2006: incontro con Marc Augé sulle banlieue

di KARIM METREF

Marc Augè, già direttore degli studi presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, è considerato uno dei più innovativi antropologi contemporanei. Ha dedicato molto tempo allo studio delle culture africane prima di specializzarsi nell’antropologia della modernità.

Tra le sue opere più note figurano “Non luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità” (Eleuthera, 1993), “Rovine e macerie. Il senso del tempo” (Bollati Boringhieri, 2004) e “Perché viviamo” (Roma, 2004).

MArc Augé a Torino nel 2006

MArc Augé a Torino nel 2006. Foto K. Metref

Marc Augè è stato invitato a Torino in occasione della manifestazione “Torino Spiritualità” il mercoledì 20 settembre 2006. Durante l’evento, ha partecipato a due momenti significativi: la mattina, alle 9.30, ha preso parte a un convegno dal titolo “Diversità religiosa e modelli di convivenza”. La sera, alle 21, nel suggestivo cortile di Palazzo Carignano, ha dialogato con Sergio Cofferati sul tema “Il segnale delle periferie francesi”.

In questo ultimo incontro, il moderatore, in questo caso il giornalista Aldo Cazzullo, ha subito portato la discussione sul tema delle rivolete del 2005 (1) e della gestione e dell’integrazione dell’immigrazione.

Alla fine dell’incontro, lo abbordai molto facilmente e chiesi di fare una intervista per conto della fu rivista Carta- Cantieri Sociali. Accettò volentieri e la mattina seguente ci siamo ritrovati comodamente seduti nella Hall di un piccolo albergo del Centro di Torino a parlare del più e del meno.

Io, da parte mia, avrei preferito parlare con Marc Augè di altri argomenti che non riguardassero solamente l’insurrezione delle banlieue del 2005. Negli ultimi mesi, l’antropologo degli spazi urbani più famoso è stato spesso chiamato in Italia, e immagino che stia iniziando a pensare che l’esplosione delle periferie di Parigi e Lione abbia avuto un impatto maggiore a Roma, Milano e Torino che in Francia stessa. Ma la stanchezza di sentire trattare il problema delle periferie francesi come se fosse solo una questione di “gestione dell’immigrazione” mi spinge a interrogarlo, anche io, su questo tema, per chiedere se è veramente così. ciò che mi raccontò allora, 17 anni fa, rimane di una sconvolgente attualità e aiuta, a mio parere a leggere le rivolte recenti.

L’INTERVISTA

D:  Signor Augé, vorrei iniziare questa conversazione trattando uno dei temi su cui è stato interpellato ieri durante l’incontro con Sergio Cofferati, ovvero il problema delle periferie.
Qui in Italia, l’insurrezione delle periferie francesi è stata presentata come un problema di gestione dell’immigrazione. Le destre più o meno xenofobe hanno sfruttato ampiamente l’evento, dipingendolo come un pericolo legato all’immigrazione, mentre la sinistra ha reagito affermando che in Italia non esiste tale pericolo perché l’immigrazione viene gestita in modo diverso. Tuttavia, nessuno si è realmente chiesto se il problema fosse effettivamente legato all’immigrazione e all’integrazione delle diverse culture, come veniva presentato, oppure se ci fosse altro dietro.
Quindi, le rivolte delle banlieue erano realmente un problema di integrazione dell’immigrazione? Vorrei sentire il suo punto di vista su questo.

