Yilmaz Güney. La via del popolo curdo

da Infoaut

Imrali, una piccola isola della Turchia collocata nel sud del Mar di Marmara, è tristemente nota per essere la prigione di massima sicurezza di un solo detenuto, Abdullah Öcalan il leader del Partîya Karkerén Kurdîstan (PKK). Da quel carcere nel 1981, tuttavia, un uomo riuscì ad evadere, era un attore e un regista, era un comunista curdo, era Yilmaz Güney che da dietro le sbarre riuscì a dirigere Yol, Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1982.

Proveniente da una famiglia curda, il padre di origine Zaza era di Siverek mentre la madre era nata a Varto, Yilmaz Güney, all’anagrafe Yilmaz Pütün, nacque l’1 aprile del 1937 a Yenice un villaggio nei pressi di Adana, nel sud est della Turchia, dove i genitori erano emigrati per lavorare nei campi di cotone. Il giovane Yilmaz crebbe così immerso nella classe operaia e contadina della prima metà del secolo scorso, a diretto contatto con gli emarginati del Paese. L’infanzia di Yilmaz fu difficile. Tuttavia grazie alla politica della “Scuola per tutti” introdotta dal Governo turco, riuscì a frequentare Giurisprudenza ed Economia ad Ankara e a Istanbul, per poi laurearsi in Scienza politiche.

La passione per il cinema nacque in quegli anni, prima trasportando in bicicletta le “pizze” delle pellicole da un villaggio all’altro, poi facendo il proiezionista. All’età di 21 anni debuttò come assistente del regista Atif Yilmaz (Mersin, 9 dicembre 1925 – Istanbul, 5 maggio 2006), poi autore di Berdel – Scambio di mogli (1990) che lo fece esordire come attore nel film Bu Vatanin Çocuklari (1958). Yilmaz decise di adottare lo pseudonimo di Güney (Sud, in italiano) per omaggiare i poveri del sud est della Turchia, per omaggiare la sua gente.

Güney iniziò anche a scrivere, dopo aver letto la saga “Mehmet il sottile” (tradotto da Garzanti nel 1961 come “Il cardo”) di Yasar Kemal, intellettuale turco dalle vive simpatie comuniste che aveva dato voce ai poveri del sud est oppressi dai signori e riscattati da un eroe. Ma non appena pubblicò i suoi primi racconti su una rivista letteraria, perse il lavoro e venne incarcerato per diciotto mesi. Era il 1961 e Güney aveva solo 24 anni. La sua colpa? Essere un comunista che aveva fatto dire ad una contadina “Se tutti fossero uguali il mondo sarebbe un paradiso”.

Tornato in libertà nel 1962 Güney iniziò a lavorare come sceneggiatore per Kemal e Yilmar. I suoi scritti davano ampio spazio alla critica sociale con uno spirito di rivolta verso il potere locale e centrale. Negli stessi anni divenne anche l’attore più popolare del cinema turco, capace di girare fino a quindici pellicole all’anno, spesso interpretando il ruolo di un protagonista “straccione”, perseguitato, fuorilegge. Un ribelle che si batteva per una giusta causa

Il primo film a lasciare un segno più profondo fu Hudutlarin Kanunu (La legge del confine, 1966) diretto da Ömer Lütfi Akad, ma scritto da Güney. In un villaggio di pastori al confine con la Siria un giovane tenente (Atilla Ergün) è chiamato per porre fine alle operazioni di contrabbando portate avanti da due bande rivali, una delle quali guidata dall’irrequieto Hidir (Yilmaz Güney). Uno dei primi film turchi ad avere visibilità internazionale grazie al ritratto di un mondo in cui vigono leggi non scritte e dove i legami di sangue sono tutto.

Seguirono (tra parentesi le traduzioni in italiano, benché i film siano inediti nel nostro Paese): Kibar haydut (Il bandito gentile, 1966) di Yilmaz Atadeniz, Ksn Su Gibi Akacak (Il sangue scorrerà come acqua, 1969) di Mehmet Aslan.
Ma fare l’attore a Güney non bastava, la sua militanza politica lo portò a scrivere direttamente i suoi copioni, a dirigerli, a produrli con sempre maggiore frequenza ed intensità. Già nel 1965 aveva debuttato alla regia girando At Avrat Silah (La donna armata), ma fu dopo aver fondato nel 1968 la sua compagnia di produzione, la Guney Filmcilik, che ebbe il controllo su ogni aspetto produttivo.

