Nicaragua: il Paese delle oligarchie dinastiche
Dall’Indipendenza, conquistata il 15 settembre 1821, ai giorni nostri, con l’esclusione degli anni della Rivoluzione sandinista, un piccolo gruppo di famiglie tradizionalmente ha controllato il potere politico, economico e culturale del paese. Oggi la storia si ripete con l’orteguismo, non a caso, durante le proteste di piazza, associato al somozismo.
di Bái Qiú’ēn
La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. (Karl Marx, La guerra civile in Francia, 1871)
Nel regime socialista tutti governeranno, a turno, e tutti si abitueranno ben presto a far sì che nessuno governi. (Vladimir Lenin, Stato e rivoluzione, 1917)
Con il termine «oligarchia» si definisce in genere un sistema politico caratterizzato dall’effettiva concentrazione del potere nelle mani di una minoranza, la quale solitamente opera per il proprio diretto interesse contro quello della maggioranza. Se questa definizione è valida nella maggior parte dei casi, per ciò che concerne il Nicaragua occorre aggiungere che, storicamente, le oligarchie locali si sono sempre identificate con una famiglia e i suoi alleati. Le più importanti furono e sono i Sacasa e i Chamorro, che raggiunsero in breve tempo un’influenza e un’importanza notevole nella vita sociale, economica e politica.
Fin dall’Indipendenza, conquistata il 15 settembre 1821 assieme al Messico e agli altri Paesi centroamericani, il Nicaragua è stata una nazione divisa in due fazioni e ha vissuto un lungo periodo conflittuale e violento tra le oligarchie dei Sacasa (liberali) e dei Chamorro (conservatori). I quali avevano le rispettive roccaforti a León e a Granada, alternativamente capitali del Paese a seconda di chi vinceva provvisoriamente i perenni conflitti bellici. Era evidente l’incapacità delle due famiglie oligarchiche di accettare il diritto dell’avversario a diventare il governo del Paese, facendolo vivere in una dinamica di mutua esclusione e di una sostanziale guerra civile perpetua (nella quale, naturalmente, soffrivano e morivano i diseredati arruolati con la forza nei due eserciti contrapposti). Era altrettanto evidente l’incapacità dei due gruppi di imporre la loro egemonia sul resto della società nicaraguense, portandoli a tentare più volte l’esercizio dittatoriale del governo. Alla fazione avversaria «restava l’opzione assai popolare di rimuovere il dittatore e diventare una copia carbone del rovesciato» (Emilio Álvarez Montalván, Cultura política nicaragüense, 2000).
Non a caso, nella nazione divisa in due gruppi di potere originati dall’Indipendenza, si parla di paralelas históricas (definizione coniata da Carlos Fonseca Amador), facendo prevalere le gerarchie e il caudillismo, il quale non era un sistema di mera sottomissione passiva al leader di turno, in cui egli poteva disporre senza restrizioni dei suoi seguaci e imporre la sua volontà illimitatamente: si trattava piuttosto di un sistema di scambio di favori e di continue negoziazioni di lealtà che generavano il sostegno politico. In quei lunghi decenni gli altri partiti erano ammessi soltanto per fingere che esistesse il pluralismo e gli si concedeva qualche poltrona parlamentare a condizione che appoggiassero l’oligarchia regnante in quel momento.
In questo “gioco”, conservatori e liberali* si alternavano periodicamente al potere, senza che nessuno di loro raggiungesse una vera egemonia sull’altro. Del resto, qualunque oligarchia non necessita di un partito per governare, ma senza di esso perderebbe la propria immagine “democratica”. Questo fenomeno fu una delle cause, se non quella principale, del ritardo nella formazione di un vero Stato-nazione nel quale si riconoscesse la maggioranza della popolazione.
I Sacasa giunsero dalla Spagna all’inizio del XVIII secolo come servitori della Corona e si occuparono soprattutto di commercio. Fu la prima famiglia egemonica, per quanto soltanto tre divennero presidenti della Repubblica. Pure i Chamorro giunsero dalla Spagna (forse in epoca precedente) e riuscirono ad avere ben sei presidenti della Repubblica (sette, se si conteggia pure Violeta Barrios, vedova del martire delle libertà civiche Pedro Joaquín Chamorro Cardenal).