R: “No, non direttamente. Credo che l’esplosione delle periferie sia un fenomeno di lunga durata. Coinvolge principalmente ragazzi molto giovani che manifestano il loro isolamento, il loro malessere e cercano di esprimere la propria cultura o identità attraverso raggruppamenti più o meno violenti. Gli antropologi moderni hanno studiato questo fenomeno in modo abbastanza preciso e hanno da tempo sollevato l’allarme sulla pericolosità di tali fenomeni. Purtroppo, queste segnalazioni sono state ignorate dalla classe politica, sia di destra che di sinistra, per oltre trent’anni.
All’inizio, si tratta di ragazzini molto giovani che si incontrano fuori dagli orari scolastici, sotto casa, giocano insieme e passano il tempo. È un fenomeno che esiste in varie parti del mondo, nelle periferie. Si creano meccanismi di identificazione e rivalità tra vari gruppi che cercano di farsi notare competendo e talvolta scontrandosi. Alcune delle loro attività assumono un aspetto rituale o di manifestazione spettacolare verso l’esterno. Ad esempio, a Strasburgo, c’è il rituale delle macchine bruciate durante la notte di Capodanno. È un fenomeno che si è sviluppato nel tempo. Sono ragazzi molto giovani.
Tra di loro ci sono molti figli e nipoti di immigrati, ma non solo, con origini molto diverse.
Penso che il problema derivi da una sorta di “menefreghismo” politico nella gestione delle cosiddette periferie, che sono diventate concentrati di disagio sociale.
Ecco! Questi fenomeni improvvisamente hanno acquisito una dimensione insolita. Non c’erano rivendicazioni di tipo politico o culturale dietro. Funzionavano in un certo senso come movimenti con meccanismi di competizione ed emulazione dovuti all’immagine e alla mediatizzazione degli eventi. Ogni gruppo voleva fare meglio dell’altro gruppo nell’altra città.

Non dico che sia un fenomeno apparso dal nulla o fabbricato dai media. Il movimento è stato amplificato ma non è nuovo. Ogni settimana ci sono piccoli incidenti simili. È un’espressione di una rabbia accumulata su generazioni. La rabbia principale in questo caso era dovuta al rapporto con le forze dell’ordine. Ovviamente c’è stato un fatto scatenante. Questi due ragazzi morti sono lì. (1)

Parlano. Parlano principalmente delle forme e della natura della presenza della polizia in quei quartieri. Ritengo che sia la conseguenza di politiche successive di marginalizzazione che hanno fatto sì che la presenza dello Stato, cioè del “Centro”, nelle sue periferie sia espressa quasi esclusivamente attraverso la polizia. Considerando che la presenza poliziesca in Francia in genere è già abbastanza forte.

Basta circolare nel centro di Parigi in macchina e farti fermare per un banale controllo di routine per vedere con i tuoi occhi questa rudezza della Polizia francese. Questo mi lascia immaginare come questi poliziotti si comportano in quartieri dove c’è tensione e con ragazzi considerati come causa della tensione.
Quindi c’è un insieme di malesseri e di provocazioni che hanno portato a quegli eventi.

Io credo che il problema alla base rimette in causa la politica dell’istruzione pubblica, come applicata fino ad adesso, la politica della città e dell’urbanizzazione e poi la politica di quello che si può chiamare la mobilità sociale.
Sono le tre direzioni verso le quali bisogna guardare, secondo me. Per quanto riguarda il problema immigrazione, non si poneva. Quelli erano piccoli francesi.
Posso citare gli studi di un sociologo molto serio, Patrick Weil (2), su questo tema. Prima devo spiegare una cosa. Secondo la legge in vigore, la cittadinanza francese è ottenuta automaticamente per i ragazzi nati in Francia da genitori stranieri. Gli viene concessa all’età di 18 anni automaticamente e possono ottenerla anticipatamente a 14 anni se la chiedono con il consenso dei genitori, oppure a 17 anni se è il giovane a chiederla da solo. Però tra 18 e 19 anni possono anche rifiutarla.

I numeri citati nella ricerca di Patrick Weil sono molto interessanti. Nel 2002 ci sono stati tra 13 o 14 mila richieste anticipate e circa la stessa cifra di passaggi automatici. Invece c’è stato soltanto un centinaio di rifiuti. Vuol dire che c’è una buona base, direi.
Non c’è un problema di rifiuto della cittadinanza da parte di questi giovani. Il problema, caso mai, è proprio il contrario.

D: Ma come nascono queste ormai famigerate Banlieue francesi?