Nacquero così Umut (La speranza, 1970), da molti considerato il primo capolavoro di Güney, che racconta la storia di un analfabeta che si mette alla ricerca di un tesoro per sostenere la propria famiglia. Seguirono Yarin Son Gündür (Domani è l’ultimo giorno, 1971), Kaçaklar (Fuggitivo, 1971), Baba (Il padre, 1971), Umutsuzlar (Il disperato, 1971), Agit (Elegia, 1972). Gli ultimi contro i primi. Un radicalismo popolare che inserì di diritto i lavori di Güney nel “Terzo cinema”.

La tesi del regista era chiara: in Turchia all’uomo povero non rimane che il delitto e la prigione, alla donna rimasta sola non resta che trovare un protettore. Inoltre il regista, insieme alle organizzazioni comuniste, fu tra i primi a porre l’attenzione sul problema curdo: “Anche se dicevano che i curdi non esistevano, che la lingua curda non esisteva, in casa si parlava curdo”.

Lo scontro con le autorità turche salì ulteriormente e Güney nel 1972 venne di nuovo incarcerato. Si costituì un comitato internazionale presieduto da Jean-Paul Sartre, appoggiato anche da star hollywoodiane come la coppia Elisabeth Taylor e Richard Burton, per chiederne la liberazione, ma il regista uscì solo due anni più tardi grazie ad un’amnistia generale. Era il maggio del 1974 e in Turchia andavano per la maggiore le commedie erotiche italiane, ma Güney tornò al suo cinema soffermandosi sulla situazione dei lavoratori del cotone in Endise (Preoccuparsi, 1974) e sui poveri in Zavallilar (Perdenti, 1975).

Queste pellicole, tuttavia, furono terminate dal suo assistente, Serif Gören ((Xanthi, 14 ottobre 1944), poiché Güney rimase in libertà pochissimi mesi. In una trattoria frequentata dalla troupe del suo ultimo lavoro, scoppiò una rissa e il giudice Sefa Mutlu, il procuratore del distretto Yumurtalik che lo aveva condannato due anni prima, rimase ucciso. Al processo 39 testimoni su 40 scagionarono il regista, ma i magistrati e i politici che li manovravano non potevano farsi scappare l’occasione di condannare nuovamente il regista che vantava ben due colpe: era curdo e comunista. L’omicidio pare fosse stato commesso dal nipote, ma la condanna colpì Güney con 19 anni di carcere da scontare in diversi penitenziari.

In queste condizioni chiunque avrebbe smesso di fare cinema, ma non Güney che attuò una specie di “resistenza cinematografica”. Il regista, infatti, continuò a scrivere sceneggiature e copioni, annotando anche ogni dettaglio tecnico, dalle inquadrature ai movimenti di macchina, dalla scelta dei luoghi alle espressioni degli attori, che poi riusciva ad inviare agli amici fuori dal carcere, anche grazie alle contraddizioni del regime carcerario dell’epoca e alla benevolenza di qualche guardia votata alla causa del prigioniero.

Con questo “metodo innovativo”, Yilmaz Güney realizzò Sürü (Il gregge, 1978) diretto dall’amico Zeki Ökten. Nella pellicola una famiglia di nomadi trasporta in treno un gregge di montoni per venderli al mercato di Ankara. Il ricavato dovrebbe servire per pagare le cure della giovane Berivan (Melike Demirag), che Sirvan (Tarik Akan) ha sposato nonostante appartenga al clan rivale.

Ispirato ad un episodio che accadde nel villaggio della madre, Il gregge è “Pessimista e disperato, il film trova la sua forza e la sua originalità nella capacità di intrecciare i vari generi che lo compongono (il melodramma, l’avventura pseudo-western, il pamphlet sociale) per offrire una riflessione lucida e disincantata sul vicolo cieco in cui sembra entrato lo sviluppo della Turchia”. Il gregge fu il primo film di Güney ad avere una distribuzione internazionale e si aggiudicò il Pardo d’Oro al Festival del cinema di Locarno nel 1979. Seguì Düsman (Il nemico, 1979) ancora diretto Zeki Ökten che ottenne una menzione speciale al 30° Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 1980.

Güney venne trasferito nell’isola carcere di Imrali in regime di semi-libertà e iniziò a scrivere Yol, traducibile con la strada. Un atto di denuncia contro il colpo di stato del 12 settembre 1980 guidato dal generale Kenan Evren, con particolare riferimento al popolo curdo. Una sceneggiatura dettagliatissima e precise indicazioni per la regia che Güney fece avere all’amico Serif Gören. Ma dopo quel colpo di stato, con la messa al bando delle organizzazioni comuniste, Yilmaz Güney iniziò a temere per la propria vita, ancor più dopo la programmata uscita internazionale di Yol. Così il regista, nell’ottobre del 1981, approfittò di un permesso per fuggire prima in Svizzera, dove montò personalmente il film, poi in Francia.