Dal punto di vista politico le due oligarchie contrapposte controllavano i rispettivi partiti (a tutti gli effetti personalistici), i gruppi armati e occupavano tutte le cariche istituzionali. Le leggi erano emanate o adattate agli interessi di chi deteneva provvisoriamente il potere.
«Quando parliamo di oligarchia ci riferiamo a un piccolo gruppo di famiglie (circa una dozzina), che tradizionalmente controlla il potere politico, economico e culturale […], utilizzando come meccanismo la parentela, l’endogamia, l’eredità e l’autorità del prestigio, della coesione e della sostenibilità dei suoi privilegi» (Orlando Núñez Soto, La oligarquía en Nicaragua, 2018).
A questo meccanismo ben oliato si aggiungeva, spesso e volentieri, un alone di messianismo che avvolgeva di leggenda i leader delle due oligarchie. Tipico esempio fu il longevo generale conservatore Emiliano Chamorro, detto El Cadejo (essere fantastico della mitologia popolare): si narra che in centinaia di occasioni riuscì a sfuggire alla morte: tornava dalle numerose battaglie con la divisa perforata e, come un prestigiatore, faceva uscire dalle maniche un certo numero di proiettili ammaccati che si erano fermati e raffreddati prima di colpirne il corpo. Come se ciò non bastasse, nello stesso momento si trovava su più fronti, attraversando indenne la linea di fuoco e ogni tentativo di catturarlo falliva miseramente.
Poiché il conflitto tra le due città si estese a tutto il territorio della Repubblica (eccettuata la Costa Atlantica), nacquero il blocco occidentale (León, Chinandega, Nueva Segovia) e quello Orientale (Granada, Masaya e Rivas). Soltanto il 5 febbraio 1852 si tentò un compromesso, decidendo di trasformare in capitale il piccolo villaggio di pescatori sulle rive del lago Xolotlán denominato Leal Villa de Santiago de Managua (che aveva circa settemila abitanti), sperando in tal modo di porre fine all’eterna guerra tra le due fazioni oligarchiche e alla vita politica tortuosa, violenta e instabile del Paese. Fu il regnante spagnolo Fernando VII a dichiararla «Leal Villa» nel precedente 1819, in considerazione del fatto che rimase fedele alla Corona negli anni delle lotte per l’Indipendenza, alla quale contribuirono attivamente numerosi indios. Le reti di potere stabilite dalle due famiglie oligarchiche, però, per lungo tempo impedirono a Managua di assumere una vera rilevanza politica ed economica. Inoltre, questa realtà duale ha dato vita a un sistema politico ciclico in cui il futuro è un eterno ritorno al passato, quasi sempre violento ed escludente.
Come prodotto di questo sistema politico perverso e con la scusa della stabilità, in vari momenti della storia del Nicaragua i partiti politici di maggioranza tentarono di istituire un sistema elettorale bipartitico con lo scopo essenziale di distribuire il potere tra loro ed escludere tutti gli altri dal potere.
Per quanto si tratti di una storia assai complicata e difficile da riassumere, si può affermare che le diatribe più o meno armate tra liberali e conservatori proseguirono fino al primo trentennio del XX secolo, spartendosi a turno il potere, e la stessa lotta di Sandino vi si inserì a pieno titolo, oltre a combattere e a vincere i marines statunitensi con la prima guerriglia moderna del continente. Il Generale degli Uomini Liberi (così definito nel luglio del 1928 dallo scrittore francese Henri Barbusse: «Général d’hommes libres») incarnò a tutti gli effetti l’uomo politico nicaraguense “anomalo”: non solo mutò drasticamente la guerra tra liberali e conservatori in una lotta armata per la liberazione nazionale contro l’invasore statunitense, ma soprattutto diceva ciò che pensava e faceva ciò che diceva. Con il suo assassinio a tradimento perpetrato il 21 febbraio 1934, cominciò a prendere forma una terza dinastia oligarchica: quella dei Somoza.