R: Sa come inizia la storia di queste banlieue? certe banlieue ovviamente, non tutte, ci sono le banlieue chic e quelle povere e noi qua parliamo di quelle povere ovviamente.
Comincia principalmente negli anni 70, tutti questi grandi complessi… Eravamo nello spirito del 68 si diceva: “lavoriamo nel paese, facciamo tutto nello stesso posto: fabbriche, case, servizi… C’era la “Cité Radieuse” di Le Corbusier (2) a Marsiglia etc… L’idea di partenza era quella di creare la città ideale con abitazioni e servizi a portata di mano. C’era dietro una forte volontà di migliorare le condizioni degli operai.

D: Erano sorti per sostituire i bidonville… no?

R: Sì sì, assolutamente! C’era un miglioramento notevole rispetto alla situazione di prima. Le case davano tutte le comodità. cosa alla quale fino ad allora l’operaio aveva raramente accesso.

Quello che è successo nel frattempo (faccio una semplificazione, ovviamente) è che l’industria ha cominciato a impiegare sempre meno gente. Gli immigrati, che nel frattempo hanno avuto anche il ricongiungimento famigliare, sono molto spesso passati dallo status di lavoratore straniero a quello di disoccupato straniero.

Questo ha cambiato la morfologia dei rapporti nella società. La paura della disoccupazione colpiva le parti della società più vulnerabili e meno attrezzate culturalmente, gli operai non specializzati.
Sono apparsi dei fenomeni di paura, di rifiuto dell’altro… La situazione più scomoda all’epoca era essere un immigrato nero o nordafricano disoccupato e vivere nella banlieue e quindi subire pressioni dei francesi terrorizzati dalla paura della disoccupazione o già disoccupati.
È lì che si sono formate immagini di certe categorie viste negativamente. Ed è anche lì che chi poteva è scappato dalla Banlieue e così si sono lasciati formare delle concentrazioni di povertà e di miseria urbana a Parigi, a Lione… forse meno a Marsiglia… non lo so perché.
Nonostante i grandi complessi, a Marsiglia non c’è stato niente durante il periodo delle sommosse…

Ma non centra niente con l’immigrazione, o almeno non più perché gli insorti erano piccoli francesi da almeno due generazioni. Il problema è un problema nazionale di dimensioni sociale, urbanistica e educativa.

D. Ma allora, quando mi descrive questa situazione, mi chiedo se posso citare un caso del tutto simile che è avvenuto in Italia, a Scampia, vicino a Napoli, qualche mese fa. Si è verificata una rivolta da parte di padri, madri e vicini di due ragazzi che erano stati seguiti da una pattuglia dei carabinieri dopo aver rubato un motorino.
La folla ha attaccato le forze dell’ordine con sassate.
Anche in questo caso, molti hanno affermato di essere stanchi del fatto che lo Stato si interessi a loro e ai loro figli solo attraverso le operazioni di polizia.
Perciò, secondo lei, questi due episodi possono essere considerati simili?

R: Si, ha fatto bene a parlare del Sud Italia. Ho letto una tesi sulle periferie di Palermo, dove gli immigrati sono pochissimi, ma i problemi vi sono del tutto uguali. a quelli che ho descritto
Quindi è la periferia in quanto tale: classe povera, isolata, fortemente stigmatizzata e trattamento esclusivamente poliziesco, che genera questi problemi.

D: Se il problema non è l’immigrazione, allora chi sono questi giovani delle periferie che fanno tremare il mondo globalizzato di oggi?

R: Circolando un po’ attraverso il mondo ho osservato un po’ questi fenomeni.
In alcune città latino americane questi meccanismi si vedono molto bene. È tipico di queste città mondo che si trovano in America Latina. Il Centro è iper-sviluppato, con una media borghesia che fa fatica a seguire, ma con una grossa borghesia molto forte e molto visibile.
E intorno ci sono i quartieri poveri. Allora lì è una morfologia diversa, perché, ad esempio, la notte si vede bene come una città come Caracas è circondata con le favelas come una cintura di miseria intorno al centro ricco.

