a 4. Negli ultimi trent’anni, la base industriale si sarebbe contratta del 40% mentre sarebbero 15.000 i fornitori a rischio. Secondo gli esperti è necessario frenare la politica delle fusioni tra gli appaltatori per evitare rischi per l’economia e la sicurezza nazionale non solo perché ha significato un rialzo dei prezzi, ma ha portato a lacune nella catena di approvvigionamento e minacciato le capacità produttive. Si sono identificate almeno 300 vulnerabilità in cinque settori che dovranno proteggere le loro catene di approvvigionamento: dai materiali strategici e critici alla microelettronica, dalle batterie ai missili.  In seguito anche la pandemia di coronavirus ha provocato interruzioni alle catene di approvvigionamento globale dai semiconduttori ad altri beni e materiali, creando carenze nelle attività di fabbricazione e produzione. Durante la pandemia la Casa Bianca aveva invocato il «Defense Production Act» (legge sulla produzione della difesa) per riutilizzare alcune fabbriche per produrre ventilatori.

Il problema però non è stato tanto la loro capacità produttiva, ma la mancanza di componenti provenienti da più di quattordici paesi diversi (filtri e allarmi, tubi e alimentatori, ecc.).

Una delle iniziative prese dal governo ha riguardato in parte il finanziamento di piccole e medie imprese (PMI) per la produzione di beni come semiconduttori, prodotti biotecnologici e biomedici, energia rinnovabile e accumulo di energia, in parte fornendo crediti all’esportazione alle imprese statunitensi che vendono beni all’estero.

Tuttavia per la prima volta, e non per problemi salariali o pensionistici, queste aziende hanno dovuto rallentare la produzione grazie a un parassita e alla paura dei lavoratori. Secondo l’agenzia di stampa internazionale Bloomberg, gli appaltatori della difesa USA hanno mantenuto in funzione la maggior parte degli impianti e hanno chiuso solo per qualche giorno per pulire le strutture. A seguito dello scoppio della crisi per coronavirus, l’Aerospace Industrial Association ha chiesto al Dod di dichiarare l’industria della difesa «infrastruttura critica», in modo che le aziende potessero costringere i propri dipendenti a continuare a lavorare.

E, nonostante il calo del Pil mondiale per via della pandemia e la crisi economica che ha coinvolto interi settori, nel 2020 gli ordini e le consegne di armi non si sono fermati (531 miliardi di dollari con un aumento dell’1,3% rispetto al 2019) anche in presenza di misure restrittive che non hanno consentito la consegna delle armi e, in alcuni casi, il proseguire dei cicli produttivi.  Anche la spesa militare globale ha continuato a crescere attestandosi a 1.981 miliardi di dollari, un aumento del 2,6% rispetto al 2019 e del 9,3% rispetto al 2011, confermando il forte potere di pressione delle lobby dell’industria della difesa nei confronti delle istituzioni.

Nel 2022 il governo degli Stati Uniti decide di rafforzare il «Buy American Act»9, la legislazione sugli investimenti, per consentire di porre il veto a qualsiasi fusione che si ritenga dannosa per la sicurezza nazionale. Il presidente Biden ha infatti espresso la volontà di spezzare il potere dei trust per rigenerare capacità di produzione autentiche in caso di conflitto grave e ad alta intensità. Tuttavia è evidente che non si va verso un percorso di deconsolidamento – visto che sono prevedibili movimenti nei settori cyber, intelligenza artificiale, ipersonico, guerra ibrida, informatica quantistica, armi antisatellite, ecc. – in quanto rimane incontrovertibile che, essendo la difesa guidata dalla tecnologia, gli appaltatori più grandi acquisiranno sempre più società high-tech per accedere alle loro tecnologie.

La preoccupazione del presidente deriva da uno studio del CSIS secondo cui anche negli Stati Uniti l’industria della difesa non è in grado, a breve termine, di aumentare i tassi di produzione.  Un avvertimento in questo senso c’è stato quando, durante una conferenza fra alti funzionari del Pentagono, legislatori statunitensi e massimi dirigenti del settore produttivo, Gregory J. Hayes presidente e direttore di Raytheon Technologies (che insieme a Lockheed Martin, produce i sistemi missilistici Stinger e Javelin) ha dichiarato: «Il problema è che abbiamo consumato così tante scorte nei primi 10 mesi di guerra, che abbiamo sostanzialmente esaurito 13 anni di produzione di Stinger e cinque anni di produzione di Javelin. La domanda è: come faremo a rifornire le scorte?»…

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QUI DIARIO DELLA CRISI | Industria bellica S.p.A.: come fabbricare la guerra infinita –  Rossana De Simone – seconda parte

 

 

 

Pechino lancia la ciambella di salvataggio all’Europa (l’ultima) – Fabrizio Verde

“Per la Germania, la Francia e l’Europa nel suo complesso, la prima visita ufficiale all’estero del premier cinese Li Qiang dopo l’insediamento del nuovo governo cinese non è solo un viaggio per portare avanti la tradizionale amicizia e approfondire la cooperazione, ma anche un’importante visita per attuare la proposta del leader cinese di promuovere lo sviluppo dei legami Cina-Europa. È anche un’occasione rara per escludere le interferenze interne ed esterne e per risolvere le loro complesse e intricate riflessioni sulla Cina. L’Europa non dovrebbe perdere questa opportunità”. Si apre così un importante editoriale del quotidiano cinese Global Times.

Nei fatti dalla Cina ci dicono che Pechino sta lanciando una ciambella di salvataggio a un’Europa che sta affondando a causa del servilismo di una classe dirigente ottusa e asservita agli interessi Washington. Sono infatti gli Stati Uniti che hanno fatto precipitare la situazione in Ucraina riportando il dramma della guerra in Europa. Provocato la rottura tra Europa e Russia, con il prossimo obiettivo di staccare l’Europa anche dalla Cina – il suo primo partner commerciale.

Non è difficile credere che visto il livello scadente della classe dirigente europea anche questo obiettivo di Washington sarà facilmente raggiunto. Di nuovo a scapito dei popoli europei che ne pagheranno le peggiori conseguenze. Tra gli applausi scroscianti dei soliti media mainstream che ormai hanno fatto del capovolgimento della realtà e della propaganda atlantista la loro unica ragione di esistenza.

Così, gli ‘europeisti’ duri e puri, nella politica tanto quanto nell’informazione, procedono alla distruzione dell’Europa nell’interesse dell’egemone unipolare in declino. Washington pur di rallentare il processo di creazione del nuovo mondo multipolare pronto a scalzare il vecchio ordine unipolare è pronta a sacrificare l’Europa sull’altare dei propri interessi.

Come spiegato in un editoriale del quotidiano Global Times alla vigilia del viaggio in Europa del premier cinese Li Qiang “l’Unione Europea, in particolare i suoi membri principali, devono trovare nella cooperazione con la Cina la possibilità di superare lo stallo della crisi ucraina e di ripristinare la pace e la stabilità nel continente, nonché di affrontare la prepotenza degli Stati Uniti che mira a minare l’ambiente e il potenziale economico dell’UE”.

Per questo il primo viaggio all’estero del premier cinese acquista particolare importanza e “dimostra che la Cina attribuisce grande importanza ai legami strategici Cina-UE. E’ stato osservato che la visita di Li porterà maggiore certezza alla cooperazione Cina-Europa e favorirà la ripresa economica globale in un momento in cui il mondo è ancora in preda alle turbolenze causate dalla crisi ucraina e in cui l’unilateralismo e l’egemonia degli Stati Uniti minacciano la tendenza al multipolarismo”.
Quello della Cina sembra quasi essere un estremo tentativo di salvare l’Europa. Una sorta di ultima chiamata.

 

L’Unione Europea e la necessità di un assetto mondiale multipolare
L’Unione Europea si trova di fronte a una serie di sfide geopolitiche che richiedono una valutazione accurata del suo ruolo nell’arena internazionale. Nell’attuale configurazione a guida statunitense, l’UE si trova in una posizione di svantaggio – eufemismo per non dire a rimorchio di Washington – che potrebbe portare al fallimento e alla disintegrazione dell’Unione stessa. Pertanto, l’UE dovrebbe aspirare a un assetto mondiale multipolare, in cui diverse potenze condividono l’influenza globale.
Curioso è che questi semplici e lampanti concetti debbano essere spiegati ai cosiddetti ‘europeisti’ da chi invece ha sempre avversato il mostro neoliberista europeo. Ma tant’è. Evidentemente più che di ‘europeisti’ si tratta di fanatici atlantisti, pronti a sacrificare il progetto europeo a cui tanto dicono di tenere, per soddisfare quelli che Washington ritiene interessi vitali.
Siamo quindi costretti a spiegare a costoro che in un mondo multipolare l’Unione Europea avrebbe degli innegabili vantaggi

 

Riduzione della dipendenza dagli Stati Uniti:
L’UE attualmente dipende in larga misura dagli Stati Uniti per la sicurezza, la difesa e la politica estera. Tuttavia, l’amministrazione statunitense prende decisioni che non rispecchiano gli interessi dell’UE, ma bensì la danneggiano fortemente. Con un assetto multipolare, l’UE potrebbe ridurre questa dipendenza e sviluppare una maggiore autonomia nella definizione delle proprie politiche, aumentando la sua capacità di perseguire gli interessi europei in modo indipendente.

 

Maggiore influenza geopolitica:

L’UE, con la sua economia ancora forte seppur in netto declino e la sua ricchezza di risorse, avrebbe il potenziale per diventare un attore geopolitico di primo piano. Tuttavia, nel contesto attuale, la sua influenza è limitata a causa della predominanza statunitense. Un assetto multipolare permetterebbe all’UE di assumere un ruolo più centrale nella definizione delle dinamiche globali, ampliando la sua influenza sia in termini di politica estera che economica.

Protezione degli interessi economici:

L’UE è uno dei principali attori nel commercio internazionale. Tuttavia, la sua posizione viene indebolita da politiche unilaterali degli Stati Uniti. Un assetto multipolare consentirebbe all’UE di diversificare i suoi partenariati commerciali e di difendere meglio i suoi interessi economici, mitigando il rischio di pressioni esterne che vanno a danneggiare l’economia europea.

Gestione dei flussi migratori:

L’UE si trova ad affrontare sfide significative legate ai flussi migratori provenienti da regioni instabili o in conflitto. Un assetto multipolare offrirebbe l’opportunità di stabilizzare le regioni di origine dei migranti attraverso una cooperazione internazionale più ampia ponendo fine alle folli politiche di destabilizzazione portate avanti dall’imperialismo solo per perpetuare il proprio dominio e saccheggiare le risorse naturali.

L’attuale assetto mondiale a guida statunitense pone l’UE in una posizione svantaggiata che potrebbe portarla al fallimento e alla disintegrazione. Per evitare tale scenario, l’UE dovrebbe perseguire attivamente un assetto mondiale multipolare, in cui le diverse potenze condividono l’influenza globale. La Cina sta provando a far aprire gli occhi ai paesi che di fatto guidano le sorti europee, Francia e Germania.

Gli ‘europeisti’, i cultori del sogno europeo, hanno invece da tempo scelto di immolarsi per la sopravvivenza del declinante mondo unipolare segnato dal dominio statunitense.

da qui

 

 

 

 

 

 

 

Meloni porta l’Italia ad un passo dalla belligeranza attiva (e del baratro) – Marinella Mondaini

Questo governo e la Nato portano l’Italia alla rovina.
Il primo ministro Giorgia Meloni insiste ancora: «Quello che gli ucraini stanno facendo è difendere anche la nostra libertà» e si dice «fiera di poter annunciare assieme a Macron» che lo scudo antiaereo franco-italiano Samp-T è adesso «operativo» in Ucraina.