Il capostipite, Anastasio Somoza García, detto Tacho, era figlio del conservatore Anastasio Somoza Reyes e pure lui in origine era un conservatore, poi passato nelle file dei liberali dopo il matrimonio nel 1919 con Ana Salvadora Debayle Sacasa, detta doña Yoya o Salvadorita.
Grazie al suo ruolo apicale nei ranghi della Guardia Nacional, della quale fu nominato direttore nel 1932, nel 1936 assunse il ruolo di presidente con pieni poteri e iniziò a eliminare l’opposizione: abolì i partiti e le elezioni, sciolse il parlamento e si auto-attribuì la facoltà di nominare il proprio successore (che, come per qualunque monarca assoluto, era ovviamente il figlio primogenito).
I rapporti di Tacho con Benito Mussolini erano ottimi, tanto che il dittatore italiano gli regalò persino un piccolo carrarmato, di dimensioni simili a una vecchia Fiat 500. Negli anni Ottanta questo trabiccolo ormai arrugginito era collocato nel Museo de la Revolución, accanto al mercato Huembes, con la scritta: «Ridícula tanqueta regalada por el dictador italiano Benito Mussolini al general Anastasio Somoza García»: modello Carro Veloce CV.33 con due mitragliatrici Fiat, la cui produzione iniziò nel 1933. Attualmente è collocato sulla Loma de Tiscapa, dove sorgeva un tempo la Casa Presidencial distrutta dal terremoto del 1972 e dalla scritta è scomparso il termine «ridícula».
Con la seconda guerra mondiale, Somoza dichiarò guerra alla Germania e all’Italia (nonostante l’amicizia con il Duce) e, come curiosità storica, poiché nessun armistizio né trattato di pace è mai stato firmato, a tutti gli effetti il Nicaragua è ancora in guerra con entrambe queste nazioni.
Dopo l’azione del liberale indipendente Rigoberto López Pérez il 21 settembre 1956, grazie alla quale Tacho fu giustiziato, salì al potere il figlio Luis, che avviò una timida liberalizzazione della dittatura paterna. Morì nel 1967 ufficialmente per un infarto, ma in realtà avvelenato, pare con una congiura di palazzo organizzata dal fratello Anastasio (Tachito), il quale assunse il potere fino al 1979, intervallato sporadicamente da alcuni fantocci e ripristinando il sistema politico-economico instaurato dal padre.
L’oligarchia della famiglia Somoza regnò per ben 43 anni consecutivi, fino al 17 luglio 1979 (il Día de la alegría), con il sostegno di Washington e continui patteggiamenti tra l’oligarchia liberale e quella conservatrice. Mantenendo, a tutti gli effetti, il sistema politico oligarchico sorto con l’Indipendenza dalla Spagna.
Durante il decennio rivoluzionario dal 1979 al 1990 iniziò a spezzarsi lo schema oligarchico-familista che aveva retto le sorti del Nicaragua per oltre un secolo e mezzo, avviando la costruzione di un’alternativa a una situazione politica ormai incancrenita: instaurò un sistema politico democratico e pluralista mai esistito prima nel Paese, con un’effettiva partecipazione popolare. Questo processo fu però interrotto nei sedici anni di governi neoliberisti che si susseguirono fino al 2006.
Per molti di coloro che negli anni Ottanta solidarizzarono con il Nicaragua rivoluzionario è oggi assai difficile riconoscere l’orteguismo come seconda fase della Rivoluzione Popolare Sandinista e il FSLN come partito di sinistra. Fin dalla sconfitta elettorale del 25 febbraio 1990 Daniel si pose infatti l’obiettivo strategico di controllare il FSLN, trasformandolo in un partito personalistico e, governando il Paese “dal basso”, occupare le istituzioni con i propri uomini (e donne) di fiducia con un vero e proprio «sovversivismo dall’alto». Quando vinse le elezioni nel 2006 aveva già il controllo totale del partito, dominava quasi interamente il sistema giudiziario e, sa va sans dir, la polizia e l’esercito. Era, a tutti gli effetti, una caricatura dell’originario FSLN.