Cinque detenuti del carcere di Imrali ottengono la libertà per una settimana e viaggiano, dopo il colpo di stato, in una Turchia militarizzata. Il film ne segue le strade. Yusuf smarrisce i documenti ed è subito fermato. Seyit (Tarik Akan) tornato a casa apprende che la moglie Ziné (Serif Seze) lo ha tradito durante la sua carcerazione. I familiari invitano l’uomo ad ucciderla per riscattare l’onore perduto, ma la donna troverà la morte per assideramento su un ghiacciaio in cui violenza e perdono si fondono in una scena indimenticabile. Mehmet (Halil Ergün), responsabile della morte del cognato, torna dalla moglie e viene scacciato dai parenti della donna, che tuttavia fugge con il marito.
I due, dopo essere scampati ad un linciaggio per essersi chiusi insieme nella toilette di un treno, verranno uccisi dal fratello minore di lei. Mevlüt (Hikmet Çelik) si ritiene un uomo moderno, ma prescrive severi doveri coniugali alla moglie che implicano una cieca obbedienza al marito, mentre lui passa il tempo in un bordello. Il curdo Ömer (Necmettin Çobanoglu) trova il suo paese natale oppresso dall’esercito turco (notevole la scena del ritorno a casa in cui si passa dalla gioia nel rivedere il cane agli spari tra le case) e alla scadenza del permesso si rifiuta di tornare in carcere e si unisce alla resistenza curda.

Il film provò a far capire, prima ancora di denunciarla, la realtà turca fatta dal regime poliziesco (ossessiva la presenza dei militari) instaurato dopo il golpe e da una vita quotidiana scandita da rigide prescrizioni e da crudeli codici d’onore frutti di un’antica cultura patriarcale. “Con molto rigore, ma anche con molto equilibrio, l’autore conduce una doppia indagine: sul terreno politico e su quello antropologico, sulla geografia e sulla storia. Dal film non si solleva soltanto il grido contro la dittatura: c’è anche il grido di dolore più intimo, che concerne il tessuto sociale e le sue sopravvivenze feudali, dalla sessuofobia al delitto d’onore”.

Nel 1982 Yol venne presentato al Festival di Cannes. La giuria, presieduta dal regista teatrale Giorgio Strehler, gli conferì la Palma d’Oro ad ex aequo con Missing (1982) di Costa-Gavras. Per Strehler le due opere, sebbene diverse tra loro, difendevano la stessa causa di libertà e di dignità umana. Un’accoppiata “progressista” che ebbe un unico precedente dieci anni prima allorché ad aggiudicarsi il massimo riconoscimento furono La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri e Il caso Mattei (1972) di Francesco Rosi.
Evaso dal carcere Güney vinse in esilio la Palma d’Oro a Cannes

Il tema del carcere tornò anche nel successivo e ultimo film di Güney, Le mur (La rivolta, 1983) Ömer Lütfi Akad realizzato con il contributo del Ministero della cultura francese. Nella prigione di Ankara i detenuti, devastati dalle terribili condizioni, si ribellano sperando di essere trasferiti in un carcere “più umano”. Ma non esiste una prigione migliore. Un altro schiaffo al regime turco che nel frattempo, dopo avergli tolto la cittadinanza e averlo condannato ad ulteriori ventidue anni di prigione, chiese invano l’estradizione alla Francia.

Nel corso della sua tormentata vita, Yilmaz Güney ebbe tre importanti relazioni. La prima con Birsen Can Ünal con la quale ebbe la prima figlia Elif Güney Pütün, quindi nel 1967 sposò l’attrice Nebahat Çehre (Samsun, 15 marzo 1944), secondo gli amici l’amore della sua vita. Infine nel 1970 si unì in matrimonio a Jale Fatma Süleymangil (nota come Fatos Güney) che gli diede il secondo figlio Remzi Yilmaz Pütün. Il regista morì a Parigi il 9 settembre del 1984 per un tumore allo stomaco e venne sepolto nel cimitero di Père-Lachaise.

Nei sui scritti, nei suoi film Güney offrì sempre strumenti di riflessione, una possibilità di comportamento rivoluzionario e per questo la sua opera, cinematografica, letteraria e giornalistica, venne messa al bando in Turchia dal 1980. I suoi film furono proibiti fino al 1992. Yol uscì nelle sale solo nel 1999.

In carcere passò buona parte della vita. Totalizzò complessivamente condanne fino a raggiungere i cento anni di reclusione, nove anni aggiunti per ogni articolo in più pubblicato, ma come disse Yilmaz Güney “Ci sono solo due possibilità: combattere o rinunciare, ho scelto di combattere”.

Guarda “Yılmaz Güney’s YOL – The Full Version:

 

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alexik

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