Mentre la Nato, per bocca del suo segretario Stoltenberg, ha annunciato ieri, ancora una volta, di essere contraria al “congelamento” del conflitto in Ucraina.

Ecco le false e ipocrite dichiarazioni della NATO: “Vogliamo tutti che questa guerra finisca. Ma una pace giusta non può significare congelare il conflitto e accettare un accordo dettato dalla Russia”, ha detto Stoltenberg in una conferenza stampa congiunta in Germania con il cancelliere Olaf Scholz. Ha ribadito che l’alleanza intende sostenere Kiev “per tutto il tempo necessario. C’è una controffensiva dell’Ucraina. Più territori possono liberare, più forte sarà la loro posizione al tavolo dei negoziati”, ha affermato Stoltenberg.

Oggi il ministro degli esteri russo, Serghej Lavrov ha così risposto: “Se la NATO dichiara ancora una volta di essere contraria al cosiddetto – come amano dire – “congelamento” del conflitto in Ucraina, allora vuole combattere. Bene, che combattano, noi siamo pronti. Abbiamo capito da un pezzo gli obiettivi, gli scopi reali della NATO nella situazione intorno all’Ucraina, che si sono formati per molti anni”. Lavrov ha detto anche che alcuni politici ed esperti occidentali sembrano “riaversi” e cominciano a capire la verità.

Il responsabile della diplomazia di Mosca ha ribadito che «per quanto riguarda le prospettive dell’operazione militare speciale, gli obiettivi che sono stati fissati saranno raggiunti».

Lavrov considera le dichiarazioni dei paesi occidentali secondo cui “senza pompare di armi Kiev, il conflitto in Ucraina sarebbe finito da tempo” come un riconoscimento de facto di essere “un partecipante diretto alla guerra ibrida dichiarata contro la Russia, in effetti una guerra calda.”

Perciò la Meloni sappia che l’Italia è di fatto un paese belligerante, che conduce la guerra contro la Russia. Che sia proprio a capo del governo una persona che diversi anni fa elogiava Mussolini, rievoca sinistramente i tempi della Seconda Guerra Mondiale.

da qui

 

 

L’offensiva di Zelensky non sfonda e alcuni Paesi vorrebbero scendere in campo. Così la guerra in Ucraina cambierebbe natura, più vicino lo scenario Sarajevo 1914 – Domenico Quirico

La realtà della guerra, il suo corso subiscono un certo giorno trasformazioni che ricordano quelle della terra quando un terremoto ne smuove le viscere. Il movimento all’inizio è impercettibile, l’ondeggiare di una lampadario o la caduta isolata di un soprammobile, lo si nota appena, non si comprende cosa accada… è qualcosa che non puoi vedere toccare eppure sta accadendo. E cambierà tragicamente, radicalmente la vite di milioni di uomini, le nostre vite di ignari cittadini di un secolo accecato da una mediocre ipocrisia. Fu così, ad esempio, nel 1914 quando un ignoto studente uccise un erede al trono a Sarajevo. Poco più che cronaca nera. A Londra si continuò a bere il tè alle cinque in tutti i club, a Parigi gli Champs-élysées erano affollati più al solito, a Berlino il cartellone degli spettacoli non subì alcuna variazione.

La guerra in Ucraina è andata avanti, da un anno, nel suo crescendo sornione e inarrestabile segnata da questi continui piccoli movimenti: le forniture di armi sempre più sofisticate, i bombardamenti di rappresaglia russi sulle città, la incriminazione di Putin che ha affossato giuridicamente ogni trattativa, i sabotaggi dei timidi tentativi di mediazione. Abbiamo scavalcato quasi senza accorgerci infiniti Rubiconi immaginari, una azione invisibile e silenziosa, contro cui non sembra esserci difesa, che i geologi chiamano terremoto e gli strateghi guerra totale, feroce e materialista, ben raggrumata di rancori e di odio. Anche se le carte geografiche non sono state cambiate e la linea del fronte è sempre lì, quasi immobile, dopo che è stata tagliuzzata e ricucita infinite volte da offensive e controffensive egualmente inutili, ti accorgi che sei entrato in una fase nuova, più grande e insidiosa, e non potrai anche volendo tornare indietro. Di colpo tutto è diventato incerto, come quando uno comincia a dire bugie.

Il nuovo balzo in avanti nella guerra non si avviluppa alla qualità delle armi da fornire alla Ucraina, ad esempio gli aerei da combattimento F16. Una linea superata con la consueta tattica di scavalcare silenziosamente ciò che fino a un minuto prima ufficialmente si è dichiarato come “non all’ordine del giorno”. Provvedono, dopo qualche moina, forniture volontarie di qualche paese Nato più battagliero. In fondo non siamo una alleanza democratica e tra eguali?

Il nuovo passaggio a cui ci stiamo apparecchiando è la discesa sul terreno di contingenti militari della Nato a fianco dell’esercito ucraino per scardinare le difese nemiche nei territori occupati. E provocare, perché no? la rotta russa. A capofila di questo sciagurato sviluppo, palesato dalla balordaggine delle parole dell’ex segretario della Nato, il danese Rasmussen, è la Polonia. Varsavia, che ha già sul campo di battaglia molti “volontari” nelle cosiddette brigate internazionali, sembra pronta a spezzare il fragile tabù del non intervento occidentale; in linea con il ruolo di alleato di ferro degli americani sul “limes” europeo che i governanti di Varsavia si sono assunti in quel sanguinoso parco tematico della guerra moderna che è diventata l’Ucraina. Si voglion saldare i conti, come non ricordarlo? per le innumerevoli ferite che il trogloditismo russo, zarista e staliniano, ha inferto alla Polonia negli ultimi tre secoli. Si rinfrescano mai sopite e gloriose rimembranze dell’Armata rossa in fuga davanti alla petulante cavalleria del maresciallo Pilsudski.

Ci sono anche in questa determinazione pro ucraina considerazioni di politica interna. Essere la punta di lancia nella guerra contro l’aggressione russa è un lasciapassare infrangibile per tutte le accuse e i dubbi che la Commissione europea accumula sulla politica interna in tema di diritti del governo di Varsavia. La guerra serve, eccome. Non solo al fatturato di armaioli di ogni latitudine e dimensione. E non solo ai polacchi. Di un analogo impiego come certificato di buona condotta si serve anche il governo italiano di centrodestra.

Si avvicina dunque la caduta della mediocre finzione della non belligeranza che ci ha messo finora al riparo dalla coscienza dei pericoli di questa guerra. Presentarla con la maschera di iniziativa autonoma al di fuori della Nato dovrebbe evitare, secondo gli ideatori, lo scattare dell’impegnativo articolo 5 che impegna tutti gli alleati in una guerra comune. Dovremo prima o poi tutti immischiarci nella tragedia ucraina mentre finora abbiamo accumulato le buone ragioni per non accostarsi troppo. La guerra falcia agnostici e dogmatici.

A far precipitare l’inevitabile c’è il problema della mancanza degli uomini al fronte. L’offensiva ucraina forse troppo sbandierata come risolutiva e inarrestabile va così a rilento da far citare nei bollettini di Kiev tra i successi l’avanzata “da duecento metri a un chilometro”; e da segnare come conquiste l’occupazione di località che sulla carta appaiono come un minuscolo gruppo di case rurali. Le armi si sostituiscono, gli uomini “fini a se stessi”, come diceva Kant, purtroppo no. A un certo punto bisogna contare le riserve, non quelle tecniche ma quelle umane. Gli eserciti occidentali dispongono di una forza che è tecnica e organizzativa. Quello russo, da sempre, dispiega una potenza che si potrebbe definire biologica, fatta da riserve umane quasi inesauribili. È una materia prima che zar, “vozd” e Putin allo stesso modo gettano via senza pietà.

A Vilnius tra poche settimane nel vertice della Nato si trarranno le conseguenze di questa evoluzione del conflitto. Se l’Alleanza non adotta misure drastiche a favore di Kiev noi marceremo, minacciano i fautori dell’intervento.

Sono cambiate le condizioni della vittoria per alcuni alleati dell’Ucraina. Non più difenderla e preservarne la integrità come all’inizio della guerra, scopo su cui c’era un generale seppur tiepido consenso. Per polacchi, baltici, inglesi e Zelenski vincere è distruggere la potenza militare russa mettendola fuori gioco per molti anni, con la conseguente eliminazione di Putin dalla scena politica. L’esplodere del caos tra le Russie sarebbe risultato positivo, anche se presenta rischi. Insomma un secondo Ottantanove ma non per metastasi interna ma per una sconfitta militare.

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Ucraina, la controffensiva si è già impantanata – Fabio Mini

In genere le prime dieci ore e i primi dieci giorni sono indicativi dello sviluppo delle operazioni. Le prime ore indicano le linee di approccio facendo capire quali sono le principali e le sussidiarie; i primi dieci giorni danno l’idea degli obiettivi, della consistenza dell’attacco e delle sue potenzialità. In Ucraina, le prime ore non hanno chiarito nulla e anzi hanno sollevato molte perplessità: un attacco, o tre o cinque, su 800 chilometri di fronte non consente di capire molto sulla ratio dell’intera operazione. E anche ammesso che ciò sia voluto per sorprendere l’avversario occorre valutare il rischio che nemmeno i propri comandanti sul terreno la capiscano e siano i primi ad essere sorpresi.

Dopo dieci giorni la situazione non è migliorata. Il New York Times cerca di rassicurare sui successi ucraini della “estenuante, ma promettente controffensiva ucraina anche se a caro prezzo”. Concordando con ciò che il Fatto sostiene da tempo, il Nyt riferisce che “dopo aver inizialmente riconquistato alcuni piccoli insediamenti e villaggi, i progressi dell’Ucraina nelle regioni di Donetsk e Zaporizhzhia si misurano meglio in metri che in chilometri”. Inoltre, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, e il presidente degli Stati maggiori riuniti, generale Mark Milley, hanno riconosciuto che le forze ucraine stanno incontrando una forte resistenza e subendo perdite sia in termini di vittime umane sia di carri armati e altri veicoli corazzati occidentali recentemente forniti. Queste difficoltà erano attese, hanno detto”. Intanto, sul terreno “a ogni passo in avanti, i soldati ucraini sono sempre più esposti alla potenza di fuoco russa”. Quindi sembra di capire che dopo le riconquiste delle aree distanti dal fuoco russo, l’offensiva ucraina stia procedendo a “passi” e che vada incontro al peggio. Questo accade sul terreno, dove si combatte e si muore.

Nei luoghi dove invece si chiacchiera e si fanno affari la situazione è migliore e l’Ucraina è già vittoriosa su tutta la linea. La Nato e l’Unione europea si preparano ad accoglierla anche senza i requisiti richiesti e a prescindere dalle previste autorizzazioni dei Paesi “sovrani”. L’impegno a sostenere il “Paese aggredito senza motivo” è anche l’impegno a entrare in guerra contro la Russia e soprattutto la conferma che l’Europa è il primo obiettivo e principale teatro della guerra americana contro la Russia. Le manovre della Nato nell’Europa del Nord per quanto di routine hanno assunto valenza di mobilitazione militare per la guerra e, come si sa, la mobilitazione è già guerra. Anche la chiamata al riarmo con la mobilitazione delle produzioni industriali belliche non ha nessun carattere di deterrenza o difesa, ma tutti quelli della sfida e della provocazione. Il riarmo è la parte militare della preparazione alla guerra che tuttavia innesca e discende dalla preparazione finanziaria ed economica per un conflitto lungo e oneroso affrontabile e sostenibile soltanto con la concentrazione delle risorse materiali e umane sulla guerra.

