Bérénice
susanna sinigaglia
Fog – rassegna di danza e teatro – Triennale
Teatro dell’arte Milano
Bérénice
da Jean Racine
Romeo Castellucci
Questo lavoro di Romeo Castellucci è, come spesso le sue proposte, estremamente spiazzante. Tratto dalla tragedia di Racine, che già all’epoca aveva cercato di riproporre la tragedia greca mescolando la cultura greca con quella cristiana, vuole essere il tentativo di rendere attuale il lavoro di Racine attraverso il suo anacronismo. “È collocandoci fuori dal tempo, infatti, che possiamo osservare meglio la nostra società disfunzionale, proprio come si può vedere meglio il cammino solo uscendo dal tracciato”, afferma il regista in un’intervista condotta da Mélanie Drouère. Quasi a sottolineare questo “essere fuori dal tempo”, tutto il teatro è avvolto da una specie di nebbia che s’intensifica entrando in sala.
La vicenda di Bérénice è semplice nella sua drammaticità. Tito ha conquistato il Regno di Giuda e si è innamorato di Bérénice, principessa del Regno. Lei lo ha seguito a Roma per sposarlo ma il Senato si oppone al matrimonio essendo la donna una principessa straniera. E Tito, che sta per essere incoronato imperatore, pur amandola si sottomette al volere dei senatori.
L’interpretazione di Bérénice è affidata a Isabelle Huppert, che domina la scena anche quando non è in scena. Infatti si sente il suo personaggio incombere, o aleggiare, sul palcoscenico durante tutto il secondo tempo, malgrado la sua assenza fisica.
Il testo di Racine è appena sussurrato dall’attrice che si trova dietro a un tendaggio velato, isolata da tutto, lontana. È a sua volta vestita di veli e una piccola corona argentata le cinge la testa.
Il testo tradotto dal francese scorre sui sovratitoli in alto; eppure le parole non hanno importanza per il loro significato ma solo per le emozioni che trasmette il modo in cui vengono pronunciate. E sono strazianti. Lo strazio non ha parole per dirsi. La presenza di un radiatore, di una lavatrice, sembra voler accennare al dolore del femminile segregato, ristretto in un ruolo, a volte schiacciato dalle regole sociali imposte o autoimposte.
Castellucci mette in scena l’incoronazione presentandoci innanzitutto Tito e Antioco, amico del futuro imperatore, segretamente innamorato di Bérénice. Entrano indossando lunghi mantelli di cui si disfano quasi subito: sono seminudi e in particolare Antioco indossa strani pantaloni molto abbassati in vita, che danno l’impressione di potergli cadere da un momento all’altro.
Non c’è testo per loro ma interpretano un muto duetto a passi di danza prima di essere raggiunti dai senatori, completamente nudi. E qui non possiamo non notare il contrasto fra i sontuosi abiti di Bérénice e la nudità degli uomini di potere, che ne sembrano quasi esautorati se non ridotti al rango di schiavi.
Compare a un tratto una sorta di croce su cui viene portato Tito, alludendo forse alla croce di cui si è caricato accettando l’Impero e rinunciando all’amore, simbolo per eccellenza della cultura cristiana.
Nella sinossi consegnata al pubblico all’ingresso in sala si legge che nella tragedia di Racine Bérénice, comprendendo che Tito l’ama, infine trova, in questa consapevolezza, consolazione (altro elemento della cultura cristiana). Castellucci invece è di parere diverso. Nelle ultime battute la “sua” Bérénice esce allo scoperto, oltre la tenda velata, di fronte al pubblico. Mentre nella prima parte il suo dolore era appena sussurrato, come protetto da un bozzolo di bambagia a ricordare l’elaborazione del lutto,
ora le escono dalla bocca sillabe smozzicate, strozzate, ma perfettamente percepibili
e prima di uscire definitivamente di scena, si volta verso il pubblico urlando ripetutamente con voce alterata: “Ne me regardez pas!”.
Orgoglio? Pudore? Rabbia? Dolore? Finale eccessivo forse, ma in sintonia con l’essenza della tragedia greca, dove l’eroe sconfitto mantiene la sua grandezza.