Capitalismo, morte e politica

“Piazza del mondo” di Trieste, 22 luglio 2024. Foto di Lorena Fornasir

di Gian Andrea Franchi (ripreso da comune-info)

Il dominio del denaro si è affermato con la crisi delle religioni che per secoli hanno offerto alcune risposte all’angoscia per la morte. Ma una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, l’unico modo di accogliere la morte. Per mettere in discussione quel dominio abbiamo bisogno di una nuova cultura politica, abbiamo bisogno cioè di luoghi nei quali la capacità di muoversi come collettivi che riscoprono l’azione politica si interseca con l’esperienza del singolo che viene riconosciuto come tale. Appunti dalla “Piazza del Mondo” di Trieste, abitata ogni giorno dai migranti della Rotta balcanica.

 

Tre punti di partenza ineludibili mi sembrano i seguenti: tutte le rivoluzioni sono fallite; tutti i processi di trasformazione radicale, sono in crisi, anche nell’ambito di culture non occidentali (anche lo zapatismo, ad esempio, vive difficoltà e trasformazioni); il capitalismo, con un passo di morte, ci sta portando verso il disastro sociale e biologico. In questo scenario ci sono lotte e anche tentativi di alternative, ma non sembrano in grado di produrre un cambiamento significativo in una macchina di potere globale nella quale le questioni di egemonia, come tra Stati Uniti e Cina, rendono ancora più devastanti le dinamiche politico-economiche.

Di certo, la cultura del capitale, nata in Europa fra il XV° e il XVII° secolo, diffusa ovunque con violenza estrema, ha infranto il nesso vitale tra riproduzione della vita e produzione degli elementi vitali necessari alla riproduzione; detto con concetti più pregnanti, il capitale ha spezzato il nesso fra cura e bisogno. Ha ridotto la cura, indispensabile alla nascita e al lungo processo di crescita dell’essere umano, al minimo, confinandola nel genere femminile e facendo della produzione del necessario per i bisogni vitali un oggetto di compravendita, una merce. Il sorgere e la potente affermazione di questa dinamica storica hanno rotto il vincolo vitale dei bisogni con l’effetto di spingerli all’eccesso, moltiplicandone illimitatamente la produzione. Lo scopo, infatti, non è più la necessaria soddisfazione del bisogno, ma la produzione tendenzialmente illimitata dello scambio, cioè del valore di scambio, del denaro.

Questa frattura fra cura (riproduzione) e bisogno (produzione) si manifesta come una ferita irreparabile all’equilibrio della vita: una ferita mortale.

Il capitalismo ha trasformato il valore d’uso in valore di scambio, ovvero in qualcosa di quantificabile, che vuol dire di controllabile, anche se paradossalmente – un paradosso che vorrei chiamare ontologico – è proprio questo esasperato bisogno di controllo che provoca il suo contrario: la perdita di ogni controllo, siamo su una nave nel mare in tempesta.

Mi chiedo e chiedo: come mai il valore di scambio è diventato così importante da costituire lo scopo dominante, se non unico, della civiltà che negli ultimi secoli si è imposta in tutto il mondo, al punto di mettere a rischio la vita stessa? La risposta – nella misura in cui è possibile rispondere a questa domanda – si può cercare nella crisi europea della visione religiosa della società e della vita, fra XV° e XVII° secolo, in cui è apparsa e si è sviluppata una variante che ha aperto prima un sentiero poi un’autostrada in grado di rimuovere il problema fondamentale di tutte le società, di tutte le culture: la questione della morte.

L’essere umano è il vivente consapevole della morte: questo produce un’angoscia che deve essere elaborata o rimossa. Le religioni, in senso lato, servono appunto ad elaborare l’angoscia per la morte, attraverso rituali in cui gestire il transito dalla vita alla morte mediante l’accoglienza comunitaria del lascito del defunto.

In questa nuova cultura, che da Marx in poi chiamiamo correntemente capitalismo, la forma fondamentale dell’organizzazione della società è ciò che, con nome di origine greca, chiamiamo economia: il nomos dell’oikos (casa o luogo della vita quotidiana), che invece dovremmo chiamare polinomìa, il nomos della polis. Questa cultura è caratterizzata dalla tendenza a ridurre i rapporti sociali a rapporti tenuti insieme da un criterio quantitativo, misurabile attraverso uno strumento di calcolo: il denaro, per cui il valore e il potere individuali, e quindi il potere sociale, si misurano essenzialmente con il possesso o il controllo del denaro diventato la forma fondamentale di relazione sociale. Il potere della ricchezza è sempre stato notevole, soprattutto nelle società più grandi e complesse, ma con il capitalismo è diventato la forma stessa del vivere sociale, non solo: della vita intera, trasformata in un magazzino di merci.

Una società caratterizzata da una forma valoriale e organizzativa misurabile quantitativamente è risultata molto efficace proprio per il potere dell’astrazione nel rimuovere l’angoscia per la morte, eliminando nel contempo ogni forma rituale. Una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, ma la comunità è l’unico modo di accogliere la morte.