Guerra non fine a se stessa, ovviamente, ma preludio del grande scontro Stati Uniti-Cina. Questo vogliono gli Usa e gli europei e questo è l’impegno che l’Ucraina ha assunto nei loro confronti: fornire armi in cambio di sangue per consentire all’Occidente di non soccombere in una guerra economica, commerciale e tecnologica che minaccia il sistema occidentale soltanto perché basato sull’egemonia statunitense. L’Occidente sta infatti cercando di spostare la guerra da un campo in cui ogni giorno perde iniziativa e potenziale a un campo, quello militare, in cui i numeri relativi all’hardware sono ancora favorevoli. Ma a fronte delle chiacchiere e della propaganda, l’Occidente trova già ora molte difficoltà nel perseguire la prospettiva di una guerra lunga e potenzialmente dolorosa. E gli ucraini forse cominciano a capire che della vittoria delle chiacchiere e dei soldi beneficeranno solo pochi e comunque non saranno coloro che combattono.

Si avvicina sempre di più il momento della verità spesso sollecitato dallo stesso presidente Zelensky: quanto sangue dei nostri figli siamo disposti a versare se e quando l’Ucraina non ce la facesse più? Quanto potrà durare la retorica degli aiuti all’Ucraina perché “essa” possa vincere? Quanto durerà ancora l’ubriacatura della guerra europea che ci costerà più di quanto non si sia disposti a spendere? Ogni giorno che passa, sul fronte orientale e nelle cancellerie occidentali appare evidente che l’Ucraina “deve” vincere per non costringerci a scegliere fra il sacrificio del nostro sangue e la vergogna dell’abbandono.

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Quando Petraeus annunciava il successo della controffensiva fin dai primi giorni – Davide Malacaria

Il 3 giugno, cioè il giorno precedente l’inizio della controffensiva ucraina, il generale David Petraeus preannunciava “l’impressionante” successo della stessa fin dai primi giorni.

Interpellato dalla BBC (vedi Guardian), profetizzava: “Penso che questa controffensiva sarà molto impressionante. La mia sensazione è che otterranno effetti grazie alle armi combinate, in altre parole eseguiranno con successo operazioni che si avvalgono della combinazione di armi, con gli ingegneri che superano i presidi difensivi, neutralizzano i campi minati e così via; dietro questi seguiranno i blindati protetti dalla fanteria che eliminerà la minaccia dei missili anticarro; quindi la difesa aerea, che terrà lontani gli aerei russi; la guerra elettronica che disturba le loro comunicazioni; la logistica a supporto e artiglieria e mortai [a martellare] davanti”.

“E la cosa più importante di tutte… è che quando gli elementi di testa inevitabilmente arriveranno al culmine del loro impiego, dopo 72-96 ore, cioè il massimo che puoi ottenere, e loro [i nemici ndr] avranno subito perdite… si muoveranno le altre unità, che andranno avanti, fino in fondo, per capitalizzare i progressi e mantenere lo slancio; penso che tutto ciò possa rimuovere l’intera difesa russa in quell’area e che si apriranno altre opportunità lungo i fianchi”.

 

Petraeus e l’Institute of Study of War

Petraeus non è quisling qualsiasi. Era comandante in capo delle forze americane per il Medio oriente, carica che lo ha portato a dirigere le forze d’invasione Usa in Afghanistan per anni; quindi, dimessi tali panni, è diventato capo della Cia, carica che ha dovuto abbandonare a seguito di uno scandalo.

Non solo, egli è uno dei portavoce più autorevoli dei neocon, godendo di un’intimità con la famiglia Kagan negata ad altri (tale famiglia controlla l’Institute of Study of War, che ha forti rapporti con l’apparato militar-industriale Usa e gestisce il flusso delle informazioni mainstream sulla guerra ucraina e tanto altro).

Petraeus, aveva previsto tutto… ma non è andata proprio così, anzi. Tale intervista va rapportata con quel che dicono adesso i suoi colleghi, cioè che i primi attacchi, risultati disastrosi per l’Ucraina, sono qualcosa di secondario, poco significativo etc. Evidente che, dopo aver sbagliato tutti i calcoli, devono ridimensionare l’accaduto.

La sua profezia rivela quanto siano distaccati i profeti di guerra, e di sventura, dalla realtà. D’altronde, Petraeus era stato il protagonista del surge in Afghanistan, avendo convinto l’America che inviando più truppe gli Stati Uniti avrebbero conseguito una sicura vittoria (poi si son dovuti ritirare con scorno).

Ed è un po’ quel che sta accadendo in Ucraina, nel quale si è assistito a un surge di altro tipo, cioè all’invio sempre più massivo di armi, e armi sempre più sofisticate, anche in questo caso preannunciato come foriero di fulgide vittorie, quelle descritte dalle parole di Petraeus.

Lo stesso generale, in un evidente stato di ispirazione, aveva pronosticato come necessaria la formazione di una coalizione di Paesi volenterosi che, al di fuori della NATO, inviassero contingenti militari a supporto delle forze di Kiev. Cioè la terza guerra mondiale.

Tale la follia che attanaglia i dirigenti Nato. Tale lo scacco inflitto loro dalla realtà. Ed è tragico che, nonostante l’evidente distacco dalla realtà, tali personaggi continuino a dettar legge, come dimostra l’intervista delle BBC a Petraeus – una delle tante -, il quale viene interpellato come una sorta di oracolo nonostante i palesi, tragici, errori del passato.

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Patrushev lancia l’allarme sui laboratori biologico-militari USA in Ucraina e Asia centrale

Già all’inizio dell’operazione speciale in Ucraina la Russia aveva lanciato l’allarme sui laboratori biologici militari degli Stati Uniti in Ucraina. Mosca ha scoperto che nella sola Ucraina ve ne sono 30, mentre questi costituiscono solo una piccola parte di una rete globale di oltre 300 strutture simili.

Il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolai Patrushev ha dichiarato che Mosca è particolarmente preoccupata dai laboratori biologici del Pentagono che operano in Asia centrale, simili a quelli che gestivano in Ucraina e Georgia. Questi laboratori sono in grado di creare virus “specifici per ogni razza”, ha specificato Patrushev a tal proposito.

Quindi l’alto dirigente russo ha esortato i colleghi dell’Asia centrale a cooperare e coordinarsi più strettamente sulle questioni di biosicurezza, anche nell’ambito dei memorandum bilaterali già conclusi. Anche perché Stati Uniti e Regno Unito cercano di destabilizzare la situazione nei Paesi dell’Asia centrale per giustificare l’espansione della presenza militare della NATO nella regione.

“L’Asia centrale è diventata un obiettivo prioritario della loro influenza informativa per stabilire il controllo sulla popolazione. La manipolazione dell’opinione pubblica da parte di Washington e Londra è finalizzata ad aggravare la situazione politica interna, a fare pressione sulle autorità e a formare uno strato della popolazione che condivida valori estranei alle tradizioni secolari dei popoli dell’Asia centrale”, ha dichiarato Patrushev in occasione dell’incontro inaugurale Russia-Asia Centrale dei capi del Consiglio di sicurezza in Kazakistan.

L’obiettivo è chiaro: creare stratagemmi per espandere la presenza militare della NATO nella regione, e questo può essere fatto sfruttando i rischi per la sicurezza derivanti dall’Afghanistan, ha detto il capo della sicurezza russa.

“Gli statunitensi e i britannici stanno cercando di manipolare l’insurrezione terroristica in Afghanistan a loro vantaggio, provocando tensioni ai confini con i Paesi dell’Asia centrale. Dato l’interesse dei vicini dell’Afghanistan a rafforzare i loro confini e a migliorare l’addestramento e l’equipaggiamento delle loro forze di sicurezza, gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO stanno cercando di espandere la loro presenza in Asia centrale e di creare maggiori opportunità per influenzarli”, ha dichiarato Patrushev.

Occidente come Hitler

Il Segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa ha inoltre dichiarato che i Paesi occidentali ripetono il percorso di Adolf Hitler e dei suoi scagnozzi, facendo rivivere l’ideologia nazista, come tutto il mondo può constatare in Ucraina.

“Oggi l’Occidente collettivo, dopo aver fatto rivivere l’ideologia nazista, sta ripetendo il percorso di Hitler e dei suoi scagnozzi, cercando di distruggere e smembrare la Russia e privare le ex repubbliche sovietiche dell’indipendenza una volta per tutte”, ha dichiarato Patrushev.

Come scrive KP.RU, in un discorso tenuto venerdì 23 giugno ad Alma-Ata, il Segretario del Consiglio di Sicurezza russo ha anche affermato che i programmi biologici del Pentagono potrebbero essere finalizzati all’ulteriore sviluppo di pericolosi ceppi di virus “orientati alla razza”, per questo il dirigente russo ha voluto lanciare il suo allarme rivolto ai paesi dell’Asia Centrale.

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Wikipedia, la Nato e come funziona l’informazione militarizzata in Italia – Laura Ruggeri

Chi si occupa di comunicazione sa che lo spazio dell’informazione e’ militarizzato da anni.
Cerberi dei servizi di sicurezza dei paesi della NATO presidiano i cancelli per difendere le narrazioni ufficiali, anche le piu’ assurde e illogiche, ed evitare che voci ed opinioni discordi possano contraddire la propaganda e incrinare il consenso.

Siedono nelle commissioni di vigilanza, lavorano nelle redazioni di giornali e telegiornali e nelle agenzie preposte a combattere “fake news e disinformazione” – sono in guerra contro tutto cio’ che potrebbe disturbare la formazione e la tenuta del consenso.

I social media, nati come progetto di questi stessi servizi di intelligence, hanno ovviamente schiere di cerberi a libro paga. Wikipedia e’ uno dei canali privilegiati per veicolare revisionismo storico e narrazioni considerate “politicamente corrette” dall’apparato ideologico delle elite occidentali, incensare gli “amici” e diffamare persone scomode, demonizzare paesi e leader che rappresentano un pericolo per l’egemonia dell’Occidente.

Non sorprende quindi che tra gli editor e gli amministratori di Wikipedia ci siano persone che lavorano per agenzie di comunicazione legate alla NATO, come non sorprende che l’autore del servizio del TG2 sui missili russi a Kiev contenente immagini tratte da un videogioco, avesse partecipato alle missioni NATO in Kosovo, Libano, Afghanistan, Bosnia e Albania proprio come addetto alle psyop. Per lavorare nei canali mainstream un passato militare come propagandista della NATO non costituisce un conflitto di interessi ma bensi’ una garanzia di affidabilita’.

Per difendere la propria reputazione ormai si e’ costretti a intentare procedimenti legali che durano anni contro chi diffonde informazioni false sul proprio conto. Io ad esempio ho querelato il Corriere della Sera e ad oggi non ho ancora ottenuto una risposta alla querela.

Per difendersi invece dalla disinformazione di regime occorre in primo luogo collegare i neuroni e adottare un atteggiamento critico verso le narrazioni proposte, confrontarle sempre con quelle provenienti da fonti non allineate o di paesi non sottomessi ai diktat anglo-americani.

Lungo preambolo per condividere questa notizia. L’amministratore HyperGio, che lavora per la Nci Agency, agenzia di comunicazione della Nato, si e’ dimesso da Wikipedia dopo aver bannato un editor che cercava di riportare una parvenza di imparzialita’ sulla pagina dedicata al professor Alessandro Orsini.

Purtroppo per un HyperGio che se ne va, ce n’e’ subito un altro meno compromesso pronto a prendere il suo posto…e la pagina su Orsini resta comunque oscurata. Alessandro Orsini: “Numerosi tentativi sono stati fatti di correggere la mia biografia nel rispetto delle regole (gli editor onesti non mancano) ma un gruppo di amministratori-detrattori, tra cui un analista della Nato, bloccava i profili che cercavano di emendare le menzogne pubblicate sul mio conto per danneggiare la mia immagine umana e professionale”.