Con suo il ritorno alla presidenza della Repubblica nel 2007 era invece auspicabile la prosecuzione dell’opera di demolizione della gestione oligarchica dello Stato e la fine del sistema delle paralelas históricas. A tutti gli effetti, i discendenti dei Sacasa e dei Chamorro ormai contano come il due di coppe quando si gioca a scacchi, ma il modello oligarchico-familista non è stato spezzato, essendo stato sostituito a tutti gli effetti dalla famiglia Ortega Murillo, ormai una vera e propria dinastia regnante con tanto di Corte e cortigiani (e persino di giullari). Caso poco comune nel panorama mondiale del XXI secolo (Corea del Nord e Siria). Anche da questo punto di vista la Rivoluzione Popolare Sandinista è stata completamente tradita. La mentalità oligarchico-familista ereditata dalla Colonia in epoca medievale è tuttora vigente, compresi i “valori” familistici tradizionali di carattere patriarcale, e nulla fa pensare alla possibilità di un mutamento nel prossimo futuro. L’esempio più evidente e innegabile di questo processo involutivo è sotto gli occhi di tutti: El Carmen non è soltanto l’abitazione della famiglia Ortega Murillo, ma è al contempo la sede ufficiale del FSLN e la Casa Presidencial. Un “tre per uno” al supermercato del potere.
In questo inizio di terzo millennio, in termini generali, un’oligarchia deve in qualche modo mascherarsi sotto forme pseudo democratiche, non potendo presentarsi come usurpazione del potere. Permangono pertanto le procedure democratiche, per quanto svuotate di sostanza e di effettività. Chi parla di «oligarchia democratica» o di «democrazia oligarchica» esprime un ossimoro evidente, rendendo conciliabili due forme di governo inconciliabili e in contraddizione tra loro. Le forme democratiche formalmente mantenute sono soltanto una maschera, un guscio vuoto senza contenuto.
Formalmente in Nicaragua si svolgono con regolarità le elezioni (delle quali è ampiamente pronosticabile il risultato quasi bulgaro per l’orteguismo) e l’Asamblea Nacional funziona, ma è monopolizzata dagli orteguisti e in massima parte serve per approvare e rendere effettivi i decreti presidenziali. A partire dal 2007 uno degli obiettivi fondamentali di Daniel fu proprio la neutralizzazione del sistema elettorale competitivo con l’eliminazione di tutti i possibili concorrenti (primo tra tutti, il MRS, costola del FSLN), con lo scopo evidente di restare per sempre al potere. Essendo previste per il 3 marzo 2024 le elezioni regionali nella Costa Atlantica (oggi denominata Costa Caribe), nell’ottobre del 2023 è stato dichiarato illegittimo il partito indigeno Yatama, arrestato il suo leader Brooklin Rivera (nonostante l’alleanza con l’orteguismo) e chiusa manu militari l’emittente del partito. Nelle ultime elezioni presidenziali del 7 novembre 2021 aveva ottenuto quasi 26mila voti, eleggendo un deputato, il sui seggio è oggi occupato da una orteguista: Ana Valeria Rafael Alfred. Considerando che i votanti dell’area Est del Paese non raggiungono i 300mila, è evidente che le preferenze che andarono a Yatama rappresentavano circa il 10% (poiché, come spesso accade, il sito WEB del Consejo Supremo Electoral è sospeso, i dati effettivi non sono disponibili). Ammesso che questi elettori si rechino ai seggi, per chi potranno votare se non per l’orteguismo o per il partito di Arnoldo Alemán?
Se questo è ciò che accade con regolarità nel panorama partitico (sempre meno pluralista), violando palesemente la Costituzione vigente, la moglie Rosario Murillo è stata candidata alla vicepresidenza nel 2016 e riproposta nel 2021 (ovviamente eletta e rieletta). Essendo la vicepresidente della Repubblica dal 10 gennaio 2017 è destinata a sostituire Daniel: «Por falta definitiva del Presidente de la República asumirá el cargo, por el resto del período, el Vicepresidente y la Asamblea Nacional deberá elegir un nuevo Vicepresidente» (Cost. art. 149). I figli della coppia occupano posizioni di rilievo a livello politico ed economico, come pure le/i consorti. Il consuocero Francisco Díaz è a capo della polizia dall’agosto 2018.