Tra l’altro si fanno delle bellissime foto notturne perché sono belle quelle luci che circondano la città…. Però si vede anche che questi quartieri si infiltrano abbastanza nel centro. C’è una forte promiscuità tra povertà e ricchezza. Allora il centro diventa blindato. I quartieri ricchi sono delle specie di fortezze circondate con recinti e portoni elettronici, ci sono delle guardie armate… Mi hanno detto che anche nella città del Cairo sta avvenendo la stessa cosa. Si sono formati nel deserto dei quartieri ricchi molto chiusi e dove non si può entrare senza essere invitati.

In America latina le favelas sono l’espressione dell’esodo rurale. In Colombia sono raggruppati in specie di campi, Los Desplaçados, come li chiamano, spesso ex coltivatori di coca obbligati a lasciare le loro terre…

Là, mi sembra il livello più simile al caso europeo. Sono spesso di origine indios, gli adulti della famiglia, non sempre sanno lo spagnolo. Non hanno lavoro. C’è sempre un po’ di alcool e di droga che gira, ovviamente. Hanno la TV come unico contatto con la società, che guardano in continuazione, senza capire un granché… un’integrazione solo attraverso l’immagine, il sogno.

Ho visto delle situazioni terribili. Questi giovani, in questi contesti esprimono molto chiaramente questo misto di lontananza e di prossimità infinite dei due mondi che c’è nel mondo globalizzato. Sono assolutamente esclusi senza nessuna speranza ma nello stesso tempo sono vicinissimi a quelli che stanno dentro al sistema.

Ovviamente questo, anche se a livelli diversi, si ritrova in tutte le “periferie” del mondo. Io trovo che in questo tipo di discorsi ci sono due parole importanti: “periferia” e “integrazione”. In quanto sono nozioni che designano un’assenza.

Si parla di periferie e non c’è periferia che se c’è un centro. Ora qual è il centro?

È la televisione? Oppure il world Trade Center? È il centro città? oppure c’è una rete di centri che formano questo “Centro” indefinito? È solo un sogno in fin dei conti. Un sogno per il quale non si hanno i mezzi e che rimane solo una fantasia per i poveri.
E integrazione ha un senso che se c’è un Insieme. Però anche l’insieme rimane spesso poco definito.

In una democrazia che funzioni ci dovrebbe essere l’idea chiara di quello che è il “centro” e “l’insieme” con, almeno idealmente, i passaggi possibile per integrare l’uno e l’altro.

Per chiarire la mia visione e formulare quella che è la mia posizione su ideali come la democrazia e la libertà uso i parametri di quello che chiamo i tre stati dell’umano.

Questi tre parametri sono abbastanza semplici da spiegare. C’è l’Uomo-generico, l’Individuo e l’Uomo-culturale.

L’Uomo-generico cos’è? Quando si parla dell’uomo che ha camminato sulla luna o che camminerà un giorno su Marte. Io non ho nessuna vocazione a fare l’astronauta e camminare su qualsiasi astro, ma mi riconosco in questa opera comune all’umanità.

Oppure quando si dice “errare humanum est!” è sempre lo stesso umano di cui si parla.

Sappiamo anche cos’è l’Individuo. Forse non in modo molto chiaro, ma lo sappiamo. Ci sono 6 miliardi di individui che non si possono ridurre soltanto ad un insieme, che hanno coscienza di loro stessi, coscienza più o meno chiara, più o meno felice, ma sempre esistente.

Ma sappiamo anche che l’Individuo, l’identità individuale esiste soltanto grazie all’alterità, grazie al contatto con l’altro e alla costruzione di sé attraverso le relazioni. Si esiste attraverso quello che facciamo e attraverso le relazioni istituite, istituzionali, famigliari, con l’altro sesso, relazioni famigliari, di alleanza, relazioni sociali… Queste relazioni prendono un senso in un insieme che si chiama cultura, perché le relazioni cambiano da un gruppo umano all’altro per forme di alleanza, di autorità, di solidarietà…

Io ho lavorato in Costa d’Avorio ad esempio dove ci sono più di 60 etnie che ognuna ha la sua lingua e le sue specificità e meccanismi sociali, degli usi sociali molto fini…

Ed è a questo livello che si capisce cos’è la dimensione culturale dell’uomo. È attraverso la cultura che l’uomo esiste concretamente.