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La svolta dell’Unione Europea verso il militarismo – Clare Daly e Mick Wallace

Il 20 aprile 2023 i rappresentanti dei Paesi aderenti alla Nato e di altri quattordici Stati si sono riuniti a Ramstein, in Germania, per fare il punto sulla gestione degli aiuti a sostegno dell’Ucraina, in vista della possibile controffensiva di primavera. La riunione si è svolta a un anno di distanza da un’altra simile, organizzata il 26 aprile 2022 dalla Nato, sempre a Ramstein (sede centrale della Nato in Europa), che aveva coinvolto i ministri della Difesa di 40 Paesi per un vertice straordinario sull’Ucraina. In quella sede si era deciso di privilegiare la svolta militarista, di fatto vanificando il ricorso a possibili vie diplomatiche per risolvere il conflitto e rispondere all’invasione russa. Nel corso degli scorsi mesi, la militarizzazione dell’Europa è progressivamente continuata sino a questo ultimo incontro, che sancisce l’irreversibilità della guerra “fino alla vittoria”. In un recente articolo, due deputati europei di nazionalità irlandese del gruppo The Left Gue/Ngl (la Sinistra del Parlamento Europeo) avevano descritto assai bene il processo in corso. Dopo la decisione di ieri ci pare utile leggere le loro parole. Le abbiamo tradotte per voi

* * * * *

Come internazionalisti, crediamo nella possibilità di un’Europa pacifica e socialmente giusta. Ma come membri del Parlamento europeo, che lavorano ogni giorno sulla politica di sicurezza e di difesa dell’UE a Bruxelles e Strasburgo, dobbiamo essere onesti con l’opinione pubblica su quanto sia realistico questo ideale in questo momento. La pace è una parola sgradita a Bruxelles. Invece, mentre le tensioni aumentano a livello globale, la politica dell’UE è presa da un frenetico entusiasmo per gli armamenti e il militarismo, per il confronto con i “rivali geopolitici” e per il coinvolgimento in conflitti regionali in angoli lontani del mondo.

Non è sempre stato così. Sebbene un esercito comune dell’UE sia stato a lungo una chimera dei federalisti europei, l’idea era impopolare tra il pubblico ed è stata messa in secondo piano mentre l’UE perseguiva l’integrazione in altre aree. Gli sforzi compiuti in questa direzione sono stati ostacolati da difficoltà organizzative. Ma le riforme del Trattato di Lisbona nel 2009 hanno cambiato tutto questo, preparando il terreno per una profonda accelerazione verso una politica estera e di difesa comune, e da allora il progetto sta prendendo piede.

La maggior parte degli europei vuole la pace. In ciascuno degli Stati membri dell’UE esistono movimenti pacifisti venerabili e potenti. Ma per organizzarsi e opporsi al perno della guerra in Europa, è necessario innanzitutto avere una comprensione condivisa del fenomeno. La nostra sensazione è che la sinistra anti-guerra in Europa sia consapevole che l’UE sta subendo un processo di militarizzazione. Ma, a causa dell’impenetrabilità della politica dell’UE e della sua lontananza dai pubblici nazionali, è difficile conoscere i dettagli di questo processo. Ciò rende più difficile ritenere i governi nazionali responsabili o fare pressione su di loro per opporsi alla militarizzazione in seno al Consiglio dell’Unione europea.

Questa difficoltà può essere affrontata tagliando le sigle e le istituzioni nei dibattiti politici dell’UE e mettendo in evidenza ciò che sta accadendo. Possiamo iniziare a farlo dividendo la politica di difesa dell’UE in cinque grandi aree.

  1. Verso un esercito dell’UE

Il primo di questi, l’integrazione delle forze armate, viene perseguito attraverso una struttura creata dal Trattato di Lisbona – la PESCO, o Cooperazione Strutturata Permanente. L’ex presidente della Commissione Jean Claude Junckers ha definito la PESCO la “bella addormentata del Trattato di Lisbona”, rimasta dormiente fino all’attivazione nel 2017. La PESCO è un insieme di regole per l’istituzione di una serie di progetti militari congiunti, attualmente circa 60. Gli Stati membri devono raggiungere obiettivi di spesa per la difesa pari al 2% del PIL e possono scegliere a quali progetti partecipare, ad esempio nuovi progetti di addestramento o lo sviluppo di nuove tecnologie o attrezzature militari, come droni o missili, jet da combattimento o navi da guerra. L’obiettivo a lungo termine è far sì che le forze armate parlino e cooperino tra loro, inizino a lavorare secondo standard comuni e a utilizzare attrezzature, sistemi e concetti comuni, nella speranza che in futuro inizino a funzionare più come un’unica forza armata.

  1. Le missioni sul terreno

Il secondo settore è quello delle missioni congiunte dell’UE, in cui le forze armate vengono schierate insieme all’estero. Si suppone che queste missioni siano limitate ai cosiddetti “compiti di Petersberg”: soccorso umanitario, disarmo, prevenzione dei conflitti, addestramento militare e mantenimento della pace. In realtà, le missioni dell’UE all’estero sono utilizzate come strumento di politica estera dell’Unione.

Attualmente ci sono 21 missioni attive dell’UE. Molte di esse usano l’Africa come terreno di gioco. Il nostro gruppo, il gruppo della Sinistra al Parlamento europeo, ha recentemente pubblicato un eccellente studio sulle missioni dell’UE nella regione del Sahel, intitolato “Mission Creep Mali – Europe’s failed backyard policy”. La presenza militare dell’UE in Mali e nel Sahel in generale non è stata benevola; è stata concepita per promuovere gli interessi dell’UE e degli Stati membri, come l’accesso alle risorse e il controllo dei flussi migratori. La missione è stata sottovalutata, ma si è rivelata un vero e proprio disastro, spesso con conseguenze scioccanti per le popolazioni locali ed effetti a catena sui conflitti regionali. Nelle discussioni a Bruxelles, i Paesi africani sono ora sempre più visti come luoghi in cui l’UE può impegnarsi in contese geopolitiche con gli interessi russi e cinesi, e le missioni dell’UE sono considerate risorse strategiche in queste contese.

  1. Il complesso industriale della difesa

Un terzo grande ambito è il progetto di costruzione di un settore comune europeo della difesa. Tradizionalmente, le potenze militari hanno una propria industria della difesa – aziende produttrici di armi e appaltatori della difesa – che hanno un rapporto parassitario con lo Stato. Questo è ciò che il Presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower descrisse nel suo discorso di addio come “complesso militare-industriale”. Lo Stato finanzia le aziende produttrici di armi – con i soldi dei contribuenti – per fare ricerca e sviluppo per creare nuove tecnologie e armi. Lo Stato poi spende nuovamente i soldi dei contribuenti per riacquistare quei prodotti per equipaggiare le proprie forze armate. Questo rapporto crea ovviamente gravi conflitti di interesse. Crea anche incentivi economici per trovare e creare conflitti.

Alcuni Stati membri dell’UE hanno già un forte settore della difesa, ma l’obiettivo della politica dell’UE è incoraggiare le aziende europee della difesa a sviluppare lo stesso rapporto parassitario con l’UE stessa. Lo strumento principale a tal fine è il Fondo europeo per la difesa, un fondo proveniente direttamente dal bilancio dell’UE, che fornisce sovvenzioni per la ricerca e lo sviluppo alle aziende produttrici di armi.

Il Fondo europeo per la difesa ha una storia interessante. Nel 2015 la Commissione europea ha istituito un organo consultivo per consigliare come progettare la politica industriale di difesa dell’UE. Si chiamava Gruppo di personalità di alto livello sull’azione preparatoria per la ricerca nel settore della difesa. Idealmente, un organismo di questo tipo dovrebbe essere composto da esperti neutrali, che non traggono alcun vantaggio dai consigli che fornirebbero alla Commissione. Come documentato dai gruppi di vigilanza, il gruppo era invece composto dagli amministratori delegati dei principali appaltatori europei della difesa: Airbus, MBDA, BAE Systems, Saab, TNO, Leonardo, Indra e Frauenhofer. Un altro membro proveniva da Aeronautics, Space, Defence and Security Industries, la principale organizzazione di lobbying in Europa per gli appaltatori della difesa.

Il gruppo ha prodotto un rapporto che raccomandava la creazione di un Fondo europeo per la difesa, che avrebbe convogliato quantità crescenti di denaro dal bilancio dell’UE alle aziende produttrici di armi. La Commissione ha seguito le raccomandazioni contenute nel rapporto. Dopo due programmi preliminari, il FES è stato lanciato nel 2020 e attualmente finanzia la ricerca e lo sviluppo nel settore degli armamenti e della difesa per un importo di 8 miliardi di euro per il periodo 2021-2027. Le ricerche sui beneficiari dei finanziamenti dell’UE per la ricerca nel settore della difesa dimostrano che le aziende del Gruppo di personalità hanno beneficiato ampiamente della stessa politica che hanno progettato. Ora che il FES esiste, ci si può aspettare che la spesa dell’UE aumenti esponenzialmente, dato che l’industria fa pressione per ottenere sempre più sovvenzioni.

Un’importante conseguenza del fatto che l’Unione Europea sta pompando massicce tranche di denaro dei contribuenti nella ricerca sulla difesa è che la difesa si sta estendendo a tutti i settori della politica dell’Unione Europea, non solo a quello della difesa pura e semplice. La disponibilità di finanziamenti europei per la ricerca nel settore della difesa significa che la politica industriale in tutta l’UE attira le piccole e medie imprese nel settore della difesa, perché i soldi ci sono. Nascono prodotti e servizi con usi sia civili che militari. Le università sono incentivate a trovare dimensioni militari per i loro programmi di ricerca. Il settore civile viene lentamente militarizzato e reso complice del business della guerra, poiché i suoi finanziamenti e le sue priorità si sovrappongono agli interessi della difesa. Sono i finanziamenti dell’UE a guidare questa militarizzazione.

  1. Denaro in cambio di armi

La quarta area della politica di difesa dell’UE è il finanziamento congiunto dell’UE per l’acquisto di armi. Al momento, questo non proviene dal bilancio dell’UE, ma da uno strumento fuori bilancio lanciato nel 2021, che gli Stati membri finanziano con contributi diretti dai loro bilanci nazionali. Il suo tetto finanziario è di 5,7 miliardi di euro tra il 2021 e il 2027. Si chiama – con un senso di correttezza orwelliana – “Fondo europeo per la pace”. Sul sito web del Consiglio viene descritto come “volto a migliorare la capacità dell’Unione di prevenire i conflitti, costruire la pace e rafforzare la sicurezza internazionale”. Al momento il suo utilizzo principale è l’acquisto di armi da aziende del settore della difesa con l’esplicito scopo di inviarle in zone di conflitto considerate di importanza strategica per l’UE. Nell’ultimo anno, nell’ambito del Fondo europeo per la pace, sono state autorizzate sette tranche da 500 milioni di euro ciascuna, pari a 3,5 miliardi di euro, per armare l’Ucraina.

  1. Pianificazione strategica dell’UE

Un quinto settore importante è quello della pianificazione strategica. Questa viene portata avanti attraverso un progetto chiamato Bussola strategica europea – essenzialmente un documento strategico dell’UE che mira a definire un quadro generale per tutti gli Stati membri. Il documento mira a definire chi sono gli avversari, da dove provengono le minacce e quali sono le parti del mondo in cui l’UE dovrebbe essere coinvolta, e formula raccomandazioni sulle azioni che l’UE e gli Stati membri dovrebbero intraprendere per prepararsi a conflitti, minacce e sfide. La Bussola strategica è destinata a diventare un meccanismo importante per riunire Stati membri diversi (alcuni neutrali, come il nostro Paese, l’Irlanda) con interessi diversi in un unico blocco geopolitico e militare.

