NORDKAPP

un viaggio nella fascinazione

di Gian Luigi Deiana

1- FUGACITÀ

essendo nato al solstizio di giugno, quell’estate del 1974 segnò per me la maggiore età, poiché allora si diventava ufficialmente adulti a ventun anni; nelle famiglie estese ciò non voleva dire che finalmente potevi decidere per i fatti tuoi, tutto il contrario: zii e zie sentivano il dovere di vigilare su di te più di quando eri piccino;

le mie cose dell’università procedevano spedite e credevo di potermi concedere qualche settimana con due soldi e un sacco a pelo; finì per succedere davvero, ma uno zio senza figli e una zia che invece ne abbondava ne determinarono imprevedibilmente il modo e la meta;

lo zio era un maestro elementare ed era scettico sulla mia scelta universitaria: era certissimo che un diploma magistrale fosse in grado di dare maggiori garanzie che non una laurea in filosofia, e così mesi prima e a mia insaputa aveva inoltrato la domanda perché ne potessi sostenere l’esame; io ubbidii: del resto con l’occasione sarei potuto venire in sardegna a sue spese, e pur sacrificando il mese di luglio il tempo di agosto sarebbe stato comunque generoso per consentirmi di andare in giro;

tuttavia lo zio nella domanda d’esame non solo aveva ignobilmente firmato per me, ma aveva anche indicato come mia data di nascita quella di uno dei miei dodici cugini di parte materna; ignaro di ciò io la prima mattina d’esame mi disposi a scrivere il tema, in un’aula in cui erano impegnate nella prova anche le ragazze di un istituto di suore; erano accompagnate da una monaca giovane e straordinariamente bella; ci feci caso perché al ritorno da una mia breve uscita per andare in bagno la sorpresi a leggere il mio foglio, e mentre tornavo al mio posto mi fece un sorriso luminoso; era curioso perché nel mio tema non vi era nulla di monacale, ricordo che a quel punto dello svolgimento trattava dei jefferson airplane;

di lì a poco il presidente della commissione mi chiamò da parte e mi chiese conto dell’incongruenza sulla data di nascita e sulla veridicità della firma; disse che era grave e mi pose di fronte alla condizione di abbandonare; ma ecco allora, silenzioso come la gentilezza di una nuvola, l’angelo del signore: la suora, che sapeva della mia irregolarità essendo anch’essa membro della commissione, gli disse di dare almeno un’occhiata al mio tema prima di procedere; ne seguì di nuovo un sorriso molto luminoso e invidiai quella serenità, tanto che la porto con me ancora; fui perdonato e infatti due anni dopo mi ritrovai a insegnare ai bambini; la mia estate iniziava con manifesta soddisfazione per lo zio, con un piccolo gruzzolo di premio per me, e soprattutto con la meraviglia destata in me dalla fugacità dell’angelo del signore;

la zia invece abitava a chiavari, in liguria, e la situazione era simpatica ma molto più prosaica: aveva tre figli belli e bravi da far ammattire, i due più piccoli erano gemelli e il maggiore aveva solo un anno più di loro; lei mi aveva chiesto di stare qualche settimana per alleggerire la situazione, cioè portarli a zonzo e far loro lezioni di scuola; per convincermi si era anche proposta di prenotarmi una villeggiatura da qualche parte, cosa per me decisamente bizzarra; ma io ne approfittai e le dissi che per me sarebbe stato molto meglio il pagamento di un biglietto ferroviario di andata e ritorno da milano a copenaghen o qualcosa di simile; ai tempi vi era per gli studenti una soluzione molto poco dispendiosa, si chiamava ‘transalpino’: però era spartana e valeva solo di venerdì, per cui se ti fosse capitato di perdere il treno alla data stabilita avresti dovuto aspettare sette giorni per la data utile successiva;

 

fu così che immaginai di poter fare una cosa verso le soglie del mondo, per come il mondo mi appariva allora: andare da copenaghen a capo nord in autostop e rivenire giù in tempo per il treno del ritorno entro tre venerdì; avrei solo dovuto assolvere a due condizioni decisive: convincere quello che tra i miei compagni di scuola aveva maggiormente condiviso con me un tal genere di fantasticherie, e muovere il più alto in grado dei miei zii carabinieri per chiedere alla questura di viterbo di farmi un passaporto in tempi accelerati;

la sera del 31 agosto tommaso e io eravamo alla stazione centrale a milano, con due zaini da quattro soldi, duemila chilometri di ferrovia e ventiquattro ore di treno davanti;

nonostante fossimo ben coscienti della nostra assoluta inadeguatezza di fronte ai giorni che ci aspettavano, provvisoriamente ci abbandonammo alla sensazione di avercela fatta; dormimmo quasi di continuo e del resto la velocità del treno concedeva ben poco al paesaggio; di mattina fece una breve sosta a fulda, a mezza germania, ma si fermò davvero soltanto in pieno pomeriggio, al porto ferroviario di puttgarden, sul baltico verso lubecca: lì il treno doveva salire in barca per poter raggiungere l’isola  di seeland nella quale si trova copenaghen;