Ma vediamo anche che queste tre dimensioni dell’uomo entrano in conflitto tra di loro. Ad esempio ci sono gruppi per i quali la dimensione “Uomo-culturale” è fondamentale e se credono nell’”Uomo-generico” non danno a questa nozione una dimensione universale perché chiamano loro stessi: “gli uomini”. L’umano generico è soltanto chi fa parte del loro gruppo, gli altri non si sa cosa siano.

Le culture sono necessarie ma ovviamente non si assomigliano e non definiscono tutte le stesse modalità per fare esistere concretamente l’individuo. Non hanno la stessa concezione del rapporto tra persone, tra uomo e donna, non hanno lo stesso grado di prescrizioni… Ci sono gruppi in cui ci sono tantissime prescrizioni, matrimoni forzati… in alcuni piccoli gruppi può arrivare a livelli spettacolari. I rapporti in questi gruppi visti dall’esterno possono portare allo stupore. L’idea di libertà individuale non ha senso,  ciò che ha senso è solo l’insieme.

Quanto all’individuo sappiamo che l’esistenza individuale è quello che è. E la sensazione intima di esistenza individuale non ha niente a che fare con la libertà effettiva.

Prendiamo dall’attualità ad esempio la libertà del consumatore. Cos’è la libertà del consumatore? Qualcuno dice che il consumatore è libero di scegliere. Sì, ma è una libertà abbastanza alienata tenendo conto che è condizionata da quello che offre il mercato, dai condizionamenti effettuati dalla pubblicità e da quanti soldi ha in tasca…

Se si hanno queste tre dimensioni in testa si capisce che un uomo compiuto idealmente è quello che prende coscienza e che le sa coniugare correttamente.

D. Sempre parlando di questi giovani che vivono al margine del Centro ricco (questo centro che esiste ovunque virtualmente e non esiste materialmente ), lei ha detto che c’era una forte crisi dell’individuo e che questa crisi è strumentalizzata da quello che chiama “le sirene del senso” ovvero del ripiegamento comunitario.

R: Sì … Io parto da questo dato antropologico. L’individuo non può esistere concretamente che se è alienato (nel senso tecnico della parola). Per parafrasare Levis Strauss: È l’individuo detto sano di mente che è realmente alienato, in quanto accetta di esistere in un mondo definibile soltanto attraverso la relazione “io e l’altro”.

È vero che in tutti i gruppi umani c’è un’organizzazione anteriore alla nascita delle persone e alla quale bisogna aderire attraverso l’educazione e l’acquisizione dei valori… Quindi si esiste soltanto attraverso questo processo di “alienazione”, nel senso letterale in qualche modo.

Ovviamente per tornare all’ideale democratico, si tratta di capire qual è lo spazio di manovra che ha l’individuo all’interno di questi sistemi.

Quello che è sicuro è che quando questo equilibrio non è trovato, si ha scelta soltanto tra varie forme di alienazione.
Penso sia quello che succede quando la democrazia non gioca il suo ruolo. Soprattutto tramite l’educazione. Cioè quando il sistema di educazione, che dovrebbe dare ad ogni individuo la possibilità di scelta o di più larga scelta possibile. Che deve rendere l’individuo libero di pensare quello che vuole. Anche qua è un ideale. È un po’ l’ideale dei maestri della terza repubblica… Tutti non passavano dalla scuola a quella epoca, c’erano grandi differenze sociali però c’era nella Francia della fine del diciannovesimo secolo una grande mobilità sociale… Lo vedo nella mia stessa famiglia ad esempio. Oggi questo ascensore sociale, non funziona più. E non riguarda soltanto i discendenti di immigrati, ma non funziona proprio l’ascensore per tutti. O funziona pochissimo se vogliamo. C’è crisi del sistema. E non vedo altra soluzione che quella di rifabbricare un sistema educativo efficace. È un’emergenza, perché la baracca sta prendendo fuoco. Altrimenti…. Altrimenti cosa?

