Tamatas
di Natalino Piras
Di questo tempo Pascale Mercante iniziava a portare in Biblioteca i frutti della campagna: fichi, fichi d’India, qualche grappolo d’uva. E pomodori. Lasciava il tutto fuori dalla vetrata d’ingresso, secchi di plastica ma pure qualche piskeddu ricolmi: di modo che la cosa bastasse per tutti. Quando qualcuna o qualcuno veniva ad avvisare Pascale Mercante era già andato via. Portare in Biblioteca il frutto del suo lavoro di campagnolo era per Pascale una maniera di dire grazie. Perché la Biblioteca lo accoglieva, là si sentiva importante. Sia che chiedesse di ottenere una fotocopia – a volte portava anche lacerti di manifesti mortuari e chiedeva a Palighetta: “Deddè a mi la faches una fotostatica?“– sia che, vestito impeccabile in completo di velluto discutesse alla pari, accalorato, con molti soloni e professoroni che in Biblioteca venivano a fare convegni su Grazia Deledda, Sebastiano e Salvatore Satta.
Cento e passa anni di solitudine.
Quando morì Pascale Mercante feci un pezzo uscito a caratteri in corsivo e con bella evidenza sull’ Ortobene allora diretto da don Salvatore Bussu. Seguiva di poco un altro pezzo uscito in terza pagina dell’Unione Sarda su Cuccujedda, “l’ultimo figaro di vico Tola”, a due passi dalla Biblioteca. L’articolo, lo venni a sapere in seguito, andò a ruba. Pantera alias Giovanni Pittalis lo aveva fotocopiato e distribuito a piene mani tra la clientela della Corte dei cotti, equidistante da noi alla stessa stregua dell’attuale Clinica 54.
La Clinica stava quasi dirimpetto a quella che fu la barbieria di Cuccuja, che vuol dire letteralmente mandorla acerba. Cuccujedda era minuto, mingherlino, il contrario di Pascale che invece appariva, specie quando usciva in canadese, un pallone di cuoio sottobraccio, andatura da triste hidalgo, une bette tziu, di statura grossa. Pascale e Francesco Carroni, il vero nome di Cuccujedda, sono il versante creativo della Biblioteca. Mi sono tornati alla memoria ieri al tramontare del giorno, a Crastu Jacone, nell’orto. Ancor prima di dare l’acqua ai solchi, Tullio aveva disteso sul tavolo in granito della parte bassa della campagna i copiosi frutti della raccolta. Su tutto spiccava il rosso dei pomodori, un’isola circondata dal verde dell’indivia, delle zucchine e dei peperoni, dal viola scuro delle melanzane. Pochi i cetrioli – sarà il seme, il tipo di pianta – accompagnati alle prime pesche e a qualche pera, di quelle che maturano tardi. Così è la terra: dà frutto se la lavori. Mi è venuto in mente che quando Pascale Mercante portava in Biblioteca le cose di Badde Manna – c’era il tempo delle olive – nessuno ne prendeva. Chi sa perché. Forse perché non bisogna condividere con gli strani e con i folli quanto è della stranezza e della follia. Eppure la Biblioteca esiste anche per accogliere, dare casa e habitus alla gente del mondo alla rovescia. C’è ancora molto da zappare perché questa teoria diventi pratica estesa, democrazia del quotidiano, tanto più contraddittoria quanto più strada di costruzione di pace. È che da molto tempo siamo in guerra.
Ieri, primo settembre, sono passati 76 anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Pochi sono sembrati ricordarsene.
Natalino Piras, 2 settembre 2015
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Immagini: Nico Orunesu