arrivammo di notte; dopo aver gironzolato un poco in stazione ci disponemmo sotto una scala di ferro, con i rumori di treno che trottavano vicini e lontani; era sabato primo settembre, ed esattamente venti giorni dopo, venerdì 21, saremmo dovuti essere di nuovo lì sul treno di ritorno per casa; in mezzo vi erano tremila chilometri di norvegia verso nord e altri tremila di finlandia e di svezia per il ritorno a sud; non sapevamo nulla della condizione della strada e della frequentazione automobilistica; sapevamo certamente che il 21 settembre sarebbe iniziato ufficialmente l’autunno, ma tanto fino a quel giorno per noi era estate e ci saremmo rientrati benissimo; solo che i giorni di fine estate al quarantesimo parallelo sono diversi da quelli del settantesimo: qualcosa cambia tra viterbo e oslo e tra tarquinia e il circolo polare; ma ormai non restava che andare a vedere: oltre uno zaino di poche cose per ciascuno, disponevamo di seimila chilometri della creazione e di venti giorni della nostra vita: un azzardo di trecento chilometri al giorno affidato all’autostop in un territorio che presumibilmente era sempre più deserto man mano che lo si percorreva;

dedicammo la nostra prima mattina danese a curiosare nelle prime vie centrali della città e a rimediare poche vettovaglie e una mappa di tutta la scandinavia; poi ci incamminammo verso la periferia, andando a nord; per passare in svezia avremmo dovuto raggiungere un piccolo porto, cinquanta chilometri più su; procedemmo a piedi fino a incrociare le grandi scritte che troneggiavano sugli stabilimenti della tuborg, ormai quasi fuori dai quartieri residenziali; poi prendemmo brevi passaggi a singhiozzo fino alla nostra barca svedese: eravamo nientemeno che a helsingor, la magnifica cittadina di amleto che allora era una specie di giardino incantato, ma ovviamente non avevamo tempo da dedicare a shakespeare e al castello del regno di danimarca; credo che sia stata proprio l’estatica perfezione di quel paesaggio a indurre quell’immenso autore a scrivere come sia facile che vi sia del marcio laddove tutto appare incantato;

per due giorni filammo veloci per i cinquecento chilometri che ci separavano da oslo, lungo la costa occidentale della svezia; a oslo dormimmo dalle parti dell’università e la mattina dopo andammo a gironzolare; oslo è una specie di città sorridente, però è posizionata sul budello di un fiordo ed è molto lunga; dovevamo penare per raggiungere la periferia, ma a klofta, un sobborgo allora piccino, eravamo finalmente in strada: stavamo per entrare nella mitica interminabile e6, ma il primo atto fu davvero particolare;

 

mentre eravamo su un piccolo cavalcavia, intenti a decidere dove posizionarci per l’autostop, fummo raggiunti da due ragazze graziosissime e molto gentili; ci chiesero da dove venivamo e dove intendevamo andare; purtroppo eravamo dei veri falliti dal punto di vista della conoscenza dell’inglese, ma evidentemente eravamo tutti e quattro in grado di sopperire con piccoli gesti di simpatia; si chiamavano kari e tove, e qualche tempo dopo ci mandarono le loro fotografie; a volte mi chiedo se sia stato un peccato aver trascurato queste angeliche conoscenze, ma così è stato; ed è per questo che non le dimentichiamo: è la bellezza della fugacità; forse era la suora del mio tema coi jefferson airplane che mi tornava in apparizione;

2 – NELL’ AUREOLA DELLA TERRA

quando ti proponi di fare la e6 non puoi concederti distrazioni: del resto la e6 è la via maestra necessaria per comprendere tutta la complicata geografia norvegese; questo significa che alla tua prima volta devi sacrificare tutto il sud coi suoi deserti di pietra, i suoi fiordi senza fine, i suoi ghiacciai millenari e le sue montagne alpine: hardangervidda, sognefiord, josterdalsbreen, jothunheim e altre mille toponomastiche immodificabili; visitare tutti questi luoghi significherà tornare un’altra volta, un’altra e un’altra ancora; se avrai un figlio verrai qui con lui e se poi ne avrai un altro ancora verrai qui si nuovo; vi è stata gente ovunque qui nei secoli dei climi creativi; solo cinquecento anni fa verso bergen si coltivava anche la vite e ancora oggi nella prima estate le ciliegie rosseggiano lungo le sponde assolate; duemila chilometri più su, verso alta, comunità umane di epoca neolitica cominciarono ad antropizzare la costa artica almeno venticinque secoli prima di cristo, cioè duemila anni prima della civiltà etrusca e più o meno in contemporanea con la comparsa dei sumeri in mesopotamia;

la e6 deve però evitare col suo tracciato queste complicazioni di fiordi e montagne, per rendere agevolmente percorribile almeno durante l’estate questo territorio sconfinato; essa perciò segue prevalentemente lunghe valli fluviali, e tuttavia non può evitare valichi, altopiani e traversate marittime su fiordi trasversali;

ci fece notte a dombas, capoluogo di un altopiano a quasi quattrocento chilometri da oslo; il paesaggio dell’altopiano è tanto bello da commuovere per i colori di pietra rossa e cespugli di mirtillo; sulla destra si delinea per decine di chilometri la montagna di rondane, che ospita l’antica leggenda di peer gynt; la leggenda di peer gynt narra di come la natura lasci cicatrici indelebili quando viene ferita: peer uccide un troll, e da allora gli spiriti della montagna entrano in lui: egli diventa un altro uomo rispetto a quello che era, diventa un circonfuso;

noi, tommaso ed io, non avevamo ucciso nessuno, ma l’effetto era quasi uguale; quando arrivammo a trondheim eravamo a quasi quattrocento chilometri da oslo, a circa novecento da copenaghen e per l’altro verso a duemila da capo nord; eravamo in media perfetta;