C’è una notissima riflessione storica che può aiutare a comprendere in Europa il passaggio dalla società precapitalistica, in cui il valore del denaro era anche molto forte ma non totalizzante, alla società capitalistica. Mi riferisco a Max Weber che individua la formazione di un’élite capitalistica a partire dalla cultura calvinista, soprattutto nelle sue varianti anglosassoni, in cui si elabora “l’adempimento del proprio dovere nelle professioni mondane come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica”1, una cultura emigrata anche in nord America. Di questa cultura, inizialmente propria di una élite di origine borghese, Oliver Cromwell in Gran Bretagna e Benjamin Franklin in America del nord sono due figure esemplari: il primo con una terribile violenza coloniale contro gli irlandesi nella feroce convinzione, su base religiosa, che vadano educati al lavoro, analoga al “Manifest destiny” che ha guidato culturalmente l’affermazione degli Stati Uniti; il secondo offrendo l’esempio concreto di una quotidianità operosa tutta dedita all’onesto guadagno: “ricordati che il tempo è denaro”, “ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”, in cui risulta evidente il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia nell’operatività quotidiana. I due aspetti sono complementari: la violenza estrema, giunta fino al genocidio e la serena operosità di ogni giorno e si sono a lungo appoggiati reciprocamente. Oggi – possiamo dire che il primo è scomparso a favore del secondo:

“un imprenditore, Elon Musk, CEO di Tesla, ha domandato e ottenuto una remunerazione annuale di 56 miliardi di dollari. Nel vecchio capitalismo industriale (ma ancora negli anni Cinquanta) il rapporto tra il salario dell’operaio e il compenso del padrone era al massimo di 1 a 20. Negli anni 80, di 1 a 42. Nel 2000, di 1 a 120 e via via aumentando fino all’1:56 miliardi di dollari di oggi. […] la presidente di Tesla, Robyn Denholm, in una lettera ha spiegato agli azionisti che lo «stipendio», serve «a mantenere l’attenzione di Elon e a motivarlo a concentrarsi sul raggiungimento di una crescita sorprendente per la nostra azienda». Musk «non è un manager tipico» e per motivarlo «serve qualcosa di diverso»”2.

Un chiaro esempio di come il denaro ha acquistato una valenza insieme simbolica, di altissimo status sociale, e di potere concreto.

Il denaro si è rivelato come il fondamentale strumento di rimozione dell’angoscia per la morte nella misura in cui è uno strumento di potere in grado di diffondersi nelle società attraverso la gestione della soddisfazione dei bisogni vitali trasformata in produzione in merci: il denaro è modernamente il diaframma tra il bisogno e la sua soddisfazione. Ciò ha moltiplicato illimitatamente i bisogni, trasformando il cittadino in individuo consumatore. Il denaro è penetrato alla radice del carattere relazionale della soggettività.

Senza denaro siamo nudi in mezzo al deserto, come i migranti che attraversano il Sahara – e anche in molti vi muoiono.

Con il denaro siamo chiusi in una gabbia dall’estensione illimitata.

Trasformare la vita intera in una produttrice di denaro – cioè di potere dei pochissimi su tutti, su tutto – sta però avvelenando la vita: la morte rimossa tracima dal pavimento della cella, delle innumerevoli celle della terra. Con un paradosso, che ancora mi permetto di chiamare ontologico, la morte è diventata il mercato più importante: la produzione di strumenti direttamente o indirettamente legati alla produzione di morte, in tutte le sue forme, con alto sviluppo tecnologico, come l’Intelligenza Artificiale, di cui l’esercito di Israele si serve nel genocidio di Gaza.

In tale contesto, con un brusco salto storico ed esistenziale che contiene un sofferto nesso biografico, è inevitabile la domanda “Che fare?”.

Colloco questa domanda nell’esperienza di vivere su un confine di Stato, di fronte, quindi, a uno strumento caratteristico di produzione di quella violenza. Arrivo allora al luogo che chiamiamo “Piazza del Mondo”: la piazza alberata di fronte alla stazione di Trieste. I migranti in fuga e in cerca che arrivano dalla Rotta balcanica mi danno – anzi: ci danno perché non può che accadere in una dimensione collettiva – l’opportunità di produrre un tentativo di risposta: il loro cammino mi spinge, ci spinge, lungo il nostro cammino. La piazza del Mondo è un luogo in cui si manifesta il fondo della soggettività: la ricerca di riconoscimento, sia come disperato bisogno di autoaffermazione che come ricerca di sé nell’altro. È un luogo, quindi, in cui traspare la prima matrice del gesto politico, che, nell’azione di massa tende a confondersi nello slancio emotivo e corporeo della moltitudine, momento necessario, di entusiasmo e di lotta, ma insufficiente – come dovremmo aver dolorosamente compreso – se non accompagnato dall’esperienza del singolo.

 

Il tempo della singolarità e quello della moltitudine tendono a divaricarsi: il primo molto più lento e complesso del secondo, che vive di slanci. Io credo che sia nata in questa drammatica divaricazione la crisi dei periodi di azione politica radicale, come quello a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ma solo un rapporto tra le due dimensioni temporali può garantire la continuità, collocando i momenti di massa lungo un cammino.

Nella Piazza del Mondo si agitano molto concretamente, nell’incontro fra corpi, queste problematiche. I bisogni elementari, necessari, si intersecano con i bisogni di riconoscimento, il dolore fisico e psichico con la gioia, l’allegria, la frustrazione, come le lingue molteplici, la diversità di culture…

1 Max Weber, Etica protestante e spirito del capitalismo, Sansoni 1965 (1922), p. 145.

2 Maurizio Lazzarato, La “guerra civile” in Francia”, da Machina rivista on line.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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