Mi arrabbio tanto di sentire dei discorsi vuoti su tale o tale modello… Io credo nell’individuo. Si sa che l’individuo può esistere soltanto attraverso la società, creando legami. E questo è il ruolo della scuola.

D. Allora, visto che ha citato il diciannovesimo, la domanda che mi viene in mente è la seguente.

Ma la democrazia parlamentare come è nata in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Francia all’inizio del diciannovesimo, è un sistema applicabile ovunque?

Cioè: questo modello nato nelle potenze coloniali grazie alle ricchezze provenienti da varie forme di sfruttamento di territori e di persone escluse dal modello democratico, la democrazia borghese, non ha, in realtà, bisogno della periferia, cioè di avere delle zone e delle popolazioni escluse, per poter funzionare al centro?

La differenza tra quella epoca e oggi non è soltanto che oggi c’è un “primo mondo” un po’ ovunque, anche nei paesi poveri, e un “terzo mondo” sparso ovunque anche nelle periferie del “mondo ricco”?

R. Ci sono varie domande in questa. Posso rispondere sì e no.
No, in quanto non credo nella formula di Fukuyama (3), quella della fine della storia, cioè che ormai abbiamo trovato il modello ideale, il mercato liberale e la democrazia rappresentativa, quello che va bene per tutti e al quale tutti devono giungere prima o poi e che la ricerca è finita. Perché vediamo che questo sistema funziona soprattutto accentuando le differenze tra ricchi e poveri.

Ma posso dire della democrazia due cose: da una parte non credo che ci sia un altro modello. Si sente dire spesso, venendo sia da posizioni estremamente rivoluzionarie che da quelle più conservatrici, che la democrazia non va bene per tutti, o dicendo che la democrazia è un gioco che non corrisponde a nessuna realtà, oppure che quelli o questi non sono maturi per la democrazia.

Semplicemente della democrazia direi quello che dico della cultura: non è un modello, è un esigenza. Non c’è una formula. Non si può dire che è quella del 1870 o del 1936… che bisogna applicarla così com’è, e basta. Ovviamente no. Questo sarebbe un rifiuto della storia.

È una esigenza perché quelle tre dimensioni dell’umano siano più concretamente equilibrate possibile.

Cos’è il mondo? è un insieme di realtà ingiuste. Sì! Ma ce ne sono alcune che lo sono meno di altre. Questo non vuol dire che sono soddisfacenti. Quindi io penso che c’è da lavorare sulla pratica democratica. Per essere franco, io “non sputo” sulle Lumiere, sul diciottesimo e sugli apporti della rivoluzione. Ma io non lo presento come un modello, ma come un punto di partenza per migliorare sempre il modello. È vero che nel ventesimo secolo con i grandi movimenti (quello marxista etc…) è successo il contrario, si aveva il modello e poi bisognava piegare le società per farle entrare dentro. Penso che bisogna cambiare totalmente le cose e poi costruire, ma costruire partendo da un certo numero di principi.

È un po’ per questo che mi arrabbio quando si dice che il modello francese è fallito. Prima perché non esiste veramente un modello francese, al limite si può parlare di un certo numero di principi. Ma questi stessi principi non sono mai stati rispettati. Quindi come si può parlare di fallimento di un principio che non è mai stato applicato. Allora io dico torniamo ai principi e poi vediamo il risultato.

Ma se vogliamo io non sono relativista. La democrazia in Occidente è largamente insufficiente, ma io preferisco vivere in Francia che in un sistema totalitario qualsiasi. Non so cos’è la democrazia compiuta perché resta tutta da costruire ma so benissimo quali siano i sistemi antidemocratici.