perfetta, ma con un imprevisto motivo di sgomento: trondheim era allora la più estrema realtà propriamente urbana della norvegia: vantava un ruolo decisivo nella cristianizzazione del mondo vikingo e fu a lungo la diocesi più settentrionale d’europa; cioè era il capolinea: e infatti appena fuori dall’abitato scoprimmo che da lì in poi la mitica e6 era solo una pista sterrata; ci attendevano cioè duemila chilometri di strada bianca; eravamo sgomenti, ma ormai non potevamo fare altro che andare avanti

il traffico era ormai quasi scomparso: due o quattro automobili all’ora non fanno propriamente un traffico, e tuttavia noi avanzavamo; la pista seguiva la valle diritta segnata dal fiume namsos, e correva quasi in parallelo con una vecchia ferrovia; fu così che a sera raggiungemo il pacifico villaggio di namsskogan e il giorno dopo mosjoen; qui pernottammo in quella che sembrava una casa in ristrutturazione e frugando fra le cose di cantiere sgraffignammo una piccola candela; dovemmo prendere atto, senza perdono, del fatto che non avevamo nemmeno una torcia a pila, e fu così che ci votammo alla piccola candela;

di notte cominciava davvero a far freddo e noi eravamo leggeri da far paura; però di giorno il buon dio ci concedeva lunghe ore di sole e in un certo senso cominciavamo a essere in costante vantaggio rispetto alla notte: eravamo ormai in prossimità del circolo polare e l’ora del tramonto scivolava sempre più verso la tarda notte; inoltre in realtà anche tra il tramonto e l’alba non veniva propriamente il buio tenebroso: un’ampia conca di chiaro si spostava impercettibilmente da ovest a est, fino al trionfo della nuova aurora;

la e6 incrocia il circolo polare sull’altopiano di svartfell e poi si getta in una interminabile discesa verso il grande nord; un passaggio strepitoso ci consentì di arrivare a fauske, il crocevia per la svezia mineraria ad est e per le isole lofoten ad ovest; l’automobilista che ci portava non poté gioire granché per la conversazione, considerato il livello penoso del nostro dizionario inglese, e tuttavia invece di lasciarci per strada ci portò in un camping e pagò per noi l’uso di un bungalow per quella notte; eravamo esterrefatti e non sapevamo come ringraziare, cioè lo facemmo naufragando in un comico balbettio;

avevamo ormai consumato circa un terzo del tempo, ma in compenso avevamo coperto quasi un terzo di tutti i seimila chilometri cui ci eravamo votati; la sera dopo affrontammo il primo attraversamento di fiordo in traghetto, e ne approfittammo per passare la notte al calduccio nella casetta di legno del porticciolo di arrivo, adibita a sala d’attesa; il posto si chiamava skarberget; il giorno successivo facemmo il secondo fiordo della e6, a olderdalen: ma qui, sorprendentemente, prestarono attenzione a noi due signori che viaggiavano comodi su un furgone volkswagen; era una giovane coppia tedesca, che veniva da wurzburg, un posto che come fulda è a mezza germania; erano di nuovo gli angeli del signore: dio probabilmente aveva stabilito di affidarci a loro per almeno mille chilometri, i più desertici e freddi che ci potessimo aspettare;

ci fermammo ad alta per curiosare tra le bancarelle; drappelli di mamme lapponi in abiti variopinti esibivano le loro cose artigiane, calzari di pelle di renna, corni intarsiati, tessuti ricamati e piccoli monili d’argento; scoprimmo che avevano un debole per le bottiglie di alcoolici e che per una boccia di martini potevano essere disposte a darti tantissima mercanzia; la più attempata tra esse disse al nostro amico di wurzburg che una bottiglia di martini aveva il potere di farle sentire in paradiso;

a sera i nostri amici ci lasciarono al bivio per hammerfest, che costituiva per loro una meta supplementare; ci segnarono tutta la strada che avrebbero poi fatto per tornare a sud, tagliando di netto la lapponia in territorio finlandese, e ci raccomandarono di non discostarci da quella linea perché in tal modo ci saremmo comunque reincontrati: e così fu;

ci restò il tempo per recuperare un ultimo passaggio, che ci consentì di arrivare al villaggio di pesca di russenes sul far della sera; un villaggio di pesca non necessariamente è un villaggio abitato: è piuttosto un villaggio di grandi sagome e piccoli fantasmi: esso infatti consiste di gigantesche impalcature adibite all’essiccazione del merluzzo e la frequentazione umana è evidentemente saltuaria; è raro che vi sia anche solo un palo della luce o un qualche segno di conforto umano; solo il fruscio delle onde, l’odore di pesce e salsedine, e qualche cartello con segni di ruggine;

russenes è in realtà un crocevia; la e6 prosegue per ancora un migliaio di chilometri piegando nettamente verso est, lungo la costa di barents, fino al confine russo di murmansk; la strada che la incrocia, e che da quel momento sarebbe stata la nostra, è quella che salendo dal golfo di botnia, e cioè dal mare svedese-finnico, arriva a capo nord;

eravamo quasi alla meta: era il 10 settembre, avevamo lasciato copenaghen 2.700 chilometri alle nostre spalle e ci mancavano ormai solo novanta chilometri, e in mezzo un paio d’ore di nave, per arrivare a capo nord; il porticciolo del nostro nuovo imbarco distava ormai solo una cinquantina di chilometri: si chiamava repvag; su un cartello giallo macchiato di ruggine a bordo strada leggemmo appunto ‘repvag – 49’;

ormai c’eravamo: ma ormai era notte, il cielo era plumbeo e la conca di luce del sole di mezzanotte non c’era; eravamo soli, completamente allo scoperto e cominciò a fare freddo; nella speranza di trovare un qualche riparo cominciammo a camminare; non trovammo riparo, e una pioggerella crudele prese a sferzarci la faccia;