È più che un’ipotesi fantapolitica il fatto che, essendo Daniel già avanti con gli anni (nato l’11 novembre 1945) e non in buona salute, sarà inizialmente sostituito dalla moglie vicepresidente, la quale è relativamente più giovane (nata il 21 giugno 1951) ma ha uno scarsissimo gradimento nella popolazione, a partire dagli stessi sandinisti de pura cepa. A lei è destinato a succedere il figlio Laureano, che già attualmente ricopre numerosi incarichi in sostituzione dello stesso Daniel. Primo e più importante dei quali è la qualifica di «asesor presidencial para la promoción de inversiones», consigliere presidenziale per la promozione degli investimenti sia commerciali sia nella cooperazione internazionale. Con pieni poteri, ovviamente. Avendo la maggioranza assoluta di deputati, nel caso in cui Rosario assumesse la carica di Presidente, l’orteguismo non avrà problemi per eleggere come vicepresidente il figlio Laureano. Per evitare questa deriva oligarchico-familista sarebbe sufficiente rispettare la Ley de Servidores Públicos (n. 438 approvata nel 2002 e tuttora vigente), la quale proibisce a qualsiasi familiare o parente di occupare un incarico pubblico.
Se le oligarchie storiche avevano privatizzato lo Stato, il sistema orteguista lo ha senza dubbio monarchizzato con l’uomo forte al potere e le istituzioni assai deboli a causa della lenta ma inesorabile cancellazione della divisione dei poteri sancita dalla Costituzione (capo dello Stato, potere esecutivo, potere legislativo e potere giudiziario) e il correlativo progetto del passaggio del potere centralizzato e assoluto da un membro all’altro della famiglia. Si potrebbe affermare che il passo dal presidenzialismo repubblicano alla monarchia è assai breve: è sufficiente rendere ereditaria la carica di presidente. Per la cronaca, nell’ottobre del 2005 lo stesso Daniel aveva promesso, in caso di una sua elezione, di porre fine al sistema presidenziale: «Nosotros queremos llegar a la presidencia para acabar con el presidencialismo, para provocar un cambio verdaderamente democrático en este país». La visione democratizzatrice era chiara: «Voglio che il potere rimanga nelle mani del popolo e che in ogni regione siano istituite Assemblee del potere cittadino, le quali abbiano un potere reale e il Parlamento nazionale non sia altro che l’esecutivo di quelle Assemblee del potere cittadino». Tra il dire e il fare, però…
Nel caso in cui si volesse tentare un parallelo con la storia medioevale europea, risulta evidente che l’attuale lotta politico-ideologica contro la Chiesa cattolica e parzialmente contro alcune organizzazioni evangeliche riprende l’antico e lungo conflitto per il potere temporale tra l’Impero e il Papato. Con l’unica differenza, sostanziale, identificabile nell’attuale volontà di “creare” una nuova religione, con tanto di santi, eroi e martiri, di riti e celebrazioni, oltre ovviamente a una gerarchia con al vertice Rosario, la papessa infallibile. Chiunque abbia la costanza di ascoltare o leggere i suoi quotidiani sproloqui telefonico-televisivi, non fatica a rilevare nelle sue parole un immaginario religioso di conio medievale spacciato per “originalità” rivoluzionaria, comunque difeso a spada tratta con la passione di un credente che difende il proprio dogma.
Non a caso, buona parte dei filologi ritiene che il termine «religione» derivi dal latino religare (con la particella intensiva re-): legare strettamente all’osservanza di determinati doveri e precetti. Ufficialmente l’orteguismo si auto-proclama “moderno”, senza però esserlo nella maggior parte delle sue pratiche, assolutamente premoderne: pretende di modernizzare il Nicaragua con una mentalità strettamente legata al feudalesimo coloniale, a partire dalla sacralizzazione del potere. Non a caso, la “filosofia” imperante è riassumibile nel concetto generalizzato «Si è sempre fatto così, perché cambiare?».