La Bussola Strategica assomiglia sempre più a un’autostrada per l’egemonia della NATO in Europa. Per alcuni anni c’è stato un braccio di ferro tra gli Stati pro-NATO, che volevano che la politica di difesa dell’UE fosse subordinata alla NATO, e gli agnostici della NATO, che volevano che fosse autonoma dalla NATO e dagli Stati Uniti. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha dato agli Stati pro-NATO un vantaggio decisivo. Di conseguenza, le strutture di difesa dell’UE, create per essere indipendenti dalla NATO, vengono ora utilizzate per incorporare più strettamente l’Europa nella strategia della NATO. A prescindere dalle loro posizioni ufficiali, ciò sta trasformando gli Stati membri non allineati e non appartenenti alla NATO in membri di fatto della NATO, intrappolando l’Unione Europea in modo sempre più sicuro all’interno della strategia globale degli Stati Uniti.

Conclusione

I processi che abbiamo descritto fanno parte di una trasformazione dell’Unione Europea da unione economica ampiamente associata all’ideale di pace sul continente europeo ad aspirante centro di potere militare. Questi sviluppi sono preoccupanti per le persone e le comunità che in Europa sono favorevoli alla pace. Nel corso della storia, gli armamenti e la militarizzazione sono sempre stati giustificati da ragioni di difesa, ma hanno tendenzialmente preceduto periodi di conflitto mondiale particolarmente brutali. Col senno di poi, la militarizzazione ha reso quei conflitti più probabili, non meno.

Tutto questo avviene nel contesto di un riemergente conflitto interimperialista, che porta con sé il peggioramento delle relazioni internazionali, l’aumento delle tensioni militari, il deterioramento degli accordi sul controllo degli armamenti e delle istituzioni multilaterali e l’accelerazione di una nuova corsa agli armamenti globale. È una scelta politica se l’Unione Europea continuerà a partecipare e ad accelerare questi processi o se invertirà la rotta e si impegnerà per frenarli. L’equilibrio delle forze politiche in Europa attualmente favorisce la prima ipotesi rispetto alla seconda. Senza una significativa mobilitazione delle forze antibelliche e antimilitariste in Europa, che si organizzino a livello nazionale e comunitario, è improbabile che questo equilibrio cambi.

 

Clare Daly è una parlamentare europea irlandese del gruppo The Left Gue/Ngl (la Sinistra del Parlamento Europeo) che alla plenaria del Parlamento Europeo del 2 febbraio scorso ha ricordato il caso di Alfredo Cospito, esponente anarchico al 41 bis in sciopero della fame.

Mick Wallace è un parlamentare europeo irlandese, membro del gruppo “Independents4Change”, associato al gruppo parlamentare The Left Gue/Ngl

Traduzione dall’inglese a cura di Effimera. Qui la versione originale.

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La missione di pace africana seppellita sotto le bombe della propaganda – Davide Malacaria

…che la missione di pace africana non fosse ben vista in Occidente, da cui la reazione stizzosa di Zelensky, lo si era capito fin dall’inizio. Il giornale sudafricano Daily Maverick riferisce che il viaggio ha subito contrattempi inusitati, tanto che Il capitano della South African Airways Mpho Mamashela ha dichiarato che “qualcuno dovrebbe prenderne nota e inserirlo nel guinness dei primati”.

Infatti, il velivolo, nonostante avesse tutte le carte in regola per il volo, ha dovuto girare a vuoto a lungo prima di ottenere il permesso per sorvolare i cieli italiani.

Quindi, giunto a Varsavia, dove ha fatto tappa prima di ripartire per Kiev, un altro e più fastidioso contrattempo. Atterrato, infatti, le forze dell’ordine polacche hanno letteralmente impedito alla sicurezza e ai giornalisti al seguito della delegazione di Stato di scendere dal velivolo per più di 24 ore, adducendo motivazioni del tutto pretestuose. Tra i fermati anche la sicurezza personale del presidente sudafricano, che ha reagito in maniera dura alla prepotenza (incidente poi rientrato).

Non solo, dopo che Ramaphosa ha terminato la visita di Stato a Varsavia, nel corso della quale ha incontrato il presidente Duda, l’aereo doveva ripartire alla volta di Kiev, per raggiungere il presidente che vi sarebbe giunto in treno. Ma le autorità polacche, dopo aver dato il via libera, hanno nuovamente bloccato l’aereo a terra, autorizzando però i suoi occupanti a scendere dopo più di 24 ore di sequestro…

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L’inoffensiva e altri fatti – Enrico Tomaselli

Mentre sulla linea di combattimento i tentativi di avanzata ucraini si infrangono sulle difese russe, una sorprendente mossa del miliardario Prigozhin rischia di pugnalare alle spalle i militari al fronte e viene prontamente – ed unanimemente – bollata come tradimento. Intanto, anche a Mosca ferve il dibattito politico sulla guerra e ci si interroga sull’uso delle armi nucleari. L’Europa, come sempre, risulta non pervenuta.

* * * *

Tre fatti

Si è spesso osservato, anche su queste pagine, come il dibattito sulle scelte strategiche sia estremamente animato negli Stati Uniti – a differenza di quanto avviene invece in Europa, dove ogni discussione di merito sul conflitto è marginalizzata e criminalizzata aprioristicamente. Contrariamente a quanto si pensi, ed a quanto amano raccontarsi gli aedi locali della NATO, l’esistenza di tale dibattito in USA non testimonia un esclusivo livello di democrazia (se così fosse, dovrebbe essere riconosciuto che in Europa non c’è autentica democrazia…); un dibattito, altrettanto serio, si svolge infatti anche nell’autocratica Russia. Ed è un fatto.

Data la sfortunata coincidenza con le notizie di cronaca, è bene precisare che non ci si intende riferire al tentativo di putsch ad opera della Wagner, né tantomeno alle critiche del suo proprietario Prigozhin, che nulla hanno a che vedere col dibattito strategico serio.

Ovviamente, si tratta di un fatto di grande rilevanza, che sarebbe impossibile ignorare. Non fosse altro che perché segna un passaggio importante nella vicenda politica russa di oggi, oltre che ovviamente del conflitto in corso.

Pur nella difficoltà di analizzare avvenimenti ancora in corso, si tenterà ugualmente una prima, sommaria valutazione. Ed è quindi questo, il secondo fatto di cui si tratterà in questo articolo.

Il terzo, infine, è lo stato dei combattimenti sulla linea del fronte, ad oltre due settimane dall’inizio dell’offensiva ucraina, che sembra ben lungi dal conseguire gli ambiziosi obiettivi sbandierati per mesi dalla dirigenza di Kiev.

Più in generale, questa analisi proverà a tracciare i possibili sviluppi della guerra – non molto rassicuranti, in effetti – proprio a partire dai fatti presi in esame, e che confermano ancora una volta l’assunto che le guerre hanno vita propria: una volta iniziate, è difficile prevedere e controllare dove/come vadano a finire…

 

Linoffensiva

Già nei giorni scorsi, in un breve post su social network, avevo rilevato come si registrasse un considerevole scarto tra i bellicosi propositi della vigilia e la pratica concreta dell’offensiva dispiegata sul campo, tanto da ipotizzare una certa riluttanza dei comandi ukro-NATO. Com’è noto, l’annunciatissima offensiva di primavera risponde essenzialmente ad esigenze politiche, diverse ma concomitanti, sia di Kiev che di Washington. Così come per la difesa ad oltranza di Bakhmut, le scelte politiche si sono imposte sulle valutazioni militari. E, possiamo ormai dirlo con sufficiente certezza, con i medesimi esiti disastrosi.

Il punto è che quali fossero le condizioni – rapporti di forza, caratteristiche delle linee difensive, disponibilità di uomini e mezzi – era ben noto sia allo stato maggiore ucraino che ai comandi NATO. Dal momento, quindi, che tale quadro della situazione non è stato sufficiente a far cambiare idea ai vertici politici, avrebbe dovuto essere affrontato diversamente.

Sostanzialmente, l’esercito ucraino andava ad impegnarsi in una offensiva in condizioni di assoluta inferiorità. Inferiore supporto di artiglieria, dominio dell’aria da parte del nemico, inferiorità di mezzi; a conti fatti, persino inferiorità numerica, se si tiene conto che un attaccante dovrebbe disporre di una superiorità di almeno 4 a 1 sui difensori.

È evidente che, in queste condizioni, e trovandosi di fronte una formidabile linea difensiva articolata in profondità, l’unica chance di ottenere un qualche successo era affidata ad una (certamente rischiosissima) rapida ed elevata concentrazione di uomini e mezzi, cercando a qualunque costo uno sfondamento nel settore meno difeso del fronte nemico. L’evidente riluttanza a tentare un affondo di tal genere, nel timore che si traducesse in una clamorosa disfatta, ha invece spinto gli strateghi ukro-NATO ad adottare una via mediana, una serie di attacchi spalmati lungo la linea di combattimento, nella speranza che si verificasse da qualche parte un cedimento delle truppe russe. Con il risultato di consumare comunque una parte considerevole delle proprie riserve strategiche di uomini e mezzi (almeno un terzo delle brigate è sostanzialmente fuori combattimento, o comunque in condizioni di deficit operativo), senza conseguire alcun risultato, nemmeno a livello tattico.

Anche se la propaganda continua a sostenere che il bello deve ancora arrivare, è chiaro che ormai la spinta si sta già esaurendo ed è ben probabile che entro l’estate sopraggiunga invece una nuova offensiva russa. Come ormai ripete continuamente il ministro della difesa Kuleba, in una sorta di mantra allucinato, la risposta è più armi. Anzi, per dirla con le sue stesse parole, le armi saranno sufficienti solo se e quando porteranno alla vittoria. Che, ovviamente, è come dire che non basteranno mai.

Il tutto, mentre la possibilità materiale – da parte dei paesi NATO – di continuare ad aiutare l’Ucraina si fa di giorno in giorno più esile. Stoltenberg afferma che gli arsenali sono ormai praticamente vuoti, Borrell che mancano le materie prime per produrre munizioni, Shai Assad (1) sostiene addirittura che, nonostante il Pentagono spenda 10 volte più della Russia, non sarà mai in grado di equiparare la produzione russa.

E, com’è ormai una costante, ad ogni fallimento delle aspettative, si risponde rilanciando. Kiev chiede armi sempre più potenti – l’ultima frontiera sono gli Army Tactical Missile System (ATacMS) – che la NATO prima o poi concederà, in un folle gioco d’azzardo dove si alza sempre più la posta, sperando che nel frattempo accada il miracolo.

Perché fondamentalmente è questo, lo stato delle cose in campo occidentale: sia Zelensky e la sua cricca, sia i vertici americani che quelli europei, hanno scommesso talmente tanto su questa guerra che adesso non riescono più a districarsene. E, benché non stia affatto andando come previsto, insistono sulla strada già battuta, nel timore – diciamo pure nella consapevolezza – che una sconfitta di Kiev li spazzerebbe via…

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L'”impossibilità di fare altro”: l’Occidente è entrato in una trappola (mortale) senza uscita – Alastair Crooke

Strategic Culture

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

 

La tragedia che affligge l’Occidente oggi consiste, da un lato, nella pura e semplice impossibilità di continuare a fare ciò che ha fatto – ma dall’altro nell’impossibilità di fare altro.