3 – EYES WIDE SHUT: OCCHI SPALANCATI NEL BUIO

quando a russenes decidemmo di prendere a camminare lo facemmo perché non avevamo altra soluzione, e il timore che la pioggerella potesse prendere più consistenza ci impose di proseguire; alle perse, e cioè se proprio non fosse passata alcuna automobile disposta a prenderci su, posto che il porticciolo di repvag distava 49 chilometri ci saremmo comunque potuti arrivare a piedi in dieci ore, cioè prima di mezzogiorno del giorno dopo; almeno per evitare il freddo non ci restava altro da fare;

ma la cosa si rivelò complicata più per la testa che per i piedi; verso mezzanotte cominciò a pararsi davanti a noi, nel buio, la sagoma della montagna che sembrava ingoiare la strada; confidavamo che il tracciato alla fine aggirasse il monte a mezza costa, dalla parte del mare, ma purtroppo non era così; la montagna ingoiava davvero la strada ed il tunnel che ne costituiva l’inghiottitoio apparve d’improvviso, nero e assolutamente privo di qualunque lume;

ripiegammo su una speranza molto più flebile, e cioè che la galleria non fosse molto lunga; e poi alla fin fine avevamo con noi la candela sgraffignata giorni prima a namsskogan; procedemmo un poco ancora con la candela accesa, nell’eco degli scrosci che a varie distanze venivano giù dalla volta scavata nella pancia della montagna;

la galleria era stata bucata chissà quando con l’uso di mine e la sua mezza ellisse era stata lasciata così come le mine l’avevano fatta; la candela accentuava quella sagomatura paurosa e soprattutto sembrava consumarsi terribilmente in fretta; in breve si spense del tutto e a quel punto ci fermammo un poco e riunimmo lo stato maggiore per decidere il da farsi;

la preoccupazione più forte riguardava l’eventualità che ci fossero diramazioni laterali e addirittura che procedendo così, nel buio assoluto, potessimo finire nella pancia della montagna come in un labirinto; giocava però a nostro favore il fatto che su entrambi i lati della carreggiata si era accumulato un piccolo lungo tappeto di ghiaino, come sempre succede nelle strade bianche; e così, se avessimo avanzato rigorosamente in parallelo, uno a destra e uno a sinistra, nell’eventualità di una deviazione o qua o là ce ne saremmo immediatamente accorti;

non sono in grado di ponderare quanto tempo poteva essere durato quel rapporto di sospensione assoluta col mondo; la percezione era totalmente alterata, dovendo restare concentrata sull’eco degli scrosci, i quali piombando giù dalla volta della galleria ci consentivano di intuire in anticipo le curvature della carreggiata, e sul tappeto di ghiaia sotto le nostre scarpe, che costituiva il nostro esile filo di arianna;

facemmo tutta quella strada senza parlare, come fossimo immersi in una liquidità amniotica priva di dimensione; ma d’improvviso, alle spalle di una curva ancora lontana, il buio parve prendere appena chiarore; non come se vi fosse luce oltre di esso, ma come se il buio stesso apparisse alla nostra mente come in una sua propria metamorfosi; non posso dire che trattenemmo il respiro, perché a dire il vero il respiro lo stavamo trattenendo da ore; ma di lì a poco prendemmo a  respirare davvero: stavamo letteralmente respirando luce, la luce dell’alba del settantunesimo parallelo; erano forse le tre della notte artica e ai calendari di casa era forse il dieci di settembre; quando uscimmo dal ventre della montagna, accolti dall’immenso applauso del paesaggio illuminato e tutto in piedi per noi due, potemmo leggere su un cartello pieno di polvere la misura della lunghezza dell’antro: diceva tre chilometri e cinquecento metri;

tre chilometri per tre ore: probabilmente la condensazione di spazio e di tempo più intensa di tutta la nostra vita, come possono apparire le doglie di un parto da parte di chi sta venendo alla luce; la condensazione di spazio e di tempo forse più insensata e irrispondibile che possa mai esserci venuta incontro; e quando risposta non v’è, scrisse il filosofo ludwig wittgenstein, lì è il mistico;

dopo questo lungo istante di serenità procedemmo nell’immenso scenario dell’alba; il sole sarebbe sorto davvero solo qualche ora dopo, ma la luce invadeva ormai ogni angolo delle montagne intorno a noi; la pioggia era cessata e il mare brillava; ore prima per difendere i piedi dal freddo avevamo sovrapposto alle calze delle buste di plastica e ora ebbimo il torto di trascurarne gli effetti; la strada procedeva su tornanti e sebbene ci tenessimo a breve distanza mi resi conto che tommaso procedeva con stanchezza o con sofferenza; solo che non lo diceva e quando arrivammo al dunque provò seriamente dolore liberandosi da quell’impacco; così mi sentii molto in colpa;

