Il lardo…
… da carnevale alla peste, alla guerra, alla fame
di Natalino Piras
Quando ero clericus vagans redigevo cronache del tempo del lardo come abbondanza e come ballo in maschera. Buttavo in calderone nomi, soprannomi, metafore: Lardu, Pappalardo, Pistalardu, Caccalardu, Bombelardu, Lardari, Lardine, Lardeddu, Lardone, E lo strutto, s’ozzu porkinu. In letteratura c’è il marchesino Eufemio, un autentico imbecille messo in sonetto da Giuseppe Gioacchino Belli. Non ce la fa col latino che il precettore cerca di fargli entrare in testa. Così trasforma “esercito distrutto” in “exercitus lardi”. Imbecille sì ma pur sempre de casta, caddu de istantzia più che di stalla, il marchesino Eufemio “si ebbe il premio” per questa idiota traduzione, degradante l’esercito già sconfitto e pure lo strutto, s’ozzu porkinu che tanto ruolo ebbe nella nostra tradizione alimentare, a carnevale e per tutto l’anno.
S’ozzu porkinu. Si trattava di lardo già bollito, già fatto colare, sciolto e poi raffreddato, messo in contenitori di legno, di sughero o insaccato in budella d’animale. Era una componente essenziale della riserva alimentare per tutte le stagioni.
Il lardo, rigorosamente di maiale, come essenza, lo strutto, perdonate il gioco di parole, come struttura portante della civiltà contadina e non solo. “Il grasso che cola”, insieme contenuto e metodo anche della moneta che si fa accumulo di capital da là viene.
Il lardo era segno di abbondanza, di benessere. Se mancava il lardo in una casa, il lardo messo sotto sale, lo strutto appeso in rocchi insieme alle salsicce, era segno di povertà estrema. Quando il lardo ingialliva, se si arrivava a farlo ingiallire, bisognava finire di consumarlo, magari pestarlo nel mortaio per minestre al femminile e ministru al maschile, minestroni e minestronate. La parola “connimentu”, condimento, è uno dei sinonimi del lardo. Neppure su lardu vezzu si buttava via. Era un sacrilegio. La società contadina e pastorale non ammetteva né considerava lo spreco.
Più su del lardo si era campatores garantiti se si mangiava carne. Ma la carne, per poter essere così apprezzata e avere più valore doveva essere foderata, circondata, inframmezzata di lardo. La si mangiava con più gusto.
Pochi erano i grassi, addirittura obesi, nella società pastorale e contadina. L’essere in carne, in purpas, corrispondeva a benessere. Come segno estetico nella società pastorale e contadina la rotondità delle forme prevaleva sulla magrezza. Essere anoressici, “anemicos” si diceva, la tendenza dell’oggi significava essere fuori dalla grazia di Dio.
Lanzo, lanzu, lanza era la bruttezza che più non si può. E la cattiveria. Lanzu è Mastru Juanne, la fame. Mangiare bisognava, perché se no il corpo non regge. In tempo ordinario, ognuno aveva diritto alla sua porzione di lardo, specie se dopo mangiato bisognava riprendere lavoro e fatica. A meno che a prendersi anche quella porzione non fosse già passato Mastru Juanne in forma di tasse e carestia, di oppressione feudale e di peste. Pure qualche profittatore o mangiatore a sbafo che bastava che tu ti distraessi per rubarti il pezzo di lardo dal tuo piatto oppure dae su mesale comune.
Il lardo si doveva bene amministrare. Crudo o cotto. Tagliato fine, bianco come il marmo, sopra il pane, accompagnato da un bicchiere di vino. Oppure a pezzi grossi in favate, ‘ava e lardu, inucru chin basolu e nel clou della festa per l’ammazzamento del 09/02/24, 16:37 maiale. Era uno spettacolo vedere il lardo sfrigolare dentro cassarolas e tegami oppure ballare nell’acqua dentro pentole, patedddas, pateddones e lapiolos, infilato in schidionate e messo ad arrostire, lardo ancora sumene, insieme al fegato e altre parti molli del porco appena sacrificato. L’ammazzamento del maiale era rito e mito. Il lardo era usato come paga, come salario (la parola viene da sale e la salma come misura valeva sia per il lardo che per il sale).
Il lardo è stato per molto tempo il segno più importante del carnevale, manifesto e nascosto, contenitore di storie e racconti, di significati reconditi e di messe alla berlina.
Non c’è mai stato un carnevale che non abbia visto il re e il principe, il feudatario e lo sgherro, il conte e il boia, messi in maschera in forma di animale, di bestia da sacrificare all’ira repressa, alla rassegnazione ingoiata.
Il Potere a carnevale assume il suo vero volto e corpus di asino, gallo, pecora e bue e ancora e sempre lui, messer porco, il grasso accumulato. Valgono ancora i nomi: giovedì grasso, martedì grasso. Sempre grasso di maiale, zobia grassa, jovia lardajola, Juvanne Martisero: il martedì grasso di Mamoiada, uno dei luoghi simbolo del carnevale passato, grazie alla maschera del mamuthone, da fenomeno locale a globale, un big carnival che si estende ormai in tutte le stagioni, in diverse parti del mondo.
Il lardo e i suoi associati del tempo ordinario ma pure dell’abbondanza, il pane e il vino, la farina e lo strutto, hanno perso via via la funzione di sussistenza alimentare per passare all’omologazione che rende “prodotto tipico” quanto prima, per secoli e secoli, era l’indispensabile di tutti i giorni. A carnevale valeva la trasgressione, il mangiare e bere a dismisura, fagocitando nell’arco di neanche una settimana, da giovedì a martedì grasso, quanto per tutto il resto dell’anno era negato oppure misurato, razionato, programmato come consumo di provvista. La fame, la negazione del lardo alla stregua di quella del pane, erano strumento di oppressione dei ricchi, grassi terratenientes e prinzipales, contro i poveri. Negare il lardo faceva coppia con accumulare moneta e capitale sulla pelle dei poveri. Coincideva con privazioni che i poveri, solo i poveri, dovevano subire.
Era, la negazione del lardo, la legittimazione delle ruberie, del mandare sicari dove non potevano gli esattori delle tasse. Per questo, quando a Carnevale, di zobia grassa, scoppiavano le rivolte contadine contro feudatari e signori, queste erano ancora più violente e sanguinarie. In certi carnevali, di martedì grasso, l’ultimo giorno prima di mercoledì delle ceneri, l’inizio della quaresima, chi doveva compiere vendetta e dare morte, profittava del ballo in maschera. Si moriva e si continuava a danzare perché una delle regole, delle contraddizioni del Carnevale, è lo stare e sentirsi soli, sia che si viva, sia che si sopravviva, sia che sia muoia, in mezzo alla folla. Un tempo, il carnevale moriva per rinascere. Oggi, persa la memoria del valore del lardo, il carnevale dura tutto l’anno. Anche la memoria del lardo come tempo perduto entra nel ballo in maschera della peste e della guerra, della fame nel mondo, tutti segni dell’ ingiustizia. che nessun carnevale riesce mai a debellare. Sempre sulla pelle dei poveri.
Natalino Piras
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Immagine: Nico Orunesu