E perché è così? Perché non esistono più le condizioni che hanno dato origine all’Epoca d’oro che ha creato la “Generazione Comfort”: Credito a tasso zero, inflazione zero, media collusi, energia a basso costo che “sovvenziona” una base manifatturiera sempre più ridotta e sclerotica (almeno in Europa).

Quei decenni sono stati il fugace “momento di gloria” dell’Occidente. Ma è finito. La “periferia” può farcela da sola, grazie! Se la cava bene – anzi, meglio del centro imperiale di questi tempi.

Il paradosso più profondo è che tutte le scelte facili sono alle nostre spalle. E i venti contrari del debito, dell’inflazione e della recessione ci stanno colpendo violentemente. Il “disfacimento” del sistema è già presente sotto forma di debolezza governativa e istituzionale: al “sistema” è mancata la volontà di prendere decisioni difficili quando poteva farlo. Le scelte facili erano ancora disponibili, e la via più facile era invariabilmente quella scelta.

Le élite avevano assorbito l’etica egocentrica e viziata della “generazione dell’io”. La Classe Permanente si concedevano tutto, rinunciando a qualsiasi preoccupazione per i propri “peones”, profondamente disprezzati. Hanno portato la crisi attuale su di sé. Hanno spazzato via duecento anni di responsabilità finanziaria in circa 20 anni.

Tuttavia, è quello che è – ed è a questo punto che ci troviamo. E anche se ora si capisce sempre di più che l’Occidente non può continuare ad andare avanti come se “tutto andasse bene” – anche se i Governanti cercano di continuare a stampare denaro, a fare salvataggi e a far sì che la narrazione mediatica cancelli i loro errori – essi percepiscono la crisi, l’imminente “Svolta”.

In parole povere, questo costituisce il paradosso: è già evidente che continuare a fare ciò che le élite occidentali stanno facendo in Ucraina sfiora la definizione di follia (continuare a ripetere la stessa cosa, con la sola convinzione che “la prossima volta” il risultato sarà diverso). La questione che “pende” è l’impossibilità di “fare altro”…

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La narrativa patologica della “guerra hollywoodiana” – Davide Malacaria

…Glorificata come sicuro pegno di successo, la vittoria di Kharkiv, nei resoconti mediatici, faceva presagire che la controffensiva di primavera (poi diventata estiva) sarebbe stata un sicuro successo. Non è andata così.

E gli analisti e i cronisti che hanno versato fiumi d’inchiostro per vergare quei pareri e quegli articoli ora che le cose vanno decisamente male, invece di ammettere l’errore madornale, che ha ingannato l’opinione pubblica e permesso ai falchi di forzare la controffensiva nonostante non ci fossero le forze necessarie, sono semplicemente silenti.

Il massacro che si sta consumando al fronte, con migliaia di vittime ucraine, non gli interessa affatto. Basta dare uno sguardo ai due media mainstream per eccellenza, il Washington Post e il New York Times, per averne un’idea.

Se in precedenza l’Ucraina dominava le notizie, per avere informazioni sulla stessa ora bisogna scorrere i titoli secondari e forse vi s’intravede un articoletto.

In una nota precedente, nella quale tracciavamo un parallelo tra la guerra ucraina e quella afghana, riportavamo quanto scriveva David Sacks, cioè che i media hanno martellato sulla guerra afghana per due decenni, raccontandone i grandi successi Usa.

Poi, a un certo punto, le bugie sono emerse in tutta la loro plasticità e l’esercito afghano, costruito dagli Stati Uniti a suon di dollari (miliardi su miliardi… ricorda qualcosa?), è collassato e Kabul è caduta in mano ai talebani.

“A quel punto, i media hanno semplicemente smesso di parlare dell’Afghanistan”, annota Sacks. Esattamente quel che sta accadendo per la guerra ucraina…

Certo, la guerra non è ancora finita, siamo solo in un momento di pausa, ma tutto ciò rende l’idea di come funzionino certe dinamiche malate. I cronisti e gli analisti caduti in quell’errore madornale – per salvarne la buona fede – prima o poi torneranno a raccontare la guerra. Con l’attendibilità pregressa…

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Perché le sanzioni alla Russia non funzionanoFulvio Scaglione

Siamo arrivati al decimo pacchetto di sanzioni, ma sulla loro efficacia ormai anche la stampa più ostile a Mosca mostra seri dubbi. La crescita dei BRICS e il ruolo degli intermediari. E se Putin avesse voluto la guerra proprio per staccarsi dall’Occidente?

Il 25 febbraio scorso, il Consiglio europeo ha varato il decimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, colpendo altre 87 persone (banchieri, politici, funzionari, giornalisti…) e 34 entità, portando così il totale dei sanzionati a 1.473 persone e 205 entità. A questo si sono aggiunte, ovviamente, ulteriori misure di tipo economico, per esempio il divieto di importare dalla Russia bitume, asfalto e gomme sintetiche o di esportare in Russia bussole, radar, gruppi elettrogeni, quadri elettrici di controllo, motori diesel e impianti industriali. Come si vede (e come peraltro aveva detto in marzo anche Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza), si sta raschiando il fondo del barile, dopo le migliaia di provvedimenti adottati dal 24 febbraio 2022, che peraltro andavano ad aggiungersi a quelli già presi dopo la riannessione della Crimea nel 2014.

Forse anche per questo, in quello stesso periodo anche la stampa mainstream (definizione orrenda ma utile a capirsi) ha cominciato a chiedersi se innumerevoli sanzioni adottate in così breve tempo contro la Russia stessero dando i frutti sperati. The Spectator, Forbes, Corriere della Sera, BBC… E la risposta è stata sempre più spesso uno sconsolato no. Per un po’ l’ottimismo sull’effetto delle sanzioni è stato obbligatorio, quasi un dogma. D’altra parte a garantire in proposito erano personaggi stimati e autorevoli, ai quali era difficile non dare fiducia. L’allora premier Mario Draghi, per esempio, che di economia capisce, nella primavera scorsa disse che le sanzioni avrebbero dispiegato tutto il loro peso in estate, cosa che non pare sia avvenuta. Ma che qualcosa non funzionasse lo si poteva intuire dalla sostanziale vaghezza degli obiettivi che con quei provvedimenti ci si prefiggeva.

Il 1° marzo del 2022, ovvero all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, il ministro francese delle Finanze Bruno Le Maire disse: “Provocheremo il crollo dell’economia russa”. La prima, e più clamorosa, delle previsioni sbagliate. Via via si è detto un po’ di tutto. Che con le sanzioni avremmo bloccato o frenato la macchina da guerra del Cremlino, e non è successo: l’industria bellica russa è tuttora in grado di produrre 60 missili a lunga gittata al mese e, pare, mille carri armati l’anno. Che le difficoltà di vita, provocate appunto dalle sanzioni, avrebbero spinto la popolazione russa a rivoltarsi contro Vladimir Putin, e non è successo. E anche, in maniera più immaginifica, che l’isolamento economico internazionale avrebbe spinto la Russia ancor più nelle braccia della Cina, che a sua volta avrebbe puntato a mediare una pace in Ucraina. Dimenticando che alla Cina, già impegnata in un braccio di ferro globale con gli Usa e i loro alleati, tutto può far comodo tranne che una Russia sconfitta.

È ovvio che le sanzioni hanno colpito l’economia russa, e non poco. Le esportazioni russe di gas sono scese di quasi il 50% e quelle di petrolio del 60%, ovvero si sono assottigliate le travi che reggono le sorti del bilancio dello Stato. Che infatti, nei primi cinque mesi del 2023, ha mostrato un deficit pari a circa 40 miliardi di euro. Le riserve della Banca centrale di Russia, che erano a quota 640 miliardi prima dell’invasione, sono scese a 580, con 300 miliardi però bloccati nei conti occidentali, appunto per le sanzioni. I prezzi al consumo aumentano. E così via. Le difficoltà sono notevoli. Nulla, però, che arrivi neppure vicino al “crollo dell’economia russa”, o a fermare la guerra con l’Ucraina o a sollevare i russi contro il Cremlino.

Alla radice dell’insuccesso stanno diversi fattori, che proviamo qui a elencare. Il primo è l’analisi delle decisioni prese da Putin e dal suo gruppo di potere. L’invasione del 2022 è stata letta, in generale, come il delirio di una leadership violenta, impegnata a resuscitare un mai davvero sepolto imperialismo vetero-sovietico. In qualche caso, come il colpo di testa di un uomo malato. E se invece lo scopo vero dell’invasione fosse non tanto (o comunque non solo) prendersi un po’ di territori ucraini con la loro parte di popolazione russofona, ma proprio sganciarsi da certe “servitù” occidentali? Non dover più importare dall’Europa il 90% dei semiconduttori o dipendere dal mercato europeo del gas e del petrolio per sostenere il bilancio? Assurdo? Azzardato? Forse, ma in proposito conta il giudizio del Cremlino, non il nostro. Qualcuno ricorderà che Ursula von Der Leyen sei mesi fa disse che i russi cannibalizzavano frigoriferi e lavatrici per cavarne i microchip da utilizzare per gli armamenti. Lo direbbe ancora, oggi?

La seconda considerazione è in qualche modo collegata alla precedente: si ha l’impressione che le cancellerie occidentali facciano riferimento a un ordine economico mondiale che in realtà è almeno in parte tramontato. Le riunioni del G7 (Usa, Canada, Giappone, Francia, Regno Unito, Germania e Italia) creano una grande eco mediatica. Ma mentre alla fine degli anni Ottanta il G7 rappresentava quasi il 70% del Pil mondiale, oggi è sotto il 45% ed è stato superato dai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che in agosto peraltro dovrebbero accogliere anche Arabia Saudita e Iran, con la Turchia in lista d’attesa. E il Pil della Cina, secondo tutte le previsioni, si appresta a sua volta a superare quello degli Usa. Nomi di Paesi che aiutano a capire un altro fatto: l’alleanza delle democrazie sviluppate ha perso anche in capacità di traino e convinzione. Ciò che esse decidono, le loro scelte strategiche, i valori a cui si ancorano, non diventano più, automaticamente, patrimonio di tutte le nazioni. E infatti nessuno dei Paesi nominati ha aderito alle sanzioni contro la Russia. Il che (terza considerazione) riduce in briciole le argomentazioni di coloro che dicono: le sanzioni funzionerebbero se fossero davvero applicate da tutti.

È vero, le sacche di inadempienza ci sono e sono importanti. Secondo la società norvegese di consulenza alle aziende Corisk, che ha analizzato i dati delle dogane di dodici Paesi della Ue più Norvegia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone, nel 2022 merci per 8,5 miliardi di dollari sono state avviate verso la Russia in barba alle sanzioni sull’export. E i due Paesi più inadempienti, tra quelli analizzati, sono Germania e Lituania. Il sistema, peraltro legale, è noto: le aziende non mandano le merci in Russia ma in Kazakistan, Georgia, Armenia, Kirghizistan, Turchia: cioè in Paesi che non applicano le sanzioni contro Mosca. Poi, da lì, a prezzo ovviamente maggiorato, raggiungono la Russia. E il punto è proprio questo: se tanti Paesi non concordano con le sanzioni, come si può pensare che queste funzionino? Chi può pretendere di isolare la Russia se c’è una breccia così larga?