decidemmo di fermarci sulla cima dell’ultimo tornante con tutto l’oceano polare davanti a noi; lì vicino, al lato opposto della strada, individuammo una casa di campagna, probabilmente la casa stagionale di un qualche allevatore di renne; avevamo assoluto bisogno di riposo e quindi ci avvicinammo e vi entrammo; in luoghi simili non ho mai trovato serrature, e anche quella casa ne era priva;

dentro c’era anche una stufa e una provvista di legna; accendemmo il fuoco e ce la prendemmo comoda per qualche ora; poi decidemmo di camminare separati, in modo che potesse essere più facile il reperimento di un passaggio di autostop prima di tutto per tommaso; il porticciolo di repvag era ormai abbastanza vicino e quanto a me ci sarei arrivato comunque anche a piedi;

in realtà poi ci ricongiungemmo entro qualche mezz’ora; trattandosi di luoghi allora molto poco frequentati il piccolo traghetto faceva la spola solo due volte al giorno; approfittammo per andare su e giù per il minuscolo villaggio, che ospitava una piccola comunità stabile e vantava anche la chiesetta sulla collina e il piccolo camposanto;

dove c’è un camposanto c’è anche gente viva; però è anche vero che molte delle tombe sono proprio nel giardino di casa, con le poche verdure domestiche e nomi come ingrid e gunnar nelle pietre tombali: da quei giorni ho sempre pensato che si tratta di un modo di convivenza davvero invidiabile con la vicinanza dei propri cari che dormono;

l’undici settembre sbarcammo al mattino a honnisvag e fummo presi su da un maggiolino sufficientemente matto secondo il costume allora in voga: c’erano a bordo due giovani spagnoli ed un loro compagno marocchino che lavoravano ad oslo e che erano venuti su per farsi un giro durante il loro periodo di ferie; entrammo subito in confidenza e da buoni paesani facevamo a gara a sparare maldicenze sui norvegesi;

raggiungemmo l’immensa rupe di capo nord, a picco sul mare artico da un’altezza sublime, appena nel primo pomeriggio; eravamo soli come fossimo i signori dell’artico e girammo in tondo come scemi per qualche ora; poi io raccolsi una piccola pietra nera di ardesia, per portarla a mia madre per accendere i fiammiferi; anche tutti gli altri fecero per un poco dei riti simili, poi il capo del maggiolino si mise in posa proprio in faccia al polo nord, piegò il braccio destro sull’avambraccio del sinistro ed esclamò “adiòs, norvega de mierda”;

non era un’espressione gentile, ma forse era una specie di sfogo conseguito all’interminabile estenuazione; come che sia in quell’istante cominciava finalmente per tutti noi la via del ritorno: era il pomeriggio dell’undici settembre, eravamo esattamente a metà strada ed esattamente a metà del tempo che ci eravamo dati;

quanto a me, ringraziai gli dei o quelli che gli antichi veneravano come i numi custodi dei luoghi, e promisi di tornare prima o poi con persone a me care; alcune di esse erano ancora lontane dal venire al mondo; poi vennero;

4 –  A SUD: SULLE RUOTE DI SANTA KLAUS

stipati in cinque nel piccolo maggiolino matto con gli zaini compressi in ogni spazio restante riprendemmo la strada verso il villaggio di honnisvag, oggi crocevia di smistamento della grande pesca artica, e di qui riprendemmo il traghetto per repvag e cioè l’estrema propaggine settentrionale del continente; poi, come in una religiosa vendetta, entrammo di nuovo nella galleria, quasi come vittoriosi; ora eravamo in una vera automobile con una banda di amici chiassosi e con i fari accesi a denudare cinicamente le forme di quell’eterna oscurità; ma dentro di me ripassando là dentro sentivo una strana composizione di gioia e paura: la tentazione di ostentare un portamento di vittoria su quella specie di mostro nero e insieme una tacita sollecitazione al rispetto di esso; i greci dei tempi antichi chiamarono hybris la tentazione che spinge un essere umano a umiliare le espressioni della natura contro le quali egli ritiene di essere uscito vittorioso; ma ogni infanzia consiste in realtà nell’apprendere la necessità del pudore rispetto ad esse: la montagna, il mare, le altezze, gli abissi, e la tenebra; insomma ci congedammo così da quel luogo, con quella che era per me  una giusta conciliazione e una promessa di ritorno;

in breve fummo di nuovo a russenes dove la strada si divideva: i nostri paesani di quelle ore indimenticabili, due spagnoli e un magrebino, tornavano al loro lavoro da immigrati, giù a oslo; noi due, un viterbese della via cassia e un sardo dei nomadismi pastorali, ci disponemmo dall’altra parte, di nuovo in attesa di qualcuno che si disponesse a prenderci su;

a sera raggiungemmo lakselv, circa settanta chilometri più a sud; lakselv non era allora che un villaggio di frontiera, un avamposto di clan sami allevatori di renne, una missione di calvinisti professanti, e una stazione organizzativa dei servizi di stato;

girovagammo per un poco fra le casette di legno del villaggio fino a trovarne una defilata e con una piccola veranda; così per gioco saggiammo anche la porta e trovammo che non era chiusa a chiave; entrammo spudoratamente, accendemmo la luce e ci mettemmo persino a curiosare; a un certo punto tommaso si lasciò sfuggire qualche espressione di fastidio nei confronti dell’ignoto padrone di casa: vi erano in giro attrezzature fotografiche e pose di pornografia che apparivano assolutamente incongrue in un posto come quello; tuttavia assorbimmo la sorpresa, mangiammo qualcosa e senza patemi di violazione di domicilio ci mettemmo a dormire;