D: Per finire, volevo aprire una parentesi. A me sembra che vivere alla periferia di Parigi o ancora peggio di Los Angeles o Miami è la situazione peggiore che possa essere, dal punto di vista psicologico. Voglio dire se uno vive povero a Dakar spera un giorno di attraversare il deserto, poi il mare mediterraneo (con il rischio di morire o disidratato o affogato) ma con il sogno di arrivare in paradiso. Mentre un giovane nero che vive nei ghetti di Miami o un nordafricano nelle banlieue è uno che è arrivato e ha scoperto che in realtà il paradiso non esiste, almeno per lui. Non le sembra così?

R. È del tutto vero quello che dice. È vero e non dovrebbe essere vero. Ecco. Penso che quello che è tragico in questa storia è il fatto che il ritmo della storia è lento. Le cose si muovono lentamente, o altre volte si fermano, succede anche che si faccia qualche passo indietro, ma le vite individuali sono brevi. È questo che è faticoso nel volontarismo, nel credere in un mondo migliore. Le cose che si possono ottenere si ottengono dopo tempi molto lunghi.

Detto questo però, guardate ora la Francia, prendete la metropolitana o fate un giro per le vie di Parigi. È un paese che è cambiato profondamente rispetto all’inizio del secolo scorso. Per la diversità e per altre cose ancora. In realtà ci sono due processi concomitanti: la “planetarizzazione”, oggi abbiamo tutti dei riferimenti planetari, e poi la mondializzazione delle città, il fatto che in quasi ognuna di loro si trova il mondo intero. Tutto ciò al costo di situazioni estremamente crudeli, di sofferenze individuali e collettive enormi… Ma mi citi un’età della storia in cui non era il caso. La storia non è stato un lungo fiume placido. È piena di scontri, di violenza e di sofferenza. Non vedo altro motivo per avere la volontà di agire che il fatto che ci sono delle cose che si stanno mettendo in posto, che non lo fanno abbastanza velocemente, ma che bisogna fare in modo che funzionino.

In conclusione direi che è difficile dirsi ottimisti sul futuro del mondo, ma io mi rifiuto di essere pessimista perché sarebbe una forma di nichilismo… Allora, tutto sommato, io mi rifugio in una posizione volontarista. Come diceva Voltaire bisogna coltivare il proprio orticello. Ora qualcuno l’ha interpretata come una visione estremamente egoistica. Ma non credo che quello era l’intento di Voltaire, penso che intendeva dire: che bisogna cercare di migliorare le cose laddove siamo, a livello locale, perché il mondo sia migliore ovunque. E quindi bisogna darsi da fare perché ci sono tante di quelle erbacce da rimuovere!

NOTE:

1. Le sommosse del 2005 delle banlieue françesi sono rivolte che si sono scatenate in seguito alla morte di due adolescenti, Zyed Benna et Bouna Traoré, il 27 ottobre 2005, per l’effetto di un’elettrocuzione fulminante dentro la cabina di un trasformatore elettrico dove si sono rifugiati per sfuggire a un controllo della Polizia,

2. Patrick Weil è un politologue, direttore di ricerca al CNRS, specialista in Diritto dell’Immigrazione. Tra le sue pubblicazioni: La République et sa diversité : Immigration, intégration, discrimination, Paris, Le Seuil, 2005, e Être français, les quatre piliers de la nationalité, La Tour d’Aigues, 2011,

3, Charles-Edouard Jeanneret detto Le Corbusier, considerato uno dei padri dell’urbanistica.

4. Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo – Rizzoli 1992

Karim Metref
Sono nato sul fianco nord della catena del Giurgiura, nel nord dell’Algeria.

30 anni di vita spesi a cercare di affermare una identità culturale (quella della maggioranza minorizzata dei berberi in Nord Africa) mi ha portato a non capire più chi sono. E mi va benissimo.

A 30 anni ho mollato le mie montagne per sbarcare a Rapallo in Liguria. Passare dalla montagna al mare fu un grande spaesamento. Attraversare il mediterraneo da sud verso nord invece no.

Lavoro (quando ci riesco), passeggio tanto, leggo tanto, cerco di scrivere. Mi impiccio di tutto. Sopra tutto di ciò che non mi riguarda e/o che non capisco bene.

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