Il malessere e lo scontento che portarono alle proteste del 2018 sono stati tacitati ma non si sono placati e continuano a covare sotto la cenere, nonostante tutti i tentativi che l’orteguismo ha compiuto in questi ultimi anni per debellarlo e sradicarlo. Per quanto nessuna oligarchia delle famiglie storiche sia oggi in grado di insidiare il suo potere, restano pur sempre quel malessere e quello scontento assai diffusi, i quali non riescono però a trovare uno sbocco unitario e fattivo che consenta di progettare un’alternativa e per organizzare forme di lotta comuni. Il limite evidente dell’opposizione all’orteguismo (i cui dirigenti sono esiliati), la quale copre l’intero spettro politico, è che mostra un’unità solo per rovesciarlo, ma non per creare un’alternativa. Resta pur sempre il fenomeno sotterraneo del mugugno che potrebbe esplodere nuovamente da un momento all’altro, come uno dei numerosi vulcani che si ergono nel territorio nicaraguense.
Nel programma iniziale del mantenimento del potere fin dal 2016 era prevista la sostituzione di Daniel con Rosario come candidata alla presidenza nelle elezioni del 2021. Il 2018 ha però rotto le uova nel paniere, impedendone la realizzazione e provocando sempre più evidenti divergenze e diatribe tra i due. Daniel fu infatti obbligato a ricandidarsi, sapendo che la stessa base sandinista non avrebbe gradito Rosario, considerata una grave iattura, se non una vera e propria catastrofe sia per il Paese sia per il FSLN. Per placare un po’ la furia della consorte, lo stesso Daniel giunse a dichiarare: «Qui abbiamo due presidenti, perché rispettiamo il principio 50-50, cioè qui abbiamo una copresidenza con la compañera Rosario» (25 ottobre 2021). In un Paese dove tutto è possibile, persino la parità di genere è utilizzata dall’orteguismo in funzione oligarchica. In questo contesto si inquadra la lotta sfrenata di Rosario contro tutte le organizzazioni femministe (che storicamente sono sorte dal sandinismo).
Rivelando un’innegabile e sempre più profonda inquietudine all’interno delle file del FSLN (che non è del tutto omogeneizzato), il precedente 17 novembre 2019, durante il programma Detalles del momento trasmesso dal governativo Canal 6, Edén Pastora espresse l’idea che fosse giunto il momento in cui il Congresso Nazionale (la massima autorità del partito) dovesse decidere il successore di Daniel. Senza mai nominare Rosario né i figli della coppia regnante: «Quién va a ser nuestro próximo candidato cuando a nuestro comandante Dios le mande cualquier fatalidad: un derrame cerebral, una enfermedad grave, una vejez dentro de 10 o 12 años, una muerte segura?». Chissà?, forse aveva preso troppo sul serio lo slogan vuotamente retorico El Pueblo Presidente.
Negli stessi giorni, ribadendo la propria visione antioligarchica, dichiarò: «Se è morto Gesù, com’è possibile pensare che non muoia Daniel?».
Sia come sia, appena sette mesi dopo, il 16 giugno 2020 morì all’Ospedale Militare di Managua senza nemmeno riuscire a vedere l’inizio di una discussione e di un confronto sulla sua proposta antidinastica. Che tuttora manca e la poetessa Rosario sta proseguendo imperterrita nella sostituzione degli orteguisti con suoi fedeli nelle varie istituzioni, in previsione dell’inevitabile scomparsa di Daniel. Il che ricorda un brano di Francesco de Gregori: «Mussolini ha scritto anche poesie. I poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa» (Le storie di ieri).
* L’originaria definizione “ideologica” dei due storici partiti nicaraguensi («conservatori» e «liberali») aveva assai poco a che fare con gli omologhi europei del XVIII secolo. Servivano esclusivamente per distinguere le due fazioni oligarchiche opposte, ma assai simili tra loro, per non dire uguali. A tutti gli effetti, erano comunemente denominati con epiteti locali assai pittoreschi e spesso burleschi, più che con le denominazioni di origine europea: i conservatori erano denominati «mechudos» (per via dell’usanza di tenere la barba e i capelli lunghi), «timbucos» (per via della pancia sovradimensionata a causa dell’esagerata alimentazione), ecc.; i liberali ricevevano le designazioni di «desnudos» (scamiciati), «pirujos» (invadenti), «chiapiollos» (ignoranti), «calandracas» (fiacchi, deboli), ecc.