la mattina seguente raggiungemmo karasjok, una delle capitali obbligate della lapponia; il territorio lappone è sterminato, in quanto occupa tutta la fascia del circolo polare di pertinenza norvegese, svedese, finnica e russa; gli insediamenti storicamente più importanti devono la loro durata non tanto a un tessuto abitativo di vita sedentaria, quanto invece alla funzione di servizio del nomadismo pastorale: cioè nacquero essenzialmente su incroci fluviali o incroci di piste e si stabilizzarono nel tempo come sedi di fiera; un’atmosfera di eterna provvisorietà e di assenza di traccia storica materialmente durevole contrassegnava quei luoghi; anche i decenni più recenti hanno comportato una grande prudenza nel fare sulla trama antica degli accampamenti un tessuto di edificazioni murate, piccole scuole, piccoli locali di guardia medica e case di legno almeno per le persone anziane o comunque necessitate;

come ognuno di questi luoghi, anche karasjok era quindi animatissima di bancarelle variopinte e piccole mercanzie sulla polvere della strada; noi curiosammo un poco, poi individuammo il punto in cui dalla e6 si dirama verso sud la statale finnica classificata come e75, e tornammo di nuovo in strada: eravamo finalmente nella magica regione dei laghi;

ed ecco d’improvviso, puntuali come gli angeli del signore, i nostri amici di wurzburg da cui ci eravamo separati alcuni giorni prima sul bivio di hammerfest; ci abbracciammo e ci collocammo in macchina raccontandoci le novità, con l’ausilio da parte nostra di tutto il bagaglio espressivo di chi sa solo quattro parole d’inglese; però funzionava;

non vi era un vero e proprio confine burocratico tra norvegia e finlandia; così ci buttammo verso sud nella grande pianura, superammo inari e poi pernottammo da qualche parte nel vuoto dello spazio immenso, tra le piccole case di ivalo; ivalo è il crocevia più importante per la carelia settentrionale ovvero per la costa di barents e la regione mineraria russa di murmansk; l’aura delle innumerevoli carovane che si sono succedute nei secoli e delle sterminate migrazioni di mandrie regna sul suo paesaggio;

procedemmo senza fermarci quasi niente nello scorrere delle ore, ore tutte uguali in un paesaggio apparentemente tutto uguale, come in uno stato di ipnosi; impiegammo un giorno intero per  superare la lapponia sterminata e raggiungere rovaniemi, la mitica città di santa klaus, e di qui raggiungere finalmente il mare: il lembo settentrionale del grande ramo baltico che divide svezia e finlandia;

santa klaus, smontato dalla slitta e liberato dall’allegra bardatura di babbo natale, è in realtà san nicola: il medesimo san nicola venerato a mosca, a bari o nell’antica bisanzio; deve essere il più cosmopolita di tutti i santi ed ovviamente risulta simpaticissimo ai pastori di renne e ai bambini; a noi risultò simpaticissimo poiché a rovaniemi, la sua città, ritrovammo finalmente l’asfalto e fummo finalmente certi di viaggiare sulle ruote della civiltà;

a kemi, una volta sul lembo del mare, la nostra combriccola si sciolse di nuovo: i nostri amici di wurzburg dovevano proseguire a sud in direzione di helsinki, mentre noi avremmo dovuto proseguire a sud in direzione di stoccolma: sapevamo che dei nostri formidabili giorni passati insieme ci sarebbe rimasto solo il ricordo: dei volti, dei laghi e delle renne per strada; ma il commiato non fu avvolto in alcun velo di tristezza, perché quello che lasciavamo alle nostre spalle era stato meraviglioso;

era sera quando raggiungemmo a piedi la linea di confine tra la finlandia e la svezia, segnata dal ponte sul fiume tornio in prossimità della foce e con le luci che si riflettevano nel mare; la parte svedese della cittadina si chiama haparanda e poiché il traffico appariva vivace, come si addice in genere alle strade costiere, provammo ancora a posizionarci per l’autostop; non sentivamo stanchezza alcuna e contavamo di poter raggiungere, lulea, qualche ora di macchina più a sud, a passare finalmente la notte  in una vera città; a lulea poi c’è una grande stazione ferroviaria e se mai avessimo avuto qualche serio imprevisto la possibilità di ricorrere a un treno ci sembrava aiutare la tranquillità; non avevamo in cassa molti soldi, tuttavia in tutti quei giorni eravamo stati parsimoniosi; ci nutrivamo come soldati di ventura, ma alle bancarelle sami eravamo persino riusciti ad acquistare babbucce di pelle di renna;

e invece no, non potemmo passare la notte a lulea quella notte; appena alla periferia di haparanda, poco dopo esserci messi sul lato della strada, si fermò per noi un’automobile grandiosa e ne discese una magnifica ragazza: restammo interdetti perché così d’improvviso alle ultime luci della sera sembrava una visione; ci disse che era diretta a stoccolma e aprì il vano bagagli per gli zaini; non era una visione: era di nuovo l’angelo del signore;

stoccolma dista da haparanda poco di più che mille chilometri; la strada è diritta e veloce, costellata di stazioni di servizio a intervalli più o meno lunghi; tuttavia per coprire tutta quella distanza è davvero necessaria una buona dozzina di ore e una non comune capacità di attenzione nella guida; forse l’angelo del signore aveva bisogno di noi quanto noi avevamo bisogno di lui; o meglio, di lei: era davvero una magnifica ragazza;