Ma il problema dei problemi, alla fin fine, è sempre quello: non si capisce bene quale sia il fine ultimo delle sanzioni. A lume di ragione, il vero obiettivo dovrebbe essere far cadere il regime preso di mira, oppure spingerlo a cambiare le sue politiche. E questo, siamo onesti, non avviene praticamente mai. Non è successo con gli ayatollah dell’Iran, con Bashar al-Assad in Siria, con i Castro a Cuba, con la Russia di Putin, con la Bielorussia di Lukashenko, con l’Afghanistan dei talebani, con la Corea del Nord di Kim Jong-un, con il Libano di Hezbollah, con la Cina di Xi Jinping. E nemmeno con il poverissimo Yemen della rivolta houthi. Se si consultano le pagine del ministero italiano delle Finanze (per le sanzioni europee) o quelle del Dipartimento del Tesoro Usa, si scopre che mezzo mondo è sotto sanzioniE il risultato politico tuttora scarseggia.

Non va invece trascurato un altro esito della strategia sanzionatoria. Per una quasi inevitabile eterogenesi dei fini, i regimi che si vorrebbe azzoppare quasi sempre escono rafforzati. Pensiamo all’Iran, sotto sanzioni in pratica da cinquant’anni, cioè dal 1978 della Rivoluzione islamica e della presa di ostaggi all’ambasciata americana, e poi anche per il nucleare. Pensiamo alla stessa Russia, che non è mai stata così sanzionata ma che comunque si portava appresso persino sanzioni decise ancora in epoca sovietica. Scaricandosi assai più sulla popolazione che sulle leadership, le sanzioni vengono percepite come un’aggressione esterna e generano rigurgiti nazionalisti che vanno a tutto vantaggio del regime di turno. Al resto provvedono le leggi repressive che vengono prese anche in nome della reale o presunta aggressione esterna. Se qualcuno ancora crede che colpire il popolo serva a mettere in crisi il re, farebbe bene a guardarsi intorno, perché succede più spesso il contrario: colpire il popolo aiuta il re. È venuto il momento di trovare qualcosa di più adatto al mondo contemporaneo e di più efficace.

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Gli avvoltoi sopra l’Ucraina – Matteo Bortolon

Nei giorni del 22 e 23 giugno si è tenuta la Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina di Londra. Come abbiamo dato conto su queste pagine, ci sono state diverse iniziative internazionali di questo genere, di carattere bilaterale (vertice in Olanda, in Francia, in Germania, e anche in Italia) fra cui spicca l’analogo meeting dell’estate scorsa. I termini del problema restano quelli che abbiamo potuto delineare precedentemente. Accanto allo “sforzo bellico” di assistenza militare dai paesi della NATO si è avviato un processo di finanziamento dell’Ucraina che va in continuità con i prestiti forniti dal Fondo monetario internazionale, dagli Usa e dalla Ue dal 2014 fino ad oggi, incluso il periodo che vede il paese in guerra con la Federazione Russa.
Il prezzo di questo è stato una serie di riforme di carattere neoliberale, nella miglior tradizione delle istituzioni finanziarie interne all’egemonia statunitense.Con l’inizio della “operazione speciale” russa il processo si è ulteriormente accelerato; come è prassi consolidata la situazione emergenziale consente all’esecutivo di portare avanti con maggior vigore gli adeguamenti alla logica del mercato più marcatamente opposti agli interessi popolari e dei lavoratori. La prospettiva – a dire il vero assai più incerta di quanto non facciano supporre le roboanti dichiarazioni di politici occidentali – di entrare a far parte della Ue si salda con quella della ricostruzione, il ridisegno liberista dell’assetto interno si tinge di fervore europeista, mentre deve per prima cosa garantire i profitti agli investitori. Si prefigura quella forma di “capitalismo dei disastri” in cui gli eventi distruttivi diventano la benzina di nuovi profitti, derivanti tsia ai redditi attesi per la ricostruzione, quanto dalla creazione di nuovi mercati privati aperti dallo stato di emergenza.
Il problema resta sempre quello: chi paga? I fondi del FMI e degli “Stati amici” non bastano: si è calcolato che solo il primo anno di guerra abbia causato danni per 411 miliardi di $.
In attesa di vedere cosa è emerso di concreto da Londra, pochissimi giorni prima è arrivata una notizia che forse può darci un indizio. Il 19 giugno il Financial Times ha riportato la notizia che BlackRock e JPMorgan stanno aiutando Kiev a costruire una banca per la ricostruzione per convogliare i fondi ottenuti ed attirare altri investimenti privati, col sostegno di consulenti di McKinsey.
Il coinvolgimento di simili pilastri del neoliberismo più distruttivo era già nota; in particolare JPMorgan aveva collaborato con Kiev come intermediario per la collocazione dei suoi titoli e per la ristrutturazione del suo debito. BlackRock era stato ingaggiato a novembre scorso come consulente.
Lo scopo di questo nuovo ente, che pare non debba essere costituito fino alla fine delle ostilità, sarebbe di usare i fondi di Stati e organizzazioni internazionali come base per raccogliere capitali privati, attendendosi una liquidità cinque volte maggiore di quelli pubblici.
L’operazione non pare agevole; cosa li convincerà? Un fattore che è possibile ipotizzare consiste nella promessa di sfruttamento delle risorse del paese. Su questo Kiev pare essersi buttata a pesce, vista la sua campagna pubblicitaria diretta agli imprenditori promettendo le migliori condizioni possibili.
L’altra possibilità è la costruzione di una architettura finanziaria capace di convogliare i soldi di piccoli investitori di livello familiare. In questo caso una risorsa simbolica importante sarebbe la vasta campagna sull’Ucraina come un paese vittima e che è un dovere aiutare, il che si tradurrebbe nelle garanzie pubbliche per coprire eventuali perdite subite dai privati. Meccanismo tipico delle partnership pubblico-privato, profittevole solo per quest’ultimo.
Ovviamente chi gestirà il processo avrà uno sguardo privilegiato sulle risorse più profittevoli e potrà adoperare tali conoscenze per macinare profitti. Da JPMorgan fanno sapere che sono già stati individuati i settori prioritari su cui investire. Sarà interessante capire i criteri per tale scelta. Di sicuro non sarà stata una decisione del popolo ucraino, stretto fra guerra e neoliberismo. Con gli avvoltoi della finanza che già sorvegliano attentamente la situazione.

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In Ucraina. Il Pd fomenta una guerra che sarà la sua tomba. Che farà Elly? – Alessandro Orsini

Il paradosso del Pd è di fomentare una guerra che rappresenta la sua tomba. Per chiarire il significato di quest’affermazione, partirò dall’epicentro della crisi, Elly Schlein, iniziando dalla questione antropologico-culturale. Antropologicamente, Schlein è una movimentista-idealista che perderebbe la motivazione a impegnarsi come segretaria se fosse costretta a perseguire politiche altrui che peraltro avversa. Una gregaria come Lia Quartapelle può resistere a lungo in una condizione afflittiva di questo tipo. Dovendo semplicemente premere il tasto “sì” da uno scranno, non espone la “faccia” che coinvolge il sé, cioè l’identità. Le cose stanno diversamente per un segretario di partito. È psichicamente destabilizzante per Schlein vedersi in televisione tutti i giorni a dire cose in cui non crede sulla questione più importante del mondo, la guerra in Ucraina. Una cosa è mentire ogni tanto su La7 con il mondo che ti ignora come accade alla semi-sconosciuta Quartapelle; altra cosa è negare la propria antropologia tutti i giorni davanti alle telecamere con il mondo che ti scruta. Il che mi consente di passare dal problema antropologico a quello culturale.

Culturalmente, Schlein non è una pacifista, bensì una pacifista radicale. Devo indugiare su questa differenza per chiarire la crisi in cui il Pd si dibatte e da cui è atteso. Per comodità espositiva, distinguo i pacifisti in “moderati” e “radicali”. I pacifisti moderati si battono contro le politiche che accrescono le probabilità della guerra – quelle che chiamo “politiche criminali” – ma sono favorevoli all’industria militare poiché pensano, come il sottoscritto, che l’Italia, senza armi, farebbe la fine dell’Ucraina un giorno o l’altro. È la scuola italiana di Machiavelli, Mosca, Pareto e Michels – iniettata negli Stati Uniti da James Burnham con il suo The Machiavellians (1943) – confluita nella tradizione americana di Morgenthau (1948), Waltz (1979) e Mearsheimer (2001). I pacifisti moderati usano il realismo per alleviare le tensioni che causano le guerre o prevenirle. I pacifisti radicali, invece, sono per il disarmo. È il caso di Schlein: “Io vengo dalla cultura del disarmo. La pace in Ucraina non si fa con le armi. Sosteniamo l’accoglienza, sbagliato aumentare le spese militari”, dichiarava a Repubblica il 18 marzo 2022.

Se Schlein sarà costretta a inviare le armi in Ucraina, perderà la motivazione, cioè l’energia che mette in moto l’uomo, tanto più che la linea bellicista dell’Unione europea è un fallimento solare. La motivazione è decisiva: se gli individui smettono di agire, i sistemi sociali cessano di esistere. Il fatto che i bambini ucraini stiano pagando a caro prezzo l’inanità di Ursula von der Leyen scava nella carne di una pacifista radicale come Schlein. Persa la motivazione, che cosa farebbe Schlein? La conseguenza è immaginabile: farà una serie di mosse suicide per morire pubblicamente (come segretaria) e sopravvivere interiormente (come donna). Schlein è morta se vive come Bonaccini. La prima è una pacifista radicale; il secondo è un opportunista senza ideali. Anche Bonaccini ha i propri valori, ma sono quelli delle lobby della guerra.

Vengo all’ultima questione: quali sono gli sbocchi possibili della crisi del Pd? A mio giudizio, sono quattro. Il primo è la fine della guerra, che però il Pd alimenta. Il secondo è la fuoriuscita dei deputati che votano in base alle indicazioni di Biden e non di Schlein, come Pina Picierno. Il terzo sono le dimissioni di Schlein. Il quarto è una convivenza esiziale. Più la guerra andrà avanti, più il Pd andrà indietro.

da qui

 

 

Recentemente, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha dichiarato che gli Stati Uniti non si oppongono all’attacco delle truppe di Kiev alla Crimea, in quanto la considerano parte dell’Ucraina.

da qui

 

 

Gli Stati Uniti condannano il divieto dei talebani di coltivare l’oppio in Afghanistan.

L’American Institute of Peace ha dichiarato che il divieto è negativo sia per l’Afghanistan che per il mondo in generale. Rimarrete scioccati, ma le argomentazioni sono le seguenti (sembra un’opera orwelliana):

Il proibizionismo “non è una vittoria sulla droga”.

L’enorme perdita finanziaria, almeno un miliardo di dollari, “renderà i produttori di droga ancora più poveri.”

Sostituire il papavero con il grano non è redditizio perché il grano è una coltura di scarso valore e, attenzione, “un cattivo sostituto dell’oppio.”

Il proibizionismo porta a un aumento del prezzo dell’eroina in Europa e a molte falsificazioni della sua purezza.

https://t.me/s/nicolaililin

qui l’articolo originale

 

 

Guerre, armi, logica dei blocchi

Due interventi di Franco Astengo

Guerre e armi

La guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina occupa ormai da mesi stabilmente le prime pagine (cartacee, televisive, social) di tutte le testate: ogni tanto fa capolino anche la situazione del Sud con qualche sporadico accenno alla Libia. Eppure sono tanti i fronti bellici aperti nel mondo. Vale sempre la pena ricordarli pur nell’indifferenza generale ed è il caso anche di ricordare l’aumento esponenziale per le spese di armamento proprio nel momento in cui l’Unione Europea sta decidendo di spostare in quella direzione i fondi già destinati a quel Piano (Next Generation Eu) che avrebbe dovuto sviluppare un tentativo di aiuto alle economie colpite dalla crisi del COVID e provvedere anche alle tante magagne ambientali e infrastrutturali che affliggono il vecchio continente.

Le guerre

Andando per ordine qui vediamo una lista più dettagliata dei conflitti che – seppur con tregue provvisorie e momenti di pace – continuano ad infiammare tantissime regioni del pianeta.

Guerra in Ucraina (Donbass dal 2022; Crimea dal 2014)
Crisi in Yemen (dal 2011)
Guerra civile in Somalia (dal 1991)
Scontri etnici in Sudan (dal 2011)
Guerra del Darfur (dal 2003)
Conflitto dell’Ituri; Congo (dal 1999)
Narco-guerra in Colombia (dal 1964); dal 2021 vi sono anche scontri e atti di guerriglia al confine con il Venezuela.
Guerra nel Mali (dal 2012)
Guerra del Kashmir tra India e Pakistan (dal 1947)
Guerre separatiste in India (dal 1954)
Guerra civile nella Repubblica Centro Africana (2012)
Guerra jihadista di Cabo Delgado; Mozambico (dal 2017)
Guerra curdo-turca (dal 1984)
Ribellione comunista nelle Filippine (dal 1964)
Conflitto Israele-Palestina (dal 1948)
Crisi in Camerun (dal 2017)
Crisi libica (dal 2011)
Crisi Nigeriana
La guerra interna del Myanmar
La narco-guerra del Messico
Guerra in Afghanistan (resistenza Panishj)
La guerra civile siriana
Guerra civile del Tigray e Fronte di Oromo (Etiopia)

Riarmo

Come ha riportato l’Economist nel 2022 la crescita della spesa per armamenti a livello mondiale è cresciuta del 4%. In termini reali di più di 2 miliardi di dollari.
Il numero di paesi NATO che hanno già raggiunto l’obiettivo del 2% di spesa militare sul PIL e passato da 3 nel 2014 a 7 nel 2022 e ormai si può considerare questo obiettivo un “a floor,not a celling”: un punto di partenza e non di arrivo.
La Polonia punta a raggiungere il 4% entro quest’anno e a raddoppiare le dimensioni del suo esercito.
La Francia aumenta gli investimenti nei sistemi di difesa cibernetici, spaziali e sottomarini mentre Macron parla di “economia di guerra”.
La Germania punta a superare il tetto del 2%.
Il Giappone prevede di aumentare a 51,4 miliardi di dollari le spese militari facendo registrare una crescita del 26,3% rispetto al 2022.
Nel frattempo le spese militari dell’India sono cresciute del 50%: eguale percentuale per l’eterno nemico indiano, il Pakistan (che dispone dell’armamento atomico).
Il budget della difesa cinese è aumentato del 75% nell’ultimo decennio.
L’Algeria (quella degli accordi con l’Italia per il gas) ha siglato un accordo con la Russia per una fornitura di armi per 12 miliardi di dollari, aumentando le spese del 130 per cento.
Si rileva infine smentendo i luoghi comuni e come spiega “The job opportunity Cost War di Heidi Garret Peltier” un milione di dollari di spesa militare crea meno posti di lavoro rispetto alla stessa spesa in altri nove settori.
La spesa che crea più posti di lavoro è quella per l’istruzione elementare e secondaria con 19,2 posti per un milione di dollari.
In compenso la spesa militare è quella che crea maggiori profitti per alcuni settori industriali e relativi “pezzi” di politica che li sostengono.

Riflettendo sulla situazione russa. Logica dei blocchi, impegno per la pace

Mi permetto di avanzare uno spunto di riflessione con il solo scopo di aprire una discussione di merito circa la confusione situazione in corso in Russia.

Se è possibile che il tentativo in atto da parte dei mercenari della Wagner faccia parte di un piano di sovvertimento del potere in Russia (come hanno segnalato già da qualche tempo fonti autorevoli come Financial Times o “Economist”) il rischio è – come sempre segnalato da diversi autorevoli commentatori – di un inasprirsi delle condizioni di ricostruzione di una logica dei blocchi.
Logica dei blocchi fondata sull’ accerchiamento diretto della Cina.

Una valutazione sensata tanto più che le tensioni in Russia arrivano, “quasi simbolicamente poche ore dopo che Stati Uniti e India”, in occasione della visita del premier Narendra Modi alla Casa Bianca, “hanno sancito una nuova alleanza in funzione anti-cinese” e “l’indebolimento della Russia rafforza il nuovo asse Usa-India”.

Non solo. C’è la questione nordcoreana con Pyongyang che “si appoggiava sia alla Cina che alla Russia e che ora resta senza quest’ultima”, osserva ancora mentre crescono i timori della comunità internazionale per i test missilistici e il programma nucleare della Corea del Nord.
Le conseguenze di quanto accade in Russia arrivano al Medio Oriente, dove “tutti gli equilibri potrebbero essere scossi”, all’Iran e molti ricordano come la Repubblica Islamica si sia “esposta molto con l’invio di droni, armamenti, aiuti” da quando è iniziato il conflitto in Ucraina e come oggi “sia molto più sola”. Si riflette anche sulla Siria,e a “tutte le forze filo-iraniane” nel Paese arabo, e non solo, dove Russia, Turchia e Iran sono state protagonisti di questi dieci anni di caos e guerra dopo l’inizio, nel 2011, di proteste antigovernative presto nella repressione e in un lungo e sanguinoso conflitto.

Di fronte al rischio di un rinnovarsi dello scontro “Mondo libero” vs “Impero del Male” risalta così la necessità di un impegno pacifista che si rifletta immediatamente a livello europeo con l’obiettivo di non far coincidere l’UE con il sostegno alla logica bellicista imperante (in pratica il tema della coincidenza NATO/UE) e l’avanzamento di proposte concrete di smilitarizzazione, richiamo all’ONU, visione internazionalista rispetto ad un complesso di logiche “nazionaliste” rischiosissime per la pace e soprattutto per l’equilibrio atomico, ricordando anche diversi focolai di guerra aperti nel mondo.

 

 

*Moloch

Antica divinità cananea, cui venivano sacrificate vittime umane nella valle di Hinnom (Geenna) presso Gerusalemme e il cui culto fu fortemente combattuto dai profeti e nella storiografia d’Israele.

In senso figurato, persona o istituzione caratterizzate da una insaziabile sete di distruzione o da potere brutale.

da qui

Redazione
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Un commento

  • da parte di Alfonso Navarra – coordinatore dei Disarmisti esigenti (cell. 340/0736871)
    CONTRO LA GUERRA QUINDI CONTRO L’INVIO DI ARMI AI BELLIGERANTI. E PER SCIOGLIERE LE ALLEANZE MILITARI.
    IL GENIO DEL CONFLITTO ARMATO, LIBERATO DALLA BOTTIGLIA, VA RICHIUSO SUBITO DENTRO PER MINIMIZZARE I MOSTRI CHE GENERA

    SERVE L’AZIONE CONGIUNTA DELLA DIPLOMAZIA POPOLARE E DELLA MOBILITAZIONE DELL’OPINIONE PUBBLICA

    Gli ultimi sviluppi della guerra in Ucraina sono stati caratterizzati dalla grave crisi in Russia provocata dalla ribellione armata, rientrata per una “mediazione bielorussa”, del gruppo mercenario Wagner, che ha marciato verso la capitale Mosca, minacciando un colpo di Stato. E’ il rischio del genio della guerra quando viene tirato fuori dalla bottiglia: può dare vita ad eventi destabilizzanti che rischiano di mettere fuori controllo le armi nucleari implicate.

    La “deterrenza” tanto agognata nella logica della potenza è, ribaltando la definizione ufficiale della NATO, da considerare comunque la “suprema garanzia di insicurezza”. Il rischio di una disseminazione “atomica” oggi colpisce la Russia, squassata da contraddizioni interne al regime; ma qualsiasi potenza nucleare, compresi gli USA, è vulnerabile rispetto ai conflitti interni. L’ex presidente Trump è stato incriminato per i documenti classificati portati nella sua villa privata a Mar-a-Lago (perfino carte sulle capacità nucleari non solo dell’America ma anche di Paesi stranieri) ed ha ispirato un assalto al Congresso USA (6 gennaio 2021) che ha per molti aspetti il profumo della insurrezione di Prigozhin.

    Il conflitto in Ucraina, per usare una metafora, è oggi una grave crisi cardiaca del sistema delle relazioni internazionali; ma qualsiasi conflitto ha potenzialità per innescare escalation incontrollate capaci di condurre al collasso della civilizzazione umana.

    L’antidoto a tutto ciò è semplice a dirsi ma ovviamente più difficile a farsi: occorre espellere la guerra dalla Storia, come prospettato dallo Statuto dell’ONU, cominciando con l’eliminare la “deterrenza”, già indicata come illegale dal Trattato di proibizione delle armi nucleari.

    Nel frattempo la miccia accesa nella santabarbara ucraina va spenta ed al risultato può contribuire solo un movimento ecopacifista indipendente nella visione, nella strategia e nei mezzi: un movimento che si proponga come “defibrillatore politico” per il conflitto in corso in Europa, che – lo sottolineiamo – può unificare la “guerra mondiale a pezzetti” (copyright Papa Francesco).

    Non servono, a questo scopo, posizioni ed iniziative che parlino di fermare la guerra senza nominare la NATO o, al contrario, con miopia speculare, di superare la NATO senza citare la guerra in Ucraina, che è – e non poteva essere diversamente – al centro del prossimo vertice atlantico di Vilnius (11-12 luglio 2023).

    La diplomazia popolare dal basso deve trovare momenti più focalizzati e accorti del vertice pacifista di Vienna, organizzato principalmente dall’International Peace Bureau il 10 e 11 giugno, occasione persa solo per chi si illude sulla reale funzione attiva di certe ONG subalterne che si limitano a recitare la loro parte in commedia.

    A livello di mobilitazione di base, tale impegno, che abbiamo sintetizzato nella formula Sachs+Ferrajoli (nota 1), ha contemporaneamente da rilanciare o rimettere in carreggiata strumenti come la campagna internazionale per gli obiettori russi e ucraini; e in Italia il referendum e l’obiezione alle spese militari convergente con l’opzione fiscale di SEI PER LA PACE SEI PER MILLE.

    Ne discutiamo su Zoom con i Disarmisti esigenti che, martedì 27 giugno alle ore 18:00, invitano alcuni testimoni diretti all’incontro di Vienna.

    La riunione sarà registrata sulla piattaforma web di Radio Nuova Resistenza.

    Entra nella riunione in Zoom

    https://us06web.zoom.us/j/83316323959?pwd=dTVreXJLQXFzdVNrTUp0aVpZUzdJUT09

    Nota 1:

    La formula Sachs+Ferrajoli è l’idea di tentare una integrazione tra l’approccio e le proposte di Jeffrey Sachs, economista USA della Columbia University molto noto a livello internazionale, e quelle di Luigi Ferrajoli, promotore della Costituente della Terra. Secondo Sachs potrebbe risultare decisivo, ai fini di una soluzione politica del conflitto che si combatte sul territorio ucraino, il ruolo delle “nazioni neutrali”, a partire dai colossi BICS (Brasile, India, Cina e Sudafrica).

    Potrebbero smuovere il segretario generale dell’ONU e quindi fare convocare quella sessione permanente dell’Assemblea a New York che prospetta Luigi Ferrajoli. Si potrebbe redigere un appello in tal senso.

    Poi sarebbe anche il caso che ICAN, rete in cui è fortissimo il protagonismo femminile, non si limitasse a manifestare solo preoccupazioni. La società civile che ha coinvolto un centinaio di Stati per la proibizione delle armi nucleari è strano che non abbia niente di significativo da dire quando è in corso una guerra in cui è stato esplicitamente minacciato l’uso di esse e che vede l’escalation nucleare tra gli scenari plausibili…

    ICAN dovrebbe quindi essere coinvolta nella promozione dell’appello…

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