giungemmo a stoccolma in tarda mattinata e ovviamente per orientarci cominciammo dalla stazione; ma eravamo ormai in overdose di immagini e di sensazioni e non sentivamo lo stimolo pressante della curiosità; ci mettemmo a gironzolare pigramente, osservando i passanti e notando le curiosità più casuali: il contegno freddino e generalizzato di chi va per i fatti suoi senza degnare di sguardo alcunché intorno a lui; le vetrine addobbate senza nessuno che si fermasse a osservarle; i passi sconclusionati degli alcoolisti di strada attenti a raccattare bottigliette di vetro per rimediare qualcosa…; insomma a noi non interessava granché di stoccolma, e a stoccolma non interessava di noi; tuttavia poteva risultarci facile trovare il modo di passare la notte, anziché riprendere immediatamente la strada; certamente ci restava da fare ancora un migliaio di chilometri per raggiungere copenaghen, ma ormai eravamo addirittura in anticipo sui tempi desiderati, e in più avevamo un po’ di cassa per l’emergenza e l’eventuale disponibilità della ferrovia;

la mattina successiva attraversammo di buon passo la città, decidendo di indirizzare il nostro tragitto sulla prossimità della linea ferroviaria in direzione di helsinborg e poi di helsingor, la cittadella castellata di amleto lasciata due settimane prima; cioè avremmo dovuto tagliare di netto verso ovest tutta la grande pancia della svezia meridionale, ritagliata su immense aziende agricole, allevamenti di mucche e piccoli e numerosissimi centri industriali; una terra platealmente laboriosa e ordinata, talmente tanto laboriosa e ordinata da apparire anche un pochino disanimata: forse costantemente prevedibile, e ovunque con un sottile velo di noia; o forse si trattava soltanto del nostro stato percettivo, chiaramente già troppo appagato, e poco propenso a cedere all’ordinamento urbano il proprio intimo e selvaggio tesoro;

fino a cento anni fa, o poco più, anche la norvegia apparteneva al regno di svezia; poi ci fu l’indipendenza; sussiste un marcato carattere distintivo fra le due nazioni: i vichinghi vivono di mare, mentre i vareghi vivono di terra; i vichinghi giunsero mille anni fa addirittura in sicilia, e fondarono con l’imperatore federico secondo la prima idea di italia o addirittura di europa; i vareghi traversarono il baltico e si indirizzarono invece verso bisanzio e il mar nero: si facevano chiamare rus, e posero sulla linea fluviale del grande fiume dnepr la linea di confine con le tribù slave: avevano inventato l’ucraina, il cui nome significa appunto il confine e il cui carattere nazionale, segnato dal rapporto col suolo e con la tenacia della coltivazione, conserva quell’antico retaggio;

a noi due del mondo tirrenico in realtà non piacque granché quel retaggio; a metà strada fra stoccolma e la danimarca, proprio nella grande pancia agricola della svezia varega, ci bloccammo per ore nella cittadina di vaxjio; fra gli automobilisti di passaggio non ci  degnava di attenzione proprio nessuno e tutta quell’indifferenza ci sembrava esasperante per noi e patologica per loro; faceva molto caldo e a un certo punto ci venne la bislacca idea di avvicinarci a una delle case sulla via a chiedere dell’acqua; la padrona di casa ci cacciò semplicemente via prorompendo in parole per noi incomprensibili, espresse però in modo visibilmente cattivo; il primo imperativo morale vigente in sardegna dice che l’acqua non si nega; quando lo raccontai a mia madre lei disse che non vi era di che meravigliarsi: ‘meglio sardi che svedesi, lo sanno tutti’; in realtà lei non sapeva nemmeno cosa fosse propriamente la svezia, ma trattandosi di mia madre credo non avesse completamente torto;

in capo a qualche altro giorno raggiungemmo infine helsinborg, riprendemmo il traghetto per la cittadina gemella della sponda danese, l’incantata helsingor piena di fiori, e a sera eravamo di nuovo a copenaghen; era giovedi 20 settembre e la sera dopo avremmo ripreso il treno di casa;

il riattraversamento del continente fu occupato prevalentemente dal sonno e quando arrivammo a milano era quasi sera; la nostra contentezza divenne però quasi opaca nel constatare che a quell’ora era già quasi buio, dopo tanti giorni nei quali per noi la luce era solita durare fin quasi a mezzanotte;

ma infine ce l’avevamo fatta: era ormai autunno, ed era arrivato il tempo in  cui ciascuno di noi due avrebbe dovuto dedicarsi alla propria semina;

5 – IL RACCONTO E LA FAVOLA

non è mai molto difficile inventarsi un provvisorio congedo dalla propria vita quotidiana e immettersi in un viaggio quale che sia; è invece piuttosto difficile sfuggire alla tentazione di raccontarla, questa eccezione alla quotidianità: infatti è una tentazione irrinunciabile particolarmente per i bambini; raccontare l’eccezione assolve quindi ad un imperativo propriamente infantile, ma senza questa enigmatica necessità di fatto non esisterebbe al mondo alcuna letteratura adulta: o no? forse nemmeno alcuna religione, dall’epopea di gilgamesh alla migrazione di abramo, dal mito di giasone alla peregrinazione di maometto, dalla marcia di siddartha a quella di gandhi, o di mao, o del ‘che’; ed esodi, diaspore, fughe, dove un individuo si muove come per una missione cosmica e simmetricamente interi sciami di esseri umani si muovono come uno solo; ogni giovane afghano in calzari sfasciati al confine croato o ogni puerpera nera in libia incarna questo millennario processo: ma qual è la ragione di tutto questo?

il più celebre racconto di viaggio riguarda la vicenda di ulisse; fin quasi alla fine si tratta di un racconto di epos, laddove un uomo trasfigura se stesso in quanto capace di dimensione eroica; egli vince, sia pure a gran prezzo, sugli enigmi della natura che sfuggono alla sua necessità ordinatrice; così annichilisce il gigante polifemo fino a ridere di lui; così resiste all’incanto delle sirene fino a farle rantolare nella loro stessa voce; ma… ma alla fine è lui stesso a desiderare di fuggire a quello stesso ordine cui ha sottomesso ogni espressione vivente intorno a lui; le voci che riteneva di avere spento in realtà sono entrate nelle sue fibre, e lo sollevano di forza dal suo stesso trono: egli se ne va di nuovo, per sempre e senza più racconto possibile; è la stessa vicenda narrata nella leggenda di peer gynt, condannato a vagare per sempre nell’indefinitezza della montagna e della foresta, con dentro di sé la voce del troll da lui ucciso, il cui spirito si è invece impadronito di lui;

è questo il passaggio nel quale, come scrive il grandissimo filosofo theodor adorno a riguardo della narrazione di omero, “l’epos diventa favola”;

anche l’elementare racconto del viaggio di due sconclusionati verso capo nord, sebbene in modo ben più modesto, è soggetto a questa doppiezza di piano: una specie di enfasi epica, in quanto un pochino di incosciente temerarietà può essere necessaria per buttarsi in luoghi ignoti, e insieme una tacita favola costituita dalla sedimentazione continua e silente di sensazioni per sé prive di concreto valore e persino fatue perché possa valere la pena  raccontarle;

ciò che qualifica segnatamente una fuoriuscita dall’ordine costituito della quotidianità è essenzialmente due cose: la dilatazione del tempo e la fugacità delle situazioni; lo ripeto: la dilatazione del tempo e la fugacità delle situazioni;

se molli tutto per un poco, aprendoti una pur piccola diramazione nel segmento del tempo costituito, e te ne vai in giro per un po’ e quanto più possibile sguarnito di tante rinunciabili sicurezze, allora a distanza anche solo di qualche giorno ti sembra di mancare da casa da una settimana; una settimana finisce per sembrarti due o persino più settimane, fino a rendere persino inutile la considerazione misurata della relazione fra i giorni: tu vai, e questo è tutto;

ma cosa si dispone ad ospitare questo ‘tutto’, se ne è per principio imprevedibile l’esatta sequenzialità di ciò che può avvenire?

questo ‘tutto’ si dispone ad ospitare la “fugacità” delle situazioni, il loro sopravvenire informe e la loro casualità; e lasciare che per quanto possibile siano esse, le situazioni fugaci, a decidere quale spazio occupare nel fluire della mente; la ‘mente’ non è propriamente una entità sostanziale denominata con un apposito sostantivo, è piuttosto una specie di participio presente, mens; infatti in principio era il verbo; essa è in primo luogo, o nel modo propriamente infantile che comunque conserviamo sempre, una porta spalancata sul fluire delle sensazioni; e poi un affastellamento di quelle che non volano via da sole e poi ancora una propria autoimposizione nei grovigli della memoria, come quando in treno un’orda di sconosciuti si siede in poltrona senza prenotazione o addirittura senza biglietto; nell’ordinamento quotidiano tu ti metti la divisa da controllore e selezioni chi ha diritto alla prima classe e chi invece deve scendere alla prima fermata, o quali bagagli vanno consegnati al deposito di stazione fino ad essere dimenticati; ma dentro l’eccezione, dentro l’eccezione di un viaggio, non funziona così: tu sei al di là delle colonne d’ercole e non lo sei come un eroe, lo sei come un bambino; e non vi sono controllori oltre le colonne d’ercole, e va assolutamente bene così;

tutti paghiamo un prezzo per l’ordine necessario della quotidianità: il prezzo consiste nel fatto che gli agenti in divisa della quotidianità, per esempio i passanti inespressivi di una città come stoccolma o più semplicemente noi stessi, sono preformati per “catturare” le situazioni così come si catturano gli uccelli di passo o i polli per il foi gras, e in tempi ristretti pesarle, dare loro un prezzo da banco o gettarle via; quelle che non vengono gettate via, e massimamente quelle su cui si confida di più, vengono tesaurizzate: valgono, quindi non possono più permettersi di sfuggire alla classifica dei prezzi;

ma se questo meccanismo diventa autistico e totale chi finisce per essere catturato, alla fine, sono io stesso, e propriamente la tesaurizzazione di sé è sempre la fine irrimediabile di se stessi;

la fugacità è l’opposto della tesaurizzazione; la fugacità ci è necessaria come le apparizioni dell’angelo del signore; l’angelo non ha la funzione della custodia, al contrario: ha la funzione di liberarti da essa; per questo egli è fugace; tutti i bambini ne sono certi e infatti, quando sentono che non vi è altro modo di leggere la realtà, l’angelo lo vedono davvero: è così che il racconto diventa favola

Gian Luigi